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Arizona, messicani muoiono nel deserto per arrivare negli Usa

Ultimo Aggiornamento: 02/06/2015 16:20
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02/06/2015 16:20




 

Partono dalla cittadina messicana di Altar con qualche bottiglia d’acqua, lattine di Red Bull e un sacchetto di cibo. Troppo poco per una marcia estenuante nel deserto che può durare anche una settimana. E non «uno o due giorni» come promettono i coyotes, i trafficanti di uomini che portano «dall’altro lato» per mille, duemila dollari, rischi compresi. D’estate il nemico è il calore, con temperature oltre i 45 gradi. Di notte e d’inverno, il freddo. Muoiono disidratati o per ipotermia. Si perdono, vagano in circolo, sono rapiti dalla follia. Molti consumano le scorte il primo giorno, poi bevono l’urina, scavano i cactus cercando l’acqua, si denudano perché il corpo perde sensibilità e attendono la fine invocando San Toribio, il protettore degli immigrati. Ma come ha scritto una poetessa, «il Rosario e l’Ave Maria non bastano». Quando si segue El Camino del Diablo, una via aperta dai Conquistadores e oggi usata dai clandestini, «servono preghiere speciali». Chi sopravvive al clima, deve guardarsi dai banditi e dai narcos.

Come in un’antica parabola, in una terra dove spesso vige la legge del più forte, non mancano le anime buone. I samaritani, che provano a lenire le sofferenze. Loro missione è battere deserto e montagne, a piedi o in jeep, per lasciare bottiglioni d’acqua lungo i percorsi seguiti dagli immigrati. Mi arrampico all’alba con tre di loro sui monti di Tumacácori, a sud di Tucson. La frontiera è poche miglia più a sud. Ed, un passato da dirigente, è al volante di uno scassato fuoristrada pieno d’acqua. Peter, già funzionario di una grande banca, e il giudice Mike lo assistono nella missione. Un ex geologo, con l’aiuto di segnalazioni e la ricognizione diretta, ha preparato una mappa dei possibili sentieri. Quindi ne ha fissato le coordinate sul Gps. Da pensionati collaborano con una donna combattiva, Shura Walls, che coordina uno dei gruppi di solidarietà. Sono il cuore generoso dell’Arizona che si contrappone a quello arido di chi trova il tempo di danneggiare i contenitori per l’acqua.

Per scovare i passaggi, i samaritani seguono «i resti». Zainetti, lattine, felpe, scarpe, effetti personali. Oggetti che gli immigrati sono costretti ad abbandonare prima di essere recuperati dai camioncini che devono portarli più a nord. Ogni settimana i «Samaritani» e altre associazioni — come «No More Deaths», «Humane Borders» — vanno in aiuto degli «invisibili». Alcuni team sono in grado di prestare i primi soccorsi. Bendano i piedi ridotti a piaghe, applicano una flebo, sfamano. Altri pensano al rifornimento dell’acqua. Raggiunto il punto— un angolo sperduto— lasciano una dozzina di «boccioni», marcati con data e un codice. Quindi recuperano quelli vuoti, abbandonati da chi si è dissetato. Più a ovest, nel mezzo della riserva indiana Tohono O’odham, dove i «bianchi» non possono entrare, il compito ricade sulle spalle di un nativo-americano, Mike. Un tipo scorbutico quanto generoso che ha sfidato il no della tribù. Molti nella riserva, poverissima, sono complici dei trafficanti di marijuana. Mike, Berretto verde diventato insegnante, ha creato quattro postazioni nella terra dei suoi avi. Piccole gocce d’acqua in un mare di terra, cactus e rovi che ti aprono pantaloni e scarpe. La Tohono Reservation è una grande tomba a cielo aperto. È qui che si registra il numero più alto di vittime. Alcune, come il ragazzo senza nome, sono recuperate. Tante rimangono lì ad imbiancare sotto il sole. Quante? «Per ogni corpo trovato, calcoliamo che ve ne siano altri 10 o 20», dice Shura Walls. L’azione dei Samaritani si sovrappone ai corridoi dei clandestini. Il primo è a est di Nogales, il secondo punta su Arivaca lasciandosi a sinistra i monti Tumacácori, il terzo è a Occidente lungo la riserva Tohono fino a lambire El Camino del Diablo che piega verso Yuma. Spesso gli immigrati scelgono la via del deserto perché sperano di beffare la Border Patrol. Canyon selvaggi, torrenti secchi e alture possono servire per sfuggire alla ricognizione. Gli agenti rispondono come fossero in guerra. Pattugliano a cavallo o usando i potenti quad (moto a 4 ruote), aiutati dall’alto da elicotteri, e seminando sensori che segnalano il passaggio di un essere umano. Al loro fianco i poliziotti, forti della nuova legge decisa dal governatore, e qualche volontario diventato vigilante. Sentinelle di un muro che qui è stato completato solo in parte e che comunque non basta per fermare i clandestini.

Se la barriera non è un deterrente, non fa paura neppure la natura. Come dice Ed, il paesaggio cambia da una settimana all’altra. È facile perdersi e devi stare attento a dove metti il piede, un saliscendi continuo, basta un nulla per finire in un fossato con una caviglia slogata. Se il clandestino cade e non può più camminare, viene abbandonato. È toccato a minorenni che provavano a ricongiungersi coi genitori, a giovani senza lavoro, a campesinos del Chiapas che cercavano un’occupazione stagionale nelle piantagioni. Alcuni hanno avuto l’umile onore di una croce in legno tra le rare piante. Altri, dei quali non si conosce l’identità, sono ricordati con delle coordinate geografiche. Le ossa di una novantina sono state cremate e poi poste in minuscoli loculi. Due blocchi in cemento contrassegnati da numeri nel cimitero Evergreen di Tucson. È la sezione A, la più remota. Un grande spiazzo di terra, con molte tombe abbandonate, su cui sventola una grande bandiera americana.


www.corriere.it/…/olimpio-clandes…


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