00 08/09/2011 17:58
(segue)




Helva rise.
“Non mi sorprende che questo dia fastidio ai Mondi Centrali, dalle parti di Ofiuco.”
Kira sorrise maliziosamente.
“Conosco benissimo quello che dicono in proposito… e ritengono anche che questo sarebbe sprecare tempo e capacità che è molto meglio dedicare al servizio dei Mondi Centrali.”
Pizzicò le corde, e il suo volto si rattristò, quando si accorse che lo strumento, non usato da tempo, non rispondeva come avrebbe dovuto. Lo accordò, con un’espressione inaspettatamente tenera. Alla fine annuì soddisfatta, quando ottenne un suono dolcissimo.
Con dita lampeggianti intessé uno schema di accordi e di note, traendo dallo strumento un volume superiore a quello che ci si poteva attendere dalla sua struttura fragile. Con suo grande stupore, Helva riconobbe un’antica fuga di Bach... Poi Kira colpì la cassa con un gesto di collera.
“Ah!” esclamò, aprendo e chiudendo le dita. “Non ho più suonato da quando...” E suonò un accordo. “Ricordo che passammo una notte intera a suonare... fino a mezzogiorno del giorno dopo. Cercavamo di analizzare un’antica canzone di Dylan. Ma il fatto è che non serve a nulla analizzare Dylan… bisognava cercare di sentirlo, invece: quando si tenta di tradurlo in Basico o in termini psicologici.., non significa più nulla. Era il complesso delle parole e della musica che produceva una reazione viscerale.., ed è lo scopo di questo stile. Quando si ha una reazione viscerale, la mente viene messa alla frusta, e poco per volta si trasforma...”
“Potrebbe essere un’ottima terapia,” osservò asciutta Helva.
Kira le lanciò uno sguardo indignato, che si risolse in un sorriso; e fece ridere la chitarra.
“Il guaio della terapia è che si finisce per cercare troppi significati in ogni gesto e in ogni parola... e quando si è così confusi, si sospetta di tutto e di tutti.” La chitarra riecheggiò ironicamente il tono delle sue parole.
Una spia rossa lampeggiò sul pannello, e nello stesso istante un impulso raggiunse i monitor interni di Helva. Prima ancora che lei avesse potuto effettuare un controllo visivo, Kira aveva già abbandonato la chitarra sulla poltrona e stava correndo verso la stiva Numero Tre.
Kira si fermò sulla soglia il tempo sufficiente per valutare il danno, poi corse all’altra stiva, quella che conteneva le scorte addizionali. L’errore del tecnico era stato rimediato, al momento dell’incidente, in modo perfetto… ma nessuno si era accorto che s’era allentata l’estremità opposta del tubo del fluido nutriente, che aveva preso a sgocciolare, quanto bastava per fare scattare l’allarme. Helva controllò ansiosamente gli embrioni alimentati da quel serbatoio: nonostante la perdita, il nastro che conteneva gli embrioni era ancora pieno di fluido.
Kira ritornò con tubi e gìunture di ricambio: li sistemò, con cura, perché nessuna bolla d’aria si insinuasse nel nastro. Poi controllò ogni minuscolo sacco, con una lente d’ ingrandimento, per accertare che fosse tutto a posto: poi controllò le giunture degli altri nastri, minuziosamente. Impiegò parecchie ore, lavorando con scrupolo e attenzione. Poi, rassicurate, Kira ed Helva controllarono i monitor interni.
“Quel tecnico! Avrei dovuto farlo a pezzi e cuocerlo nella paprika!” mormorò Kira, mentre entrava nella sua cabina.
Helva rimase in ascolto fino a quando sentì il suo respiro placarsi nel sonno. La chitarra muta la fissava dalla poltrona del pilota, e frammenti della sua melodia l’ossessionarono durante la sua veglia.
A Dubhe, Kira pretese che venisse effettuato un minuzioso controllo del nastro danneggiato per assicurarsi che nessuno dei feti avesse sofferto. Anche se aveva problemi emotivi, Kira era professionalmente efficiente: e Helva apprezzava tanto più la sua obiettività in quanto aveva compreso il tormento della giovane donna.
La KH-834 volò da Dubhe a Merak, dove attendevano altri ventimila embrioni. Durante il breve viaggio tra i due pianeti, né Kira né Helva parlarono dell’incidente. Kira non mise via la chitarra: ogni ‘sera’, suonava per Helva, dandole qualche saggio dell’antica protesta Dylanista, dalle antiche canzoni del Decennio della Protesta nell’Era Atomica fino agli esempi più recenti.
E mentre stava suonando uno dei canti più antichi, arrivò la chiamata da Alioth. Kira depose la chitarra e rispose: un’espressione sorpresa le apparve sul volto, quando seppe da dove proveniva quella chiamata.
“Quindicimila?” ripeté, chiedendo conferma. E ricevette una risposta che a Helva parve stramente secca. Mentre la sua compagna parlava, Helva aveva frugato nell’archivio, cercando dati su quel pianeta.
“E’ strano,” osservò.
“Che cosa?” chiese Kira, mentre faceva i calcoli per la rotta.
“Non risulta che abbiano una banca ARC. E’ un pianeta poco piacevole: attraversa un periodo vulcanico molto instabile. Usano una quantità di tecniche per minerali fusi, e hanno il tasso di mortalità più alto di tutti i Mondi Centrali.”
“Secondo me,” commentò Kira in tono asciutto “faresti meglio a chiedere al Cencom se noi possiamo atterrarci, su quel pianeta.”
“Non è nell’elenco dei pianeti vietati,” rispose Helva, ma attivò il raggio.
“Alioth?” esclamò l’operatore del Cencom, sbalordito. “Non abbiamo mandato nessun appello ad Alioth, noi. Non ci risulta che abbiano una banca. Da un punto di vista etnico, è possibile. Resta in linea.”
Kira inarcò un sopracciglio.
“Stanno controllando con chi so io. Scommetto due a uno che ci vietano lo sbarco.”
“Scommetti due a uno che cosa?” ribatté Helva.
“KH,” riprese il Cencom. “Procedete per Alioth. Non è registrata nessuna banca, ma i commercianti riferiscono che i progressi nella tecnica mineraria indicano un avanzamento tecnologico tale da rendere possibili i sistemi per la propagazione della razza. La gerarchia religiosa è molto potente, perciò non osteggiatela. Ripeto, non osteggiatela. E fate rapporto al più presto possibile.”
“Hai perso la scommessa, disse Helva a Kira.
“Bene,” fece Kira, alzando le spalle. “Hai qualche spezzone del pianeta?”
Helva fece scorrere le immagini sul visore. Le prime mostravano un piccolo spazioporto. La città principale era dominata da un tempio enorme costruito sul fianco di un vulcano spento: la grande scalinata multipla faceva pensare ad uno ziggurat assiro-babilonese. Helva non amava molto i mondi dominati da una gerarchia religiosa, ma si rendeva conto che nessuno avrebbe badato alla sua opinione. Troppe religioni erano cupe e sgradevoli. Alioth, il quarto pianeta del suo sistema solare, era troppo lontano dal suo primario per godere una buona illuminazione e la sua natura vulcanica lo rendeva simile a un inferno dantesco. L’ultima scena mostrava una processione di figure incappucciate che reggevano torce e attraversavano una piazza enorme, antistante il tempio.
“Un posto ben triste,” disse Kira, accigliandosi. “Bene, dato che dobbiamo caricare solo quindicimila embrioni, non dovremo fermarci molto.” E suonò un motivetto gaio, per reagire a quelle immagini morbose.
“Fanno parte del gruppo etnico che interessa a Nekkar” osservò Helva, dubbiosamente.
“Con quei cappucci non si vedeva niente,” disse Kira. “Speriamo che non ci diano embrioni incappucciati... I nekkaresi ci resterebbero male.” Ridacchiò, e fece ridere anche la chitarra. Poi incominciò ad ispezionare la stiva.
“Questi quindicimila ci sovraccaricheranno un po’ ,” disse, mentre lavorava. “Con quei ventimila di Merak…”
“Alioth non è molto lontano da Nekkar. Possiamo arrivarci senza uscire dai termini stabiliti. E poi schizzeremo via per un altro volo di cicogna.
Kira si raddrizzò, arricciando il naso.
“Schizzare via.., non è il termine più adatto, per un volo di cicogna.”
“Lo so che dovremo andar piano per non danneggiare gli embrioni. Ma lasciami usare il gergo degli esploratori. In fondo, io sono una vergine di ferro.”
“Ah!” Kira tacque, e riprese a controllare le giunture con la lente d’ingrandimento Alla fine dell’ispezione, si fermò nella cambusa e prese distrattamente un caffè. Poi entrò nella cabina principale: era di malumore, per la prima volta dopo una settimana. Si rannicchiò sulla poltrona, in silenzio.
“Sai, Helva” disse finalmente, “anch’io sono dello stesso gruppo etnico. Quegli embrioni sono figli di gente simile a me. Ma diversa da me: perché quella gente ha lasciato il suo seme, e io no.”
“Non dire sciocchezze!” scattò Helva, cercando di calmarla. “Quando sei diventata maggiorenne hai fatto il tuo dovere nei confronti dell’ARC, no?”
“No,” scattò di rimando Kira. “Non l’ho fatto. Avevo già incontrato Thorn, e avevo deciso che i miei figli li avrei avuti tutti io. Non avevo bisogno di un’agenzia per assicurare la propagazione dei cromosomi che erano essenzialmente miei. Anzi,” aggiunse, sardonicamente, “composi addirittura una canzone Dylanista sull’ARC, molto ironica, con allusioni feroci ai bambini in scatola.”
Si girò verso Helva, socchiudendo gli occhi.
“Una delle notizie che la mia censuratissima biografia ha taciuto è questa: il mio unico figlio morì nascendo prematuramente... e lasciandomi completamente sterile.”
Kira si toccò i fianchi con le mani sottili.
“Non ci sarà più vita, nel mio grembo... né in modo naturale né per mezzo di un trapianto. E questo... questo è dovuto alla suprema, egoìstica certezza che avevamo io e Thorn.”
Era appunto per evitare incidenti dì quel genere che l’ARC insisteva per ottenere le donazioni dai giovani. Ma era inutile ricordarlo a Kira: lo sapeva anche troppo bene, adesso.
“E’ per questo che dopo la morte di Thorn mi sono dedicata alla medicina, invece di diventare Esploratore. Ma tutti i miei studi mi hanno confermato che per me era finita. La scienza può fare molte cose... ma non questo.”
Sospirò, ma la sua amarezza non era più frenetica. Helva si chiese se Kira s’era rassegnata alla sterilità, mentre non si era rassegnata all’idea di vivere.
“Ed è un’ironia, mia cara Helva, che sia toccato proprio a me portare questo carico di embrioni...”
Helva non disse nulla. Kira finì il caffè e andò a riposare. Fra poche ore sarebbero arrivate a Merak, e poi sarebbero ripartite per Alioth.
A Merak si sbrigarono a tempo di primato: i tecnici lavorarono con rapidità ed efficiente cautela. Alioth distava solo pochi giorni di volo. Kira ed Helva avevano stabilito ormai un piacevole andamento per il loro viaggio: Helva riempiva le pause con il suo antico repertorio di musica classica, e Kira con la sua conoscenza delle canzoni popolari della Terra e dei mondi coloniali.
Helva svegliò Kira poco prima di atterrare su Alioth. La ragazza indossò in fretta una tunica scura, e si fissò le trecce sul capo.
L’atterraggio non fu dei migliori. Lo spazioporto era stretto fra i picchi tetri della grande catena continentale. Ricevettero l’ordine di posarsi ad una certa distanza dal piccolo edificio rettangolare che ospitava gli uffici amministrativi e tecnici. Kira protestò, perché sarebbero state troppo lontane dalla costruzione per potere effettuare rapidamente le operazioni di carico: l’informarono bruscamente che avrebbe dovuto aspettare l’arrivo di una macchina. Finalmente, arrivò un camion carico di figure incappucciate che si schierarono ai piedi della nave. La loro presenza e il loro atteggiamento bellicoso apparivano insultanti per una nave-cervello.
“Perché diavolo vengono a montare la guardia ad una Nave da Ricognizione del Servizio Medico dei Mondi Centrali?” chiese con fermezza Kira alla torre di controllo.
“Per la protezione del vostro carico.”
In quel momento, il funzionario che comandava la guardia chiese il permesso di salire a bordo.
“Allora?” chiese sottovoce Helva a Kira.
“Non abbiamo scelta: ma registra tutto e trasmettilo subito per raggio a Regulus.”
“Era anche la mia idea,” disse Helva. “In quanto a me, sarà meglio che stia zitta.”
“Bene,” disse Kira, regolando il pulsante fissato alla tunica.
C’erano molti pianeti sottosviluppati sui quali l’associazione fra un esploratore e la sua nave-cervello veniva fraintesa. E su quei mondi era più opportuno tenere nascoste le facoltà della nave fino a quando fosse stato necessario usarle. Il pulsante avrebbe permesso a Helva di mantenersi in contatto con Kìra.
Il comandante della guardia, un individuo alto e tetro incappucciato di nero, apparve nella camera stagna, quando Helva l’aprì. Era molto più alto di Kira: tese una mano magrissima, ed eseguì una specie di saluto, toccandosi il petto e la faccia nascosta.
Kira lo ricambiò, ed attese che fosse lui a parlare per primo.
“Secondo Ufficiale della Guardia Noneth,” intonò lui, alla fine.
“Esploratore Medico Kira di Canopo,” rispose dìgnitosamente Kira; Helva notò che non si era presentata come compagna della nave KH-834.
“Deve venire al Tempio per discutere la donazione,” disse Noneth, in tono misurato.
“In una missione come questa, il tempo è un fattore essenziale,” incominciò calma Kira.
“Il tempo,” intonò l’ufficiale, “è schiavo di Colui che Ordina. Ed Egli ha ordinato che lei ci segua.”
“Il seme è già pronto per la spedizione?” insistette Kira.
La figura incappucciata ebbe un fremito.
“Non bestemmi.”
“Non avevo nessuna intenzione di bestemmiare,” rispose Kira, con calma, senza scusarsi.
“Venga,” ordinò l’ufficiale con voce autoritaria.
“Colui che Ordina ti comanda di venire, donna,” disse una voce rauca, sepolcrale, che echeggiò nella cabina.
Kira si conquistò l’ammirazione di Helva mantenendosi impassibile a quella voce inaspettata e terribile. La ragazza posò gli occhi sulla liscia spilla ovale cha fissava il cappuccio di Noneth. Anche Helva la riconobbe: era un comunicatore simile a quello che portava Kira: un tipo che veniva assegnato soltanto al personale del Servizio Esplorazione.
Sarebbe scoppiato uno scandalo terribile, quando i Mondi Centrali avrebbero scoperto chi distribuiva quei comunicatori su di un pianeta sottosviluppato.
“Bisogna obbedire agli ordini. Ha parlato il Tempio,” gridò Noneth, con voce fremente di reverenza. “Non indugiamo!”
Ma il tempio era femmina, pensò Helva, che aveva valutato il timbro della voce.
“lo ho ordini precisi,” disse Kira, cercando di temporeggiare.
“E’ la Verità Eterna,” rispose Noneth, solennemente, come se Kira, per puro caso, avesse risposto nel modo prestabilito dalla religione di lui. Noneth alzò la mano in un gesto stilizzato e aggiunse: “Possa la Morte venire a lei nel momento del suo trionfo.”
Kira stava per rispondere, ma si bloccò e fissò la testa incappucciata, sbarrando gli occhi.
“Possa la Morte venire a lei nel momento del suo trionfo?” chiese, mormorando. Era diventata pallidissima.
“La Morte non è forse la beatitudine più grande?” fece il sacerdote un po’ sorpreso da quell’ignoranza.
Helva sapeva di dover restare in silenzio, ma faticò a reprimere un grugnito di protesta. Ci voleva poco a pensare che su Alioth la morte doveva essere davvero la beatitudine più grande: era un sollievo da quell’esistenza tetra in un pianeta tremendo. I pericoli dell’attività mineraria a contatto con sostanze fuse, il timore continuo di qualche eruzione vulcanica inducevano a considerare la morte come un’oasi di pace. Ma perché diavolo il Cencom non aveva proibito a Kira di atterrare su Alioth, dato che conosceva bene la sua ossessione?
“Sì, la Morte è la beatitudine più grande. Questa è l’Eterna Verità,” ripeté Kira, come ipnotizzata.
“Venga con me,” ingiunse Noneth, suasivamente, facendo un cenno di richiamo. “Vieni,” fece eco avidamente la voce sepolcrale.
La macchina aveva appena lasciato la nave quando le guardie incominciarono a muoversi.
“Lei vedrà Colui che Ordina,” sospirò uno, in tono invidioso. “Quella cortigiana dal volto scoperto otterrà un premio immeritato! E adesso saliamo e sistemiamo il carico. Pensate! Altre migliaia dovranno morire per espiare il peccato contro Colui che Ordina.”
Helva non ebbe bisogno di ascoltare altro. Bloccò i comandi dell’ascensore e chiuse la camera stagna. Gli Aliothiti potevano bussare, imprecare, martellare quanto volevano: la nave era invulnerabile per le armi di cui poteva disporre la tecnologia di quel pianeta. Helva attivò il raggio per comunicare con il Cencom. Alioth s’era sistemato il giorno in cui la sua gerarchia religiosa aveva deciso di rovinare il carico di una nave del Servizio Medico... e di rapirne il pilota.
Helva riconsiderò la partenza di Kira. Quella ragazza, distrutta dall’angoscia, desiderava la morte. Ma Helva non credeva che potesse arrivare a tradire la sua missione. E gli Aliothiti non s’erano resi conto che la nave era capace di agire indipendentemente: poiché avevano portato via il pilota, erano sicuri che la nave fosse bloccata e impotente.
‘Potrei anche andarmene,’ penso Helva. ‘Se questi fanatici considerano la morte come una ricompensa, è inutile che mi faccia uno scrupolo di bruciarli con i razzi di coda. Ma non posso abbandonare Kira: non ancora. Ho tempo. Ma cosa succede al Cencom? Non ci sono mai, quando hai bisogno di loro. E perché diavolo hanno permesso a Kira di atterrare su di un pianeta dominato dalla morte? Idiota,’ si disse ‘perché non sapevano che andazzo aveva preso la religione, da queste parti!’
Il terreno rombò, sotto di lei. A nord una folgore saettò verso il cielo, ricadendo in una pioggia di frammenti luminosi. Vi furono altri fuochi d’artificio, e attorno alle pinne di coda della nave incominciò un movimento che prometteva poco di buono. Helva si tenne pronta a decollare, se il suo equilibrio fosse stato scosso in misura eccessiva. Verso nord-est, un altro vulcano rispose all’eruzione del primo.
Helva vide che la macchina a bordo della quale stava Kira era giunta ad una piazza, davanti all’edificio principale. Mentalmente, esortò invano Kira a uscire dalla sua ipnosi e ad attivare il pulsante del comunicatore.
Gli uomini incappucciati, senza badare alle eruzioni, continuarono i loro tentativi di forzare il meccanismo dell’ascensore. I cappucci ricadevano dai volti, e gli uomini se li riassestavano, come se un viso scoperto fosse osceno. La luce rossa delle eruzioni che continuava a incendiare il cielo illuminava visi magri, ascetici, macchiati dalla cenere vulcanica, con gli occhi resi opachi dalla denutrizione e dalla stanchezza.
Kira scese dalla macchina e, fiancheggiata dalle guardie, fu scortata ad un veicolo più piccolo che scomparve dalla vista di Helva, perdendosi tra le costruzioni della città. Il camion, invece, ritornò sul luogo dell’atterraggio.
Una delle guardie esortò i compagni a portare una scaletta. Lentamente, a fatica, spinsero la pesante struttura che si trovava all’estremità opposta dello spazioporto. Helva osservò la scena, con acre divertimento. Era colpa loro, se avevano insistito tanto perché scendesse in quell’angolo lontano. E forse non s’erano neanche accorti che lei aveva bloccato il portello.
Cercò di mettersi in contatto con il Cencom, maledicendo quel ritardo: era preoccupata perché non poteva comunicare con Kira. ‘Il pulsante del comunicatore’, mormorò fra sé, ricordando quello fissato al cappuccio di Noneth. Bene, se era un comunicatore del Servizio od una imitazione fedele, lei doveva essere in grado di usarlo. La donna del Tempio l’aveva pure usato, per avallare gli ordini che Noneth aveva dato a Kira.
Helva si affrettò a inserirsi sulla lunghezza d’onda della banda di contatto. E altrettanto frettolosamente si disinserì, stordita dal caos di immagini e di suoni che l’assediava. Vacillando mentalmente sotto quell’urto, si chiese come mai era riuscita a stabilire contemporaneamente centinaia di migliaia di contatti. Studiò in fretta le guardie che stavano ancora cercando di accostarle la scaletta: e tutti avevano un pulsante fissato al cappuccio.
“Per tutte le Galassie!” gemette Helva. “Dev’essere una religione di schizoidi, per reggere ad un caos del genere.”
Aprì la banda di contatto, cautamente, rabbrividendo alla confusione di suoni e di immagini. Cercò di concentrarsi su di un solo contatto, ma si sentì annegare in una miriade di inquadrature. Era come tentare di concentrarsi su di un’unica sfaccettatura dell’occhio d’una mosca.
Ridusse rabbiosamente la visuale ad una piccola area, respingendo tutte le altre immagini. Ed escluse completamente l’audìo. Per fortuna, tutti coloro che portavano i comunicatori, nel segmento che lei aveva scelto, si stavano dirigendo verso un unico luogo, attraverso ad una piazza immensa piena di figure incappucciate che si accostavano alla scalinata intagliata nel fianco del vulcano spento: lo ziggurat che lei aveva visto negli spezzoni del documentario.
All’improvviso, la scena si inclinò. Dopo un attimo, Helva si accorse che lei stessa stava ondeggiando sotto la spinta del terremoto: altri tre vulcani sputavano le loro viscere contro il cielo. Attese, attenta, temendo che l’instabilità dello spazioporto la costringesse a ripartire.
L’aria fu invasa da un ruggito estatico, mentre migliaia di minuscole crepe apertesi nel pavimento della piazza esalavano gas e vapori. Helva, stordita, in un primo momento non comprese il significato di quelle esalazioni, e non si rese conto che l’ululato raggiungeva i microfoni esterni, e non proveniva dai circuiti audio che lei stessa aveva spento.
Aumentò l’intensità del raggio, cercando disperatamente di mettersi in contatto con il Cencom, vincendo le interferenze causate dalle eruzioni vulcaniche. E nello stesso tempo reinserì il contatto, perché non voleva perdere Kira. Nella piazza, tutti agitavano le braccia; i cappucci erano stati ributtati indietro, e visi estatici erano rivolti verso il cielo pieno di gas e dì scintille. Poi gli Aliothiti si chinarono, per respirare i fumi che salivano dalle crepe. Helva rimase a guardarli, mentre si raccoglievano, aspiravano profondamente e si allontanavano barcollando, con gesti incoerenti ed espressioni rapite. Poi si rese conto che quei fumi dovevano avere proprietà euforiche o allucinogene, doppiamente pericolose in un momento di eruzioni vulcaniche tanto massicce. Eppure la piazza era piena di individui che erano già intossicati, o che cercavano freneticamente di intossicarsi.
Helva comprese il significato che quell’eruzione di gas sulla piazza del Tempio doveva avere per quella religione diabolica. Evidentemente, quell’effetto era previsto e calcolato dalla gerarchia del tempio. lnfuriata da quella depravazione, Helva raddoppiò gli sforzi per rintracciare Kira e la sua scorta: dovevano avere abbandonato il veicolo, ed erano certamente entrati sulla piazza dal lato sud. Un gruppo attirò la sua attenzione: non potevano esserci due creature cosi sottili e per giunta prive di cappuccio, su quel pianeta pazzesco. Kira stava entrando nella piazza, e la sua avanzata verso i gradini era ostacolata dall’agitarsi frenetico degli intossicati.
Allarmata Helva ampliò la banda, cercando di balzare da un contatto all’altro per avvicinarsi a Kira. Era una scena pazzesca, come vedere migliaia di film che si sovrapponevano sullo stesso schermo. Per la prima volta nella sua vita, Helva sentì nausea e vertigine. La premonizione di una catastrofe si fece più forte in lei, mentre cercava di raggiungere Kira prima che entrasse nel Tempio della Morte. Posato in cima al massiccio ziggurat, doveva essere pieno di gas allucinogeni. Kira era stata desensibilìzzata agli allucinogeni, come tutti coloro che entravano nel Servizio Spaziale: ma appariva stordita come se fosse veramente drogata.
Helva gemette, incapace di raggiungere Kira, spiritualmente e fisicamente.
Un gemito si levò dalla moltitudine.
“Il Tempio piange” gridarono mille gole. Persino le guardie che si trovavano allo spazioporto e tentavano ancora di accostare la scaletta, si unirono alla cantilena.
Helva boccheggiò, era in contatto con tutti gli Aliothiti, e questo fatto le fu confermato dalla ripetizione del suo gemito da parte della folla. Avevano scambiato la sua voce per quella della donna del Tempio.
Helva si concentrò sulla sommità cilindrica del Tempio e identificò ciò che prima non aveva notato. Il cilindro era una nave, che aveva muso e pinne sepolti nella lava. L’ingresso del Tempio non era altro che un portello stagno, e accanto al portello Helva poté scorgere le sigle semicancelIate d’una nave-cervello dei Mondi Centrali.
Chiaramente come il giorno della morte di Jennan, Helva riudi la voce di Silvia che le aveva parlato di un’altra nave travolta dal dolore: la 732. E quale posto migliore per piangere di un mondo violento, rossocupo, disperato? Oppure la 732 s’era diretta verso le fauci fiammeggianti del vulcano e all’ultimo momento s’era invece incastrata nella lava fluida alla base del grande cono? La 732 aveva rivolto la propria mente torturata su quel mondo e aveva spinto migliaia di esseri umani a morire come espiazione della morte dell’uomo che aveva amato?
Helva ricordò di colpo quale era il suo dovere. Spinta dalla disperazione, incominciò a cantare, usando un profondo tono carezzevole di baritono, colorando le risonanze di un desiderio smorzato, seguendo l’impulso dell’istinto.
“La morte è mia, mia per sempre,”
intonò, e ripeté la frase in tono più alto, quando gli Aliothiti in coro la ripeterono a loro volta, obbedienti. Helva sfruttò spietatamente quella reazione.
“Non posso dormire, il sonno mi rifiuta,” Poi scese di tono.
“I sogni mi torturano, mi affliggono.”
Poi risalì di una settima, mentre il coro si sintonizzava.
“Lasciatemi dormire, lasciatemi morire.”
Helva cantava, spostando la propria voce verso un duro tono tenorile. Poi ritornò alla frase musicale originale, ma questa volta la voce, ridivenuta baritonale, era sfumata di disprezzo.
“La morte è mia, mia per sempre,
Lasciatemi dormire, lasciatemi morire.”
L’ultima parola diventò un crescendo vibrante di derisione, poi si smorzò in un sussurro beffardo che si protrasse dopo che il coro aveva ripetuto il grido.
“Cencom chiama KH-Ottocentotrentaquattro, vuoi rispondere? RISPONDI!” risuonò la voce della Base di Regulus, spezzando l’irnprovvisazione musicale di Helva.
“Emergenza, emergenza!” rispose Helva in tono acuto di soprano, tanto sul raggio del Cencom quanto sulla banda Aliothita. Il coro, obbediente, strillò a sua volta quel grido d’allarme. Helva trattenne il respiro, quando vide Kira vacillare in una reazione istintiva.
“Emergenza?” chiese il Cencom. “Naturale... con una matta che sta dylanizzando su Alioth!”
Con un sussulto, Helva si rese conto che era esattamente ciò che lei stava facendo: dylanizzava. Il suo appello a Kira era una forma cristallizzata di protesta. Ne fu felice: adesso sapeva quello che doveva fare. Ripeté la prima frase, accelerando il tempo: non era più un legato carico di desiderio, era uno staccato beffardo. E, mentre il coro rispondeva diligentemente, si affrettò a comunicare con il Cencom.
“Il capo della religione di Alioth è la nave fuggitiva Settecentotrentadue: e l’idea dominante della religione è la morte!”
“Il tuo braccio... dov’è il tuo braccio?” gracchiò il Cencom.
“Qual’è la parola chiave per la Settecentotrentadue?” sibilò Helva, poi cantilenò la seconda frase, accelerando ancora il tempo per imprimerle un senso di urgenza.
“Rapporto!” reclamò il Cencom.
“Non ho tempo di fare rapporti, idiota! La parola chiave!” ringhiò Helva. Alzò la voce di un’ottava e mezzo, e la sua frase echeggiò nella piazza, carica di emozione, per trapassare l’ipnosi di Kira.
Le guardie che circondavano Kira erano stordite dai fumi che salivano dalle crepe. La tenevano per le braccia, ed Helva, intrappolata nella visione del suo coro, non capiva se la tenevano ferma o se la sorreggevano. La ragazza era l’unica che non appariva drogata daIl’allucinogeno.
“Lasciatemi dormire, lasciatemi morire!”
La voce tenorile di Helva risuonò, sprezzante, attaccando malignamente il desiderio di morte dì Kira.
“Sei matta?” esclamò il Cencom. “Quella vuole morire!”
“Dammi la parola chiave!” urlò Helva sul raggio, in una stridente voce di soprano, poi la modificò di colpo, scagliò la sua protesta tonante:
“Lasciatemi dormire, lasciatemi morire!”
La frase echeggiò nella piazza. Il coro, incapace di imitare il suono incredibile di Helva, rispose su di un’ottava più bassa. La sfida rimbalzò nella piazza, punteggiata dal tuono dei vulcani in eruzione.
Con uno strattone improvviso, silenzioso, tremendo, le molteplici visioni caotiche si dissolsero, ed Helva ebbe una visuale sola... Kira! Era in una camera cinta da tendaggi scuri, illuminata fiocamente da bracieri. Helva modificò la visuale per vedere meglio nella semioscurità: la sua attenzione si concentrò sulla cosa orribile che dominava quella stanza.
Su di una lastra di basalto nero giacevano i resti dei composti di quello che un tempo era stato un uomo. I denti scintillavano bianchi attraverso la carne corrotta in una parodia di sorriso, i tendini del collo spiccavano e la cartilagine dell’esofago spariva nel tessuto indistruttibile d’una tuta da esploratore. Le mani, incrociate sul petto incavato da un colpo fatale, erano unite dalle unghie che avevano continuato a crescere per qualche tempo, dopo la morte. Era il compagno morto della 732.
Ed Helva lo vedeva attraverso il pulsante del comunicatore di Kira... finalmente.
Un canto luttuoso riempì la stanza, un suono legnoso e privo di significato che emanava dalle pareti, dal soffitto, dal pavimento. Il cervello impazzito chiuso nel suo indistruttibile guscio di titanio aveva tutti i circuiti aperti, dimentico di tutto.
Con il bisbiglio più basso che poteva trasmettere, Helva si rivolse a Kira.
“E’ la Settecentotrentadue. E’ impazzita. Bisogna distruggerla.”
Kira barcollò, senza rispondere.
Per un secondo paralizzante, Helva si chiese se la ragazza aveva stabilito il contatto inavvertitamente, ed era ancora in preda al suo desiderio di morte. La protesta di Helva era riuscita a penetrarle davvero nella mente? Era riuscita a riportarla alla ragione? Lei non avrebbe potuto usare la parola chiave per uccidere la 732, se Kira non avesse collaborato.
Lentamente, Kira si accostò ai resti che giacevano sulla lastra di basalto. Il lamento si fece più forte, il mormorio divenne articolato.
“Egli è stato preso. Colui che Ordina è stato preso,” cantilenò la 732, e la folla le fece eco, diligentemente. “E’ andato. Seber è andato.”
Helva gridò, silenziosamente, sopraffatta dalla disperazione.
Stranamente, un altro suono si sovrappose alla voce della 732.
“Quella nana bianca è un grosso problema, Lia,” dicevano quelle parole, quasi indistinte. “Non mi stupirei se...”
Era la voce di un uomo, si disse Helva, registrata e ritrasmessa ad una velocità che distorceva le parole. La nave trasmetteva il nastro: l’aveva trasmesso tante volte che anche il suono della voce di Seber s’era corrotto come s’era corrotta la sua carne.
Kira continuava a girare attorno al cadavere.
“Parla, o Seber, perché la tua serva Kira possa udire il suono della tua amatissime voce,” mormorò Kira, inchinandosi davanti alla colonna che custodiva il guscio di 732.
Helva riuscì a malapena a reprimere il grido di sollievo, quando capì le parole di Kira: il loro vero significato!
“CENCOM, LA PAROLA CHIAVE!” gridò, sul raggio, mentre il lagno della 732 s’interrompeva bruscamente. Helva ebbe l’impressione che la nave trattenesse il respiro.
Il Cencom non rispondeva!
“Lia, Lia, l’interferenza sul mio contatto è incredibile! Non puoi fare qualcosa? La nana bianca sta...”
Persino Kira sussultò, involontariamente, mentre Helva, approfondendo la propria voce per imitare approssimativamente la voce di Seber, improvvisava in tono frenetico.
“Non ti capisco chiaramente. Lia? Lia? Ti si sono incrociati i fili?”
“Seber? Seber?” urlò la nave, con una voce stravolta da una speranza incredula. “Sono bloccata! Sono bloccata! Sono finita fuori rotta quando il vulcano è esploso. Volevo morire... Volevo morire anch’io.”
Kira stava frugando fra i tendaggi. Gli uomini che la scortavano scossi dalla loro euforia alla vista di quel sacrilegio, si lanciarono verso di lei. Kira avventò fulmineamente la mano sul collo d’uno di loro, in un colpo mortale. Schivò l’attacco dell’altro, lo scaraventò contro la lastra: quello batté la testa contro lo spigolo di pietra e crollò.
“KH, la parola chiave è na-thom-te-ah-ro, e attenta al tono!”
Ed Helva, sapendo che in realtà stava giustiziando una sua sorella, trasmise la parola chiave alla 732. Mentre le sillabe attivavano la serratura del pannello, Kira afferrò la lastra, vi insinuò la mano e girò la valvola che avrebbe inondato il guscio di anestetico.
“Non ti vedo, Seber. Dove sei...” E il gemito della 732 si spense nell’oblio desiderato da tanto tempo.
Kira si girò di scatto, mentre il pannello sbatteva dietro i tendaggi. Figure incappucciate si affacciarono nella cabina principale.
“Fermi!” comandò Helva, imitando la voce di Lia. “Colui che Ordina ha deciso. Riportate alla sua nave la donna dal volto scoperto. Un essere blasfemo non è degno degli eletti di Alioth.”
Kira, riassumendo l’atteggiamento ipnotico, seguì le figure incappucciate che si avviavano verso i gradini.
“Helva, cosa diavolo sta succedendo?” domandò il Cencom.
“Egli ha deciso!” gridò la folla di fanatici sulla piazza, vacillando tra i fumi allucinogeni.
“Helval” urlò il Cencom.
“Oh, piantala!” fece Helva, esasperata.
“Egli ha ordinato. Questa è la Verità Eterna.”
Helva guardò ancora, per assicurarsi che gli Aliothiti non avrebbero impedito il ritorno di Kira. Ormai, del resto, stavano crollando a centinaia, storditi dall’allucinogeno.
“Devi spiegarmi perché hai violato deliberatamente le restrizioni relative all’attività Dylanistica...
“Ti dylanizzo io, stupido!” interruppe rabbiosamente Helva. “il fine giustifica i mezzi, e poi ti ricordo che per qualche ragione, ignota a Dio e agli uomini, l’elenco dei pianeti proibitì NON comprendeva Alioth, e Dio sa se sarebbe stato necessario che lo comprendesse!”
Il Cencom sputacchiò indignato.
“Piantala,” suggerì acida Helva. “Ho trovato la vostra nave impazzita e l’ho uccisa. E ho praticato una terapia rude ma efficace sulla vostra preziosa Kira di Canopo. Che altro pretendi da un cervello ingusciato, eh?”
Il Cencom rimase in silenzio per sessanta secondi. “Dov’è Kira?” chiese poi, in tono quasi contrito.
“E’ sana e salva.”
“Passamela.”
“E’ sana e salva!” ripeté Helva. “Sta tornando dal Tempio.”
Lo spazioporto ondeggiò sotto una scossa di terremoto mentre il veicolo che portava Kira si fermava accanto alla nave. Helva sbloccò l’ascensore e Kira balzò nell’interno prima che le guardie si rendessero conto di quello che succedeva. Il terreno sussultò sotto gli stabilizzatori della nave. Nell’istante in cui Kira usciva dalla camera stagna per lanciarsi verso la poltrona, Helva richiuse il portello e si affrettò a decollare.
I visori di coda mostrarono le guardie che indietreggiarono per mettersi al sicuro. I lampi dei vulcani in eruzione lanciarono l’ultimo saluto alla nave che si allontanava.
“Esploratore Kira della KH-834 a rapporto,” disse la ragazza al Cencom, mentre si toglieva il mantello. Helva si aspettava di vedere volare come al solito le forcine, ma Kira stava immobile, eretta davanti al raggio. Fece un rapporto conciso, e chiese come mai i commercianti non avevano riferito la presenza di comunicatori del tipo usato esclusivamente dal Servizio, né la presenza di gas allucinogeni.
“Gas allucinogeni?” fece eco il Cencom. I casi di quel genere erano l’incubo della colonizzazione: popolazioni intere potevano venire assoggettate a dominazioni illegali, in quel modo, come era infatti accaduto su Alioth.
“Raccomando che tutti i commercianti che hanno trattato con Alioth durante gli ultimi cinquant’anni vengano interrogati circa i motivi che li hanno spinti a nascondere queste informazioni ai Mondi Centrali. E scoprite chi è stato l’idiota che ha autorizzato la colonizzazione di quel pianeta.”
Il Cencom non sapeva più cosa rispondere.
“Smettila di farneticare,” fece dolcemente Kira. “E sbrigati a mandare qui una squadra per la terapia su scala planetaria. C’è una società intera da rimettere in squadra. Manderemo un rapporto completo da Nekkar. Adesso devo ispezionare i piccini. Il decollo è stato brusco. Passo e chiudo.” Kira spense il raggio.
Poi, con un movimento fluido, si lanciò verso la cucina, scrollando il capo per sciogliersi i capelli.
“Mi fa male la testa!” esclamò, prendendo un barattolo di caffè. “Quel gas aveva un puzzo atroce. Si appoggiò sfinita al banco, Helva attese, poiché sapeva che la ragazza stava riordinando i propri pensieri.
“Più mi avvicinavo al tempio, e più era profondo quel terribile miasma della disperazione. Era quasi visibile, Helva,” disse. Poi aggiunse, in tono pungente. “E io ci stavo guazzando... fino a quando il tuo canto dylanita mi ha raggiunto, Helva.”
“Mi ha fatto rizzare i capelli in testa. L’ultimo accordo mi ha colpito qui,” fece, indicando il proprio stomaco con il pugno chiuso. “Thorn avrebbe dato un occhio per essere lui, a comporre un canto di quel genere.” E le sue spalle furono scosse da uno spasimo convulso.
“Quel cadavere!” chiuse gli occhi e rabbrividì. “Credo...” mormorò, socchiudendo le palpebre. “Ho pensato... che anch’io avevo fatto la stessa cosa a Thorn.”
“Lo credo anch’io,” disse sottovoce Helva.
Kira sorseggiò il caffè; il suo viso era stanco ma vivo.
“Sono stata molto stupida,” disse, con tagliente disprezzo verso se stessa.
“Neppure il Cencom è infallibile,” mormorò Helva.
Kira rovesciò la testa, ridendo.
“Questa è la Verità Eterna!” esclamò. Poi ritornò nella cabina principale, a passo di danza. Helva assistette a quella danza di vittoria, felice della soluzione.., per quanto riguardava Kira. Non poteva rimpiangere d’avere ucciso una delle sue simili. Lia, in realtà, era morta molti anni prima, insieme al suo compagno: e finalmente aveva trovato la pace, e l’aveva trovata anche Kira. Adesso avrebbero potuto continuare la Missione Cicogna, raccogliendo embrioni da...”
Helva emise uno strillo di esultanza. Kira la fissò, sbalordita.
“Che ti prende?”
“E’ così semplice che non riesco a immaginare come mai nessuno te lo abbia suggerito. O forse te lo hanno suggerito e tu hai rifiutato.”
“Bene, non saprò mai di che si tratta se tu non me lo dici,” rispose caustica Kira.
“Una delle cause della tua psicosi...
“Adesso l’ho superata.” l’interruppe Kira, con un lampo irritato negli occhi.
“Ah, sì? Una delle cause era la mancanza di progenie del tuo seme e da quello di Thorn. Giusto?”
Il volto della ragazza sbiancò, ma Helva proseguì.
“Ma i vostri genitori non saranno stati cosi stupidi da ignorare il loro dovere verso l’ARC. Giusto? Quindi il loro seme è nella banca. Puoi prendere quello di tua madre e quello del padre di Thorn e...”
Kira spalancò gli occhi e la bocca, il volto illuminato da una luce incredibile. Le guance si rigarono di lacrime. Tese la mano, delicatamente, per accarezzare con dolcezza il pannello di Helva.
Helva si senti ridicolmente felice perché Kira aveva accettato la sua idea. Poi Kira trattenne il respiro, con aria preoccupata.
“Ma tu.., non puoi prendere il seme di tua madre e...”
“No,” fece secca Helva, poi aggiunse, più dolcemente. “Non sarà necessario.” Adesso sapeva che il modo di liberarsi dal dolore era sommamente individuale: lei e Kira c’erano arrivate per strade diverse, come aveva fatto Theoda.
Kira aveva un’aria sconvolta, come se non avesse il diritto di accettare quella soluzione se anche Helva non l’accettava per sé.
“In fondo,” ridacchiò la nave, orgogliosamente, “non ci sono molte donne che mettono al mondo centodiecimila bambini alla volta.”
Kira scoppiò a ridere, felice. Afferrò la chitarra e suonò un vibrante accordo introduttivo. Poi nave ed esploratore sbalordirono le stelle con una Serenata di Schubert a ritmo sincopato, mentre volavano verso Nekkar.