00 08/09/2011 17:55
LA NAVE CHE UCCIDEVA - 3





Tutte le sinapsi del corpo ìncapsulato di Helva vibravano in una ribellione incondizionata contro l’autocrazia del Servizio dei Mondi Centrali.
“Sempre fretta, sempre fretta,” ringhiò impotente rivolgendosi alla nave sorella, la 822, sulla banda privata nave-a-nave che neppure il Cencom poteva intercettare.
La SeId Ilsa sbuffò.
“Per lo meno tu fai qualcosa, e io non posso dire altrettanto. Ho passato settimane intere ad aspettare che decidano quale è la crisi più grave. E quando saremo arrivati, il guaio sarà già successo, e avremo il nostro da fare a ripulire i cocci.”
“Credi che il Servizio Medico non tiri per le lunghe a sua volta?” ribatté Helva. “Ma se Jennan e io.. .“ Poi s’interruppe, sorpresa nell’accorgersi che era riuscita a pronunciare il nome di lui.
Ilsa approfittò di quella breve pausa per continuare a brontolare.
“Quando penso alle situazioni in cui mi sono già trovata! Situazioni imprevedibili, che nessuno ci aveva insegnato a fronteggiare. Teoria, procedura, tecnica, ecco cosa ci insegnano. Neanche un’idea pratica. Solo scemenze inutili. Non hanno bisogno di cervelli, hanno bisogno di calcolatori! Di stupidi calcolatori privi di sentimenti!”
Helva notò le lacune del ragionamento della 822, ma tacque. Lei e Ilsa erano state compagne di scuola, e conosceva bene i difetti della personalità dell’altra.
“Ho sentito dire,” fece la 822 in tono confidenziale,
“che la tua missione ha qualcosa a che fare con quell’edificio azzurro vicino all’ospedale.”
Helva regolò il visore di poppa, ma l’edificio oblungo non presentava nessuna caratteristica insolita.
“Non hai sentito dire per caso quando dovrò andarmene da qui?” chiese speranzosa a Ilsa.
“Non posso parlare, adesso. Sta tornando Seld. Ci sentiamo.”
Helva osservò il compagno di llsa che saliva a bordo, segui con lo sguardo la SI 822 che decollava dalla Base di Regulus. Seld era stato invitato a bordo da Jennan, una volta, quando entrambe le navi si trovavano su Leviticus IV. Seld aveva una discreta voce di basso, Helva lo ricordava. Per un attimo, l’invidia la sfiorò. Tornò a osservare l’ambiguo edificio accanto all’ospedale, chiedendosi quale sarebbe stata la sua missione. E doveva rimanere una X per tutto il resto della sua vita?
Si era posata all’estremità del grande spazioporto di Regulus, lontano dal cimitero dei Caduti. Benché si fosse rassegnata alla perdita di Jennan, e benché le lacrime piante per lei da Theoda l’avessero guarita, Helva non se la sentiva di accostarsi alla tomba del suo compagno. Forse fra un secolo... Ma intanto, attendere su Regulus era doloroso. Adesso che la 822 se ne era andata, non poteva più sfogare nella rabbia il dolore prolungato dall’attesa.
“KH-834, il tuo ‘braccio’ sta arrivando con la bobina della missione,” l’avvertì il Cencom.
Helva diede il ‘ricevuto’ al messaggio, incuriosita. Era quasi un sollievo sentirsi di nuovo chiamare con la doppia iniziale: e quel sollievo quasi cancellava il rimpianto che il suo nuovo compagno fosse una donna. Ed era un sollievo accorgersi d’essere di nuovo capace di qualche emozione. L’esperienza su Annigoni aveva distrutto la sua apatia.
Dal complesso di edifici dello spazioporto, una macchina si avvicinò, si fermò accanto a lei. Senza aspettare, Helva abbassò l’ascensore, e rimase ad osservare una minuscola figura che vi caricava tre valige.
‘K’ aveva intenzione di restare con lei per un po’, si disse Helva. L’ascensore sali, e un attimo dopo la sua nuova compagna apparve incorniciata nel portello aperto, sullo sfondo del fulgido cielo di Regulus.
“Kira di Canopo chiede il permesso di salire a bordo della XH-834,” disse la giovane donna, volgendosi verso la colonna nella quale si trovava Helva, dietro la paratia di titanio.
Permesso accordato. Benvenuta a bordo, Kira di Canopo.”
La ragazza spedì a bordo, con un calcio, una sacca di tela cerata, ma trasportò le altre due valige con molta cura nella cabina del pilota. Una di esse aveva una forma strana, dopo un attimo di riflessione Helva l’identificò: era un antico strumento a corde, chiamato ‘chitarra’.
‘E’ naturale che mi abbiano mandato qualcuno con la passione per la musica,’ pensò. Ma non era certa di essere soddisfatta: era un’intrusione nei suoi ricordi. Scacciò quel pensiero, molti esploratori avevano la passione per la musica: era un’arte che aiutava a fare passare il tempo, durante i viaggi.
Kira apri l’altra valigia e Helva, sbirciando di nascosto, vide che era piena di fiale e di strumenti medici. Kira controllò tutto, poi richiuse la valigia e la legò saldamente allo scaffale dietro alla cuccetta.
Per figura e carattere, e non solo per il sesso, Kira era l’opposto di Jennan. Helva si chiese se quelli del Controllo gliel’avevano mandata apposta. Kira di Canopo non poteva pesare più di quaranta chili, aveva un viso dagli zigomi alti, delicatissimo, dai lunghi capelli scuri intrecciati e disposti in corona attorno al capo. Gli occhi a mandorla erano di un verde limpido e profondo, orlati da lunghe ciglia. Aveva mani e piedi sottili e affusolati, movimenti svelti e sicuri, carichi di energia irrequieta.
Kira rientrò nella cabina principale. Helva, abituata ai movimenti lenti di Theoda, si sorprese della sua rapidità. La ragazza inserì il nastro, e mentre lo ascoltava, Helva emise un’esclamazione di stupore.
“Trecentomila bambini?” Kira rise, allegramente.
“Questa è la Missione Cicogna!”
“Sei assegnata a me temporaneamente?” chiese Helva, cercando di non mostrarsi irritata. In Kira c’era qualcosa di magnetico che l’attraeva. Kira sorrise sarcasticamente.
“Ci vorrà un po’ di tempo prima di compiere questa missione. Finora ce ne sono soltanto trentamila. Anche con il progresso e tutto il resto, fare bambini richiede un certo tempo.”
“Ma io non ho…” cominciò Helva, inorridita al pensiero di diventare un asilo-nido. Poi s’interruppe, mentre il nastro comunicava le condizioni del carico. “Bambini su nastro?”
Kira, che era stata informata in precedenza della missione, rise della sua reazione. Il nastro prosegui, e Helva capi il significato dei chilometri di tubi di plastica e dei serbatoi di fluido che erano stati caricati nelle sue piccole stive.
Nel sistema della stella Nekkar, una radiazione imprevedibile aveva sterilizzato la popolazione del pianeta colonizzato da poco. E un guasto alla centrale elettrica aveva causato la perdita degli embrioni immagazzinati nella banca apposita. La missione di KH-834 consisteva nel portare embrioni a Nekkar dai pianeti che avevano raccolto l’appello.
Durante i primi tempi dell’era spaziale, quando l’uomo non era ancora giunto su Marte e su Giove, la genetica aveva compiuto progressi enormi. Un feto umano era stato trasferito dall’utero d’una donna ad un altro: la madre ospite aveva partorito il bambino, che non era suo figlio. Un altro grandissimo passo avanti era stato compiuto quando uno spermatozoo maschile era stato unito in provetta a un ovulo femminile. La fecondazione era riuscita, il feto era maturato, e il bambino era diventato un adulto perfettamente normale. Ed era andata a finire così: quelli che facevano professioni pericolose, o che possedevano caratteristiche perfette d’intelligenza o di bellezza, donavano spermatozoi od ovuli all’Agenzia per la Conservazione della Razza.
Da quando la civiltà si era espansa su mondi nuovi e pericolosi, i giovani lasciavano il loro seme all’ARC appena raggìungevano la maggiore età: era opportuno avere disponibile un materiale genetico così prezioso. Se si presentava l’occasione, era sufficiente ricorrere agli embrioni per ristabilire l’equilibrio.
Individualmente, una giovane vedova poteva mettere al mondo i figli del marito morto facendosi fecondare con il seme di lui custodito dall’ARC. Un uomo che voleva un figlio dotato di certe caratteristiche per perpetuare il nome o l’azienda di famiglia, lo chiedeva all’ARC. Naturalmente, c’erano anche casi ridicoli: donne isteriche che volevano avere un figlio da un celebre attore o da uno spaziale famoso. Comunque, in generale i bambini continuavano a nascere come erano sempre nati: anche Helva era nata da una fecondazione normale.
Abitualmente, I’ARC era una specie di riserva per i Mondi Centrali, nei casi di necessità come quello che si era verificato su Nekkar. Un appello era arrivato sulla Terra alla Direzione dell’ARC: bisognava trovare e consegnare trecentomila ovuli fecondati d’un tipo genetico affine a quello nekkarese. L’ARC ne aveva a disposizione solo trentamila, e aveva inoltrato una richiesta alle altre banche ARC più importanti chiedendo di fornire il quantitativo restante: e la KH-834 doveva portare il carico a Nekkar.
Il nastro finì. Helva pensò che adesso conosceva la sua missione, ma non sapeva nulla della sua compagna. Anche se l’incarico era temporaneo, sarebbe durato abbastanza a lungo. Per poter funzionare efficientemente, Helva doveva conoscere i dati biografici di Kira. C’erano molti fattori strani, in quella missione. I Mondi Centrali, qualche volta, facevano i misteriosi.
“Bene,” esclamò Helva. “Non mi aspettavo di diventare madre alla mia tenera età.’
Quella battuta scherzosa provocò una violenta reazione da parte di Kira, e Helva si meravigliò.
“Leggi questo nastro prima di incominciare la missione,” disse Kira, con voce spenta. Premette il pulsante, e inseri un secondo nastro. Accese l’audio quasi con rabbia, e restò seduta, rigida, come se non sentisse.
A Kira Falernova Mirsky di Canopo mancava solo un anno per completare l’addestramento come esploratore. Veniva da una famiglia che da dieci generazioni aveva fornito alti funzionari ai Mondi Centrali. Aveva abbandonato gli studi per una licenza matrimoniale che era durata due anni, e che si era conclusa con la morte di suo marito.
Poi era rimasta in ospedale per molto tempo: aveva seguito un corso di studi di medicina, ma non aveva ripreso l’addestramento come esploratore. Aveva accettato quell’incarico temporaneo perché glielo aveva chiesto un personaggio autorevole, dato che la sua preparazione la rendeva particolarmente adatta a quel caso specifico.
Seguivano parecchi dati personali: come Helva aveva previsto, quei dati indicavano che Kira Mirsky di Canopo sarebbe stata un ottimo esploratore, se l’avesse voluto. Il nastro s’interrompeva bruscamente: doveva esserci stata un’omissione voluta: e non c’erano le solite raccomandazioni, I Mondi Centrali agivano in modo strano... Quella biografia taceva troppe cose. Helva si arrovellò il cervello, ma per il momento si trovava in una situazione imbarazzante, e la sua compagna sembrava molto rigida e mal disposta ad adattarsi a lei.
Helva emise un suono sibilante, e fu soddisfatta nel notare la sorpresa di Kira.
“Ma dove hanno il cervello?” chiese Helva sprezzante. “Quello sarebbe un nastro. Puah!” E ripeté il sibilo disgustato. “Oh, bene, credo che andremo d’accordo egualmente, anche se quelli hanno lasciato fuori le scemenze di rito. E poi, questo incarico è solo temporaneo.”
Kira non disse nulla, ma si scongelò un poco. Deglutì, si leccò nervosamente le labbra, ancora incerta: si era preparata ad affrontare qualcosa di spiacevole, evidentemente.
“E va bene, completiamo il carico e partiamo.”
Kira si alzò, impacciata, ma riuscì a sorridere in direzione della colonna di Helva.
“Con piacere. Le stive sono attrezzate?”
“Con chilometri e chilometri di cavi e una bicicletta per due,” rispose Helva, citando una vecchia canzoncina. Era decisa a stabilire un clima di empatia con quella ragazza.
Il sorriso di Kira divenne più spontaneo.
“Sì, dev’essere più o meno così.”
“Beh, io non ho mai visto una bicicletta per due...”
“E neanche una vacca viola?” fece Kira, con una risata da ragazzina.
“Uhm. Una vacca viola, mio caro braccio, mi ricorda un po’ troppo la nostra missione,” rispose Helva. “E non dirmi che a bordo ho spazio sufficiente per trecentomila poppatoi.”
“Oh, no!” fece Kira. “E poi, il primo carico sarà di centomila. Andremo da Regulus a Nekkar, raccogliendo gli embrioni strada facendo, e li consegneremo entro il limite di quattro settimane... E’ il limite massimo per impiantare i feti. Poi ricominceremo il girotondo fino a quando avremo compiuto la missione.”
Helva lo sapeva già, grazie al nastro.
“Trecentomila bambini non sono molti per una popolazione planetaria d’un milione di individui, che ha bisogno di espandersi.”
“Mia cara KH-834,” disse Kira, “la parola ‘temporaneo’ che adoperano nel nostro amato Servizio è molto elastica. E poi, un’altra squadra sta raccogliendo orfani su mondi poco civilizzati, per assicurare una certa disetaneità. Ma i bambini già nati non sono affar nostro.”
“Sia ringraziato il cielo!” mormorò sottovoce Helva. Non aveva né lo spazio né la voglia di trasportare tanti piccoli esserini vivi.
Kira si girò a sorriderle, mentre si metteva in contatto con l’Ospedale.
“Ti dispiace attivare il sistema di pompaggio?” chiese a Helva, che si accingeva per l’appunto a farlo.
Le tubazioni di plastica, una volta piene di ovuli fertilizzati, avrebbero dovuto mantenerli nei liquidi amniotici e nutritivi necessari.
Il nastro di minuscoli scomparti, ognuno dei quali conteneva un piccolissimo organismo vivente, era stato preparato con ogni cura. Ogni segmento doveva essere a contatto con una minuscola presa di liquido nutriente e con un piccolissimo tubo di scarico. Ogni metro di nastro doveva essere controllato, per accertare che tutto fosse a posto. Le imbottiture dovevano essere perfette, per difendere gli embrioni da ogni scossa. I trentamila embrioni dovevano arrivare vivi a Nekkar.
Helva comprese che Kira, sia pure con un certo distacco, era molto presa dalla sua missione. I Mondi Centrali potevano contare sul suo istinto materno. Con suo divertimento, Helva si accorse di essere ansiosa, a sua volta, di dimostrarsi all’altezza della situazione. Kìra, che era evidentemente tanto giovane, e che un giorno avrebbe potuto provare le gioie della maternità, sembrava prendere la faccenda come una cosa naturale. Ma Helva provava per quegli embrioni un’affinità che era fondamentalmente una reazione di solidarietà. Gli embrioni erano incapsulati come lei: ma c’era una differenza. Loro sarebbero usciti dal guscio, e lei non avrebbe mai potuto farlo, anche se lo avesse voluto. Comunque, provava il desiderio di proteggere i suoi minuscoli passeggeri. Quella situazione non sembrava sfiorare la psiche di Kira, invece, e Helva se ne domandava il perché.
Cercò di spiegarsi la freddezza di Kira, ma non ci riusci. Poi i tecnici, dopo avere installato il prezioso carico, se ne andarono, ed Helva dovette impegnarsi nella procedura del decollo.
Era un piacere avere a bordo una passeggera che sapeva badare a se stessa. Theoda non era stata un peso, psicologicamente, ma Kira conosceva le procedure, e Helva non doveva preoccuparsi di lei. Parti con una spinta minima, perché gli embrioni non ne risentissero… e poi, aveva tutto il tempo.
La prima fermata sarebbe stata fatta a Talitha, dove erano stati preparati quarantamila futuri cittadini di Nekkar. Dopo la partenza, Kira controllò con cura tutti i circuiti della stiva, e informò il Cencom che stavano puntando verso Talitha.
Concluse le formalità, Kira cominciò a dondolarsi nella poltroncina del pilota. Sembrava più fragile e più giovane: anche troppo, per la responsabilità che stava affrontando.
“La cambusa è ben fornita,” le suggerì Helva.
Kira si stiracchiò, scosse il capo, facendo piovere nella cabina una quantità di forcine; la corona di trecce si sciolse. Helva la guardò, affascinata. Le donne spaziali portavano i capelli lunghi fino alle spalle; ma le punte delle trecce di Kira toccavano il pavimento. Adesso, lei sembrava una ragazzina. Lasciò la poltrona imbottita e si avviò verso la cambusa.
“Non avresti per caso un po’ di caffè?” chiese.
Helva ridacchiò, pensando a Onro. A quanto pareva, era un genere di prima necessità.
“Ne ho una quantità tripla rispetto al normale,” dichiarò, in tono rassicurante.
“Oh!” Kira alzò gli occhi al soffitto, in un’estasi ironica. “Lo sapevi, dunque! La nave che mi ha portato a Regulus era un trasporto provinciale di Draconis, e non aveva una goccia di caffè a bordo. Per poco non sono morta!”
Kira apri lo sportello, ruppe il sigillo del riscaldatore, e aspirò l’aroma fragrante del caffè. Ne ingoiò un sorso, con una smorfia, poi, con un’espressione di intenso sollievo, si appoggiò al banco.
“Tu ed io ce la caveremo magnificamente, Helva. Ne sono certa.”
Helva notò la tensione della fatica in quella voce: possibile che le toccassero sempre viaggiatori in stato di esaurimento? Oppure era colpa sua, se tutti i suoi visitatori avevano l’abitudine di addormentarsi appena a bordo? Come se una nave asilo-nido come questa potesse essere un divertimento, pensò, acida.
“E’ stata una giornata pesante per te, Kira. Perché non dormi un po’? lo resterò sveglia comunque. Kira ridacchìò, poiché sapeva che le navi-cervello non dormivano mai. Lanciò un’occhiata in direzione della stiva
“Resterò io di guardia,” promise Helva.
“Finirò il caffè e farò una dormita,” disse Kira. Quando fu sulla porta della cabina si girò verso la colonna di Helva, inclinando leggermente il capo, con gli occhi che le scintillavano “Helva, tu sbirci?” La sua espressione era diventata austera.
“Sono una nave bene educata, ti giuro” rispose Helva, dignitosamente.
“Mi auguro che tu ti comporti sempre in modo decoroso “ disse Kira, altezzosamente. A testa alta, entrò in cabina e inciampò nelle proprie trecce. Helva provò la tentazione di dare un’occhiata al suo viso.
“Non azzardarti a curiosare!” esclamò Kira, con voce rotta dalle risate.
Helva non aveva promesso di spegnere l’audio, e senti Kira che ridacchiava. Dopo un po’, tuttavia solo il rumore del suo respiro, nel sonno, infrangeva il silenzio della nave.
Helva tolse dall’archivio il nastro che recava le note biografiche di Kira. Dopo l’interruzione, il discorso riprendeva: ed era breve ed enigmatico.
“L’Esploratore Mirsky è una Dylanista praticante. Di conseguenza, non è autorizzata alla franchigia sui pianeti seguenti, poiché le sue attività costituiscono una violazione delle leggi planetarie che vietano il proselitismo: Ras Algothi, Ras Alhague e Sabek. L’Esploratore Mirsky e la sua nave non debbono, ripeto, non debbono avvicinarsi ai pianeti delle stelle Baham e Homan del Settore di Pegaso o ai pianeti delle stelle Beid e Keid del Settore Eridano.”
L’ordine era chiarissimo, ma il motivo era insondabile. E Kira era una Dylanista praticante... chissà cosa voleva dire. Ma quel nome aveva un suono familiare, e la chitarra che Kira aveva portato con sé faceva pensare ad una consorteria musicale. Bene, si disse Helva, avrebbe cercato di farla parlare.
Durante i sei giorni di volo per Talitha, Kira continuò a cambiare bruscamente umore, passando dalla monelleria alla maestà; e Helva ne fu contenta, dopo la tristezza di Theoda che aveva fatto da contrappunto al suo dolore per la morte di Jennan. Helva non sapeva cosa poteva aspettarsi, da Kira. Ma, quando veniva il momento di controllare i passeggeri, quella ragazza ridiventava efficiente e professionale.
Dubhe, il secondo pianeta del loro giro, avvertì che i quarantamila ovuli fecondati erano pronti per la consegna. Kira controllò i calcoli, con sbrigativa efficacia. Anche se aveva l’aria della bambina, aveva una mente acuta e pronta. Il carico, a Talitha, si svolse alla perfezione. Kira badava a tutti i particolari, per evitare ogni possibile incidente.
Un assistente, ansioso di completare le operazioni, inciampò nei cavi di un serbatoio di fluido, nella stiva che era ormai piena.
Kira sì lanciò in un furioso catalogo dei suoi antenati, del suo valore attuale e della sua futura carriera, e minacciò di farlo radiare dal servizio se avesse ripetuto il suo errore: e lo disse in tre lingue oltre al Basico che conosceva Helva, e che avevano il vantaggio di suonare anche più dure. Ma dopo un istante, Kira si calmò, e si scusò con il funzionario che dirigeva le operazioni di carico.
Quando furono ripartiti da Talitha, Kira scosse via le forcine che le trattenevano le trecce e si abbandonò sulla poltrona con un sospiro di sollievo.
“Ho capito tre delle tue descrizioni, ma il resto era troppo difficile,” osservò Helva.
“Secondo me il vecchio russo, con una buona dose di neoungherese, ha un suono sufficientemente acido,” disse Kira. “In realtà, stavo solo ripetendo una vecchia ricetta per un piatto a base di proteine che si chiama gulash. Ma suona molto peggio, vero?” E sogghignò, spalancando gli occhi verdi.
“lmpressionante. Quel fesso c’è rimasto secco.”
“Thorn...” Kira s’interruppe, strinse le labbra. Per un attimo il suo viso mostrò una sofferenza interiore. “Penso di avere fame,” disse, chiudendo gli occhi, con voce infantile. Poi riapri gli occhi di colpo. “E credo proprio che preparerò il gulash! Ho ricordato la ricetta!” Si lanciò ballando verso la cambusa. “Me l’ha insegnata una vecchia zingara.” E agitò le dita in direzione di Helva. “Promettimi di non curiosare. E’ un segreto di famiglia.”
Raggiunse la cambusa, e si appoggiò al banco, ridendo, per riprendere fiato.
“Non ha un profumo celestiale?” chiese a Helva, qualche tempo dopo, sollevando il piatto davanti alla colonna. “Sarebbe migliore con un bel pezzo di pane nero. Uhm!” Mormorò felice, a bocca piena. “Perfetto! Non ho perduto la mia abilità di cuoca.” E mandò un bacio all’aria. “Meraviglioso.” Si rannicchiò sulla poltrona del pilota e mangiò in fretta, leccandosi le dita di tanto in tanto, quando se le macchiava di sugo.
“Mi fai rimpiangere di essere stata nutrita da una serie di flaconi,” osservò Helva. “Non ho mai visto nessuno godersi un pasto come fai tu. E a quanto pare, le calorie eccessive non ti appesantiscono.”
Kira alzò le spalle.
“Ho un ottimo metabolismo. Assolutamente inalterabile. Sono fatta cosi!” Una sfumatura di amarezza si insinuò nella sua voce gaia.
Helva cominciava a sospettare che quei bruschi cambiamenti d’umore fossero in realtà le difese di una donna sofferente, che cercava di reprimere il proprio dolore.
Helva ricordava con quanta cura aveva riposto la chitarra nello scaffale. Kira non se ne era mai ricordata, in apparenza: lo faceva per riguardo a lei? Senza dubbio Kira sapeva della morte di Jennan, delle leggende che erano già nate sulla 834. Oppure evitava di suonare la chitarra per ragioni sue?
Kira aveva finito il pasto. Teneva il piatto sulle ginocchia, e fissava un punto del pannello dei comandi.
Il suo atteggiamento era apatico, malsano. Helva capi che doveva scuoterla. Kira era stata toccata in un punto vitale, benché la conversazione fosse stata in apparenza innocua.
Sommessamente, scegliendo deliberatamente nel proprio repertorio vastissimo, Helva cominciò a cantare una vecchia aria:
“Un po’ di musica per consolare il tuo cuore... E i tuoi dolori si calmeranno...
“Come possono calmarsi, i miei dolori?” sibilò Kìra, spalancando gli occhi verdi e fissando con odio la colonna di titanio. “Sai come potranno calmarsi?” Balzò in piedi, violentemente. “Nella morte! Nella MORTE!” E tese le braccia, con i polsi rivolti verso Helva, in modo da mostrarle le cicatrici che le segnavano i polsi.
“Tu,” disse, e lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi. “Tu avevi la possibilità di morire. Nessuno avrebbe potuto fermarti. Perché non sei morta? Che cosa ti ha tenuta in vita, dopo che lui è morto?” chiese con sanguinoso sarcasmo.
Helva trattenne il respiro, al ricordo disperato del suo desiderio di lanciarsi nel puro cuore ardente del sole di Ravel.
“Cerca di capire che se una persona vuole morire, non glielo permettono! Non glielo permettono!” Kira incominciò a camminare furiosamente avanti e indietro, aggraziata persino nella disperazione. “No: ti condizionano, perché tu non ti uccida. Nella nostra società è permesso tutto, tranne l’unica cosa che desideri.., se quello che desideri è la morte. Ti rendi conto che per tre anni non mi hanno mai lasciata sola? E adesso...” Il viso di Kira era stravolto dal disprezzo. “Adesso tu sei la mia bambinaia! E non credere che io non sappia che ti hanno informato della mia instabilità emotiva!”
“Siediti,” ordinò freddamente Helva, attivando l’ultima parte del nastro, quella che conteneva i divieti. Quando il significato del messaggio colpì la mente di Kira, lei si lasciò cadere inerte sulla poltrona, il volto privo di emozioni.
“Mi dispiace, Helva. Mi dispiace davvero.” Alzò le mani, tremando, in un gesto di scusa. “Non riuscivo a credere che si fossero decisi a lasciarmi in pace.”
“Sono bravissimi a condizionare la gente,” osservò Helva, sottovoce. “E’ necessario. Non possono permettere che navi o persone fuggano, abbandonandosi al loro dolore. Ma credo che ti abbiano finalmente lasciata in pace. Si sono limitati ad assicurarsi che tu non ti avvicini a quei pochi mondi sui quali è permesso il suicidio rituale, come Baham, Homan, Beid e Keid. E non possono lasciare che tu ti uccida perché l’etica dei Mondi Centrali predica la propagazione della vita e il suo prolungamento, dove e quando è possibile. lo sono un esempio vivente di quello che sono disposti a fare per tenere in vita un essere umano. L’ARC è un altro aspetto della stessa etica: il fatto che tu voglia il suicidio è un’infrazione di questa legge morale. Persino i pianeti di Pegaso e di Eridano limitano le condizioni in cui è ammesso il suicidio e impongono certe cerimonie grottesche, per avere la certezza che soltanto i più disperati se la sentano di tentare.
“Però,” concluse Helva, esasperata, “dovrebbe trovare un modo per alleviare il dolore per la perdita di un essere caro, poiché la morte è la sola cosa che i gloriosi Mondi Centrali non sappiano ancora vincere.”
I lunghi capelli di Kira le nascondevano il volto alla vista di Helva. La ragazza sì era abbandonata al suo dolore, ed Helva provò un senso di irritazione per quell’autocommiserazione. Adesso lei era rassegnata a vivere, come aveva fatto Theoda dopo la sua tragedia, come avevano fatto tanti, in tutto l’universo, attraverso il tempo. Quando i consulenti medici s’erano accorti che Kira era sprofondata nel suo dolore, avrebbero dovuto stabilire un blocco... Oh, no… Kira aveva quasi completata la sua preparazione come esploratore, pensò Helva: era già stata resa resistente ai blocchi, e l’unica terapia possibile era un condizionamento ‘intensivo’. Non potevano cancellare nulla, ma soltanto inibire...
Helva fissò spassionatamente la sua compagna, dicendosi che i Mondi Centrali sapevano benissimo quello che facevano, e quello che volevano da lei... Per questo le avevano assegnata Kira. Anche questo faceva parte della loro etica.
“Kira, che cos’è un Dylanista?”
Kira rialzò il viso di scatto, batté le palpebre e tornò a fissare la paratia che racchiudeva Helva.
E’ I’ultima domanda che potevo aspettarmi,” disse, con voce sommessa. Rise, brevemente, e scrollò il capo, agitando i capelli, pensierosa “Va bene, ti assolvo dall’accusa di Psicoterapia. Anche se,” aggiunse, puntando un dito contro la colonna “sono stata costretta ad accettare questa missione e ho giudicato subito molto sospetto il fatto che la mia nave fossi proprio tu.”
“Sì, è abbastanza logico, non ti pare?” ammise Helva, con calma.
Kira posò la mano sulla paratia, sulla lastra squadrata che era l’unico accesso al guscio di titanio di Helva all’interno della colonna. Era un gesto di scusa affettuoso e semplice. Se Helva avesse conosciuto i valori sensori, quel tocco le sarebbe apparso come il più leggero.
“Un Dylanista è un commentatore sociale, un contestatore che usa la musica come arma, come stimolo. Un buon Dylanista e io non lo ero,” e il tono in cui lo disse fece capire a Helva che Kira considerava invece come un buon Dylanista il suo defunto marito, Thorn, “sa legare così bene l’argomento alla melodia che ciò che vuole esprimere penetra fin nel subcosciente dei suoi ascoltatori.”
“Un canto subliminaìe?”
“Beh, non ti è mai capitato di essere ossessionata da una melodia?” chiese Kira, fermandosi sulla porta della sua cabina.
“Sì,” ammise Helva. Kira aveva ragione.
“Un Dylanista molto dotato,” continuò Kira che stava ritornando in quel momento con l’astuccio che conteneva la chitarra, “sa creare una melodia carica di messaggio, che tutti cantano o fischiettano o canticchiano anche senza rendersene conto. Capita di svegliarsi la mattina e di avere in testa una canzone Dylanista. Puoi immaginare quanto sia efficiente questo metodo, se cerchi di fare proseliti per una causa.”