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DALLA LETTERA APERTA DELLE RACCOGLITRICI DI TE' IN MUNNAR (INDIA) SETTEMBRE 2015



Infine quelle lavoratrici senza nessuna esperienza sindacale, e spesso semianalfabete, hanno vinto – almeno in parte. Hanno costretto la Kannan Devan Hill (cioè Tata) a ripristinare il bonus. Infine hanno accettato un accordo per un salario di 301 rupie giornaliere: non sono le 500 rupie che loro chiedevano, ma è pur sempre un aumento del 30 percento. Forse ancora più importante, hanno costretto i rappresentanti delle aziende e i sindacalisti a fare i conti con loro.
«Hanno portato alla luce le terribili condizioni di vita e di lavoro in piantagioni ancora coloniali», commenta il quotidiano The Hindu. «Migliaia di donne dalit hanno … rappresentato se stesse in una coraggiosa ribellione contro il capitalismo e il patriarcato, inclusa una struttura sindacale dominata da uomini». Hanno chiamato in causa uno stato assente («le piantagioni sono mini-imperi … l’assenza dello stato è un’eredità coloniale»), sindacati apatici o complici, e un’industria delle piantagioni fondata sullo sfruttamento. (In settembre la Bbc aveva descritto una situazione altrettanto terribile nelle piantagioni dell’Assam, nel nord).


Revocato lo sciopero, ora il «Pombilai Orumai» vuole trasformarsi in un sindacato a tutti gli effetti, forse presentare candidate alle prossime elezioni locali. «Sappiamo cosa vogliamo», ha detto una delle leader della lotta, Lissy Sunny (a Catch). Sunny ha 46 anni e ha lavorato nelle piantagioni per 23 anni – metà della sua vita. «Siamo state costrette a lottare giusto per salvare le nostre vite. Lavoriamo 12 ore al giorno ma non avevamo niente, neppure del cibo decente. Vivevamo peggio del bestiame», dice. «Non abbiamo nulla da perdere. Fame e sofferenza sono parte delle nostre vite. Ma non permettiamo più a nessuno di sfruttarci. Troppo è troppo».
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