00 13/07/2011 11:41



SOFFERENZA




La sofferenza va oggi aumentando nel mondo. La gente ha fame di qualcosa di più bello, di qualcosa di più grande di quel che i circostanti possano dare. Oggi nel mondo c’è una grande fame di Dio. C’è tanta sofferenza dappertutto, ma c’è una grande fame di Dio e di amore reciproco.


C’è fame del pane ordinario, e c’è fame di amore, di cortesia e di riflessione; e c’è la grande povertà, che fa soffrire tanto la gente.
La sofferenza presa in se stessa è niente: ma la sofferenza condivisa con la passione di Cristo è un dono meraviglioso. Il dono più bello che uno possa ricevere è di poter prendere parte alla passione di Cristo. Sì, un dono e un segno del suo amore; perché questo è il modo con cui il Padre ha dimostrato di amare il mondo: mandando il Figlio a morire per noi.


Così in Cristo è stato dimostrato che il dono più grande è l’amore: perché la sofferenza è stata il segreto con cui egli ha pagato per il peccato.


Senza di lui non potremmo far nulla. Ed è all’altare che noi incontriamo i nostri poveri sofferenti. Ed è in lui che vediamo come la sofferenza può diventare un mezzo per amare di più ed essere più generosi.


Senza la sofferenza la nostra attività sarebbe un’attività sociale, un’attività molto buona e giovevole, ma non sarebbe l’opera di Gesù Cristo e parte della redenzione. Gesù ha voluto soccorrerci condividendo la nostra vita, la nostra solitudine, la nostra agonia, la nostra morte e ci ha redento solo unendosi strettamente a noi.
Noi siamo chiamati ad agire allo stesso modo; dobbiamo redimere tutta la desolazione dei poveri: non soltanto la loro povertà materiale, bensì anche la loro miseria spirituale. E dobbiamo condividerla, perché solo unendoci strettamente a loro possiamo redimerli, portando Dio nella loro vita e portando loro a Dio.


La sofferenza, quando è accettata insieme e portata insieme, diventa gioia.
Tra i nostri collaboratori abbiamo degli ammalati e degli handicappati, che molto spesso non possono svolgere alcuna attività. Così essi adottano una Sorella o un Fratello e offrono tutte le loro sofferenze e tutte le loro preghiere per quel Fratello o quella Sorella, che a loro volta coinvolgono pienamente il collaboratore ammalato in tutto ciò che essi fanno. I due diventano come una sola persona e si chiamano l’un l’altro il loro secondo se stesso. Io ho una seconda me stessa di tal genere in Belgio, e quando sono stata ultimamente là, lei mi ha detto: “Son sicura che avrai molto da fare, molto da camminare, lavorare e parlare. Lo so dal dolore che provo alla spina dorsale e dalla operazione molto dolorosa che ho dovuto subire poco tempo fa”. Si trattava della diciassettesima operazione, e tutte le volte che ho qualcosa di speciale da compiere, è lei che mi sta dietro e mi dà la forza e il coraggio necessari a fare quel che devo fare per compiere la volontà di Dio. E’ questa la ragione che mi rende capace di fare quel che sto facendo: la mia seconda me stessa compie per me la parte indubbiamente più difficile dell’opera.


Mie care sorelle e miei cari fratelli sofferenti, siate certi che ognuno di noi fa leva sul vostro amore davanti al trono di Dio, e là ogni giorno noi vi offriamo, o meglio ci offriamo a vicenda a Cristo per le anime. Quanto grate dobbiamo essere noi Missionarie della Carità: voi perché soffrite e noi perché lavoriamo. Completiamo a vicenda quel che manca nella nostra relazione con Cristo. La vostra vita di sacrificio è il calice, o piuttosto i nostri voti sono il calice e la vostra sofferenza e la nostra attività sono il vino, il cuore immacolato. Stiamo insieme in piedi sostenendo il medesimo calice e siamo così in grado di placare la sua ardente sete di anime.


Trovo il lavoro molto più facile e riesco a sorridere più sinceramente quando penso a ognuno dei miei fratelli e delle mie sorelle sofferenti. Gesù ha bisogno di voi per continuare a versare nella lampada della nostra vita l’olio del vostro amore e del vostro sacrificio. Voi state veramente rivivendo la passione di Cristo. Contusi, sezionati, pieni di dolori e di ferite come siete, accettate Gesù così come egli viene nella vostra vita.


Se qualche volta la nostra povera gente è morta di fame, ciò non è avvenuto perché Dio non si è preso cura di loro, ma perché voi ed io non abbiamo dato, perché non siamo stati uno strumento d’amore nelle sue mani per far giungere loro il pane e il vestito necessario, perché non abbiamo riconosciuto Cristo quand’egli è venuto, ancora una volta, miseramente travestito nei panni dell’uomo affamato, dell’uomo solo, del bambino senza casa e alla ricerca di un tetto.
Dio ha identificato se stesso con l’affamato, l’infermo, l’ignudo, il senza tetto; fame non solo di pane, ma anche di amore, di cure, di considerazione da parte di qualcuno; nudità non solo di abiti, ma anche di quella compassione che veramente pochi sentono per l’individuo anonimo; mancanza di tetto non solo per il fatto di non possedere un riparo di pietra, bensì per non aver nessuno da poter chiamare proprio caro.




(continua)