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Un anno fa il naufragio del piccolo Aylan, ma nulla è cambiato.

Ultimo Aggiornamento: 03/09/2016 21:12
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03/09/2016 21:12

Un anno fa il naufragio del piccolo Aylan, ma nulla è cambiato.
A un anno di distanza, le coste del Mediterraneo sono costellate da troppi Aylan. Secondo l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati, finora, solo nel 2016 sono morte 3167 persone nel tentativo di attraversare il Mediterraneo (erano 1850 nei primi sei mesi del 2015). Dalla strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013, il numero è arrivato a 11.112, l’equivalente di una piccola città. Tra i dispersi, non mancano i corpi dei neonati finiti mangiati dai pesci e corrosi dal sale. Intanto, i leader del mondo continuano a non dare risposte alla crisi dei rifugiati, che nel pianeta hanno superato i 60 milioni: dalla Seconda guerra mondiale non era mai stata raggiunta una cifra così alta. A luglio, i negoziati preparatori del vertice delle Nazioni Unite sui rifugiati del 19 settembre hanno rinviato al 2018 l’esame della proposta del segretario generale Ban Ki-moon di un “Global compact sulla condivisione delle responsabilità sui rifugiati”.

Il 2018 è tra due anni: evidentemente c’è tempo. «Tra pochi giorni rischiamo di assistere a un altro conclave di leader mondiali che terminerà con dichiarazioni ipocrite mentre altri bambini resteranno a soffrire», è la triste previsione di Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International. Proprio in questi giorni, un’altra foto ha commosso il mondo. Quella di Omran, 5 anni, divenuto il simbolo della tragedia siriana (siamo al sesto anno del conflitto) e di Aleppo, una città assediata che nel suo silenzio di morte accusa il mondo distratto. Il bambino, estratto ancora vivo dalle macerie di un palazzo, è seduto in un’ambulanza. Ha lo sguardo ancora intontito, senza più la forza per piangere, l’occhio sinistro mezzo chiuso dal sangue, la maglietta stropicciata con stampato sopra CatDog, il personaggio dei cartoni animati.

Il fratellino di Omran è invece morto, anche lui colpito da un “barile bomba”, le botti riempite di tritolo e pezzi di metallo per diventare ancora più mortali. Proiettili imprecisi che uccidono soprattutto civili, lasciati cadere sulle case, su tutto quello che c’è sotto all’elicottero o all’aereo. Infine, a un anno dalla morte di Aylan, c’è un’altra immagine che va ricordata. Quella del 4 febbraio di Falak, una bimba malata di tumore all’occhio che ha sette anni e viene da Homs, un’altra delle città martiri siriane. Atterra con un volo Alitalia a Fiumicino: la sua famiglia è la prima dei mille profughi che arriveranno in Italia, in modo sicuro e legale, grazie al progetto dei corridoi umanitari, realizzato dalla Comunità di Sant’Egidio insieme alle Chiese evangeliche, alla Tavola valdese e al Governo italiano. Ai mille vanno poi aggiunti i dodici siriani, fatti salire il 16 aprile da Papa Francesco sul suo volo di ritorno dopo la visita all’isola greca di Lesbo, che oggi sono ospiti a Roma in una struttura di Sant’Egidio.

Ecco, è proprio qui il punto: Aylan è affogato perché non aveva altre vie per fuggire alla guerra che distruggeva la sua città. O meglio, le alternative ci sarebbero, come i corridoi umanitari – che sarebbero più sicuri, meno costosi, legali, e non finanzierebbero i trafficanti – ma si preferisce non praticarle. Dal Canada, Teema Kurdi, zia di Aylan, spiegò nelle ore successive alla morte del nipote: «Stavo cercando di fare loro da garante per il visto, e per questo amici e vicini di casa mi stavano aiutando con il deposito in banca, ma non siamo riusciti a farli venire qui. Ecco perché hanno preso una barca».

www.famigliacristiana.it/articolo/aylan-un-anno-d…


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