Domani sarà un mese. I primi sono arrivati il 9 giugno. Erano cinquanta, sudanesi ed eritrei. Furono respinti dai gendarmi alla frontiera e decisero di passare la notte sugli scogli a due passi dal confine, nell’ultimo lembo di Italia, per protesta. Poco dopo divennero duecento, e furono giorni di tensione, di proclami e solenni impegni. Poi passò il tempo, accaddero altre cose giudicate più importanti, in fondo va sempre così. L’attenzione si spostò altrove.
Molti di loro se ne andarono, i più rassegnati. Sugli scogli sono tornati a essere quelli che erano all’inizio. La conta di questa mattina dice 51. C’è una sola camionetta della Polizia a guardarli. «Non se li fila più nessuno - dice l’agente -. Vadano dove vogliono, se ci riescono, noi di certo non li inseguiamo, anzi». Ai lati della statale che conduce ai Balzi rossi è pieno di auto parcheggiate. I bagnanti scendono con materassini e teloni e scompaiono nella spiaggia sottostante. Il mercatino del venerdì è ricominciato. Al bar dall’altra parte della strada ne parlano come se fossero cose inanimate. «Stanno fermi» dicono alzando le spalle.
I migranti accampati sugli scogli erano una emergenza umanitaria e sono diventati un elemento del paesaggio. Ogni tanto passa qualche troupe televisiva e allora Yussah, la mediatrice culturale marocchina, si incarica di garantire colloqui precari con traduzioni annesse. Intorno a questi cinquanta disperati si è formato un microcosmo di finta normalità. Al mattino passano i volontari della Croce rossa, risveglio e acqua per tutti. Sul marciapiede è stato montato un punto per la ricarica dei telefonini. Nelle ore più calde si spostano quasi tutti all’ombra degli edifici in fondo alla passeggiata. All’ora di pranzo i migranti a digiuno per il Ramadan rivolgono sguardi languidi ai piatti di pasta cucinati dai ragazzi dei centri sociali.
Al pomeriggio arrivano i volontari di Mentone e Ventimiglia, carichi di buone intenzioni e libri donati dalle biblioteche. Le loro lezioni si svolgono a gesti, nessuno dei ragazzi che cercano di apprendere qualche nozione utile sulle loro terre promesse parla inglese o francese.
Le giornate non passano, si trascinano, in una solitudine e in un disinteresse piuttosto palpabili. Enrico Ioculano, il giovane sindaco di Ventimiglia, si fa vedere due volte al giorno, qui e in stazione, dove il vai e vieni ai binari è uno spettacolo crudele e surreale. Da un treno in arrivo vengono fatti scendere i migranti respinti in Francia. Da quello in partenza dal binario accanto salgono di soppiatto quelli che provano a passare. «Una volta che il caso politico è stato disinnescato - dice Ioculano - siamo ritornati nel nostro splendido isolamento. Io telefono e chiedo che cosa devo fare, nessuno mi risponde. Ma se soltanto un mese fa questa era una grande emergenza europea, le sembra giusto che adesso la debba risolvere il sindaco di Ventimiglia?».
I dimenticati dei Balzi rossi sono liberi di andare dove vogliono. Ma non si muoveranno da qui. L’esodo è cominciato due venerdì fa, quando i migranti raccolti intorno alla radio capirono che dal vertice europeo non sarebbe arrivato niente di buono per loro. Quelli che restano sono i più disperati tra i disperati. Come Ibrahim e suo cugino, sempre più affaticati dal digiuno. Al tramonto chiedono dove poter trovare una cartina che indichi una strada tra le rocce, verso il confine più in alto. «Tanto prima o poi ce la faremo a passare». Li interrompe il suono del clacson proveniente da una colonna di auto che ha appena passato il confine di Stato. Sono quelli della Fratellanza islamica di Nizza. L’imam distribuisce pasti caldi a tutti. È scesa un’altra volta la sera, almeno si può mangiare.
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