"Sconosciuto e' qualcuno
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"MA COME TU RESISTI, O VITA?" * - riflessioni quotidiane a cura di Mariapia Veladiano

Ultimo Aggiornamento: 30/06/2012 09:44
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25/04/2012 09:32



Amore (1)


Si chiama in molti modi.
È il verso di gioia, custodito, silenzioso, di chi vede la prima volta il proprio figlio, tutta la vita tra le mani, Dio che si consegna e noi lo abbiamo fatto, e ora lo vegliamo, e non possiamo chiudere gli occhi mai più, mai più la vita non ci riguarda, tutta intera, senza pareti fra noi e loro. Noi e tutti.
È il lamento di chi scopre l'amore quando vien meno e all'improvviso sa che qualcuno che non c'è più gli ha permesso di diventare quello che è, e lui non l'ha visto finché è stato vicino e ora vede ogni cosa, ora che è assente, per sempre, eppure è possibile continuare perché questo è l'amore di padre e di madre, ci fa vivere restando nascosto, perché è così grande che a mostrarsi intero potrebbe far male e anche piangere va bene, come un profumo che esce da un vaso che si è rotto, e bisognava pur che si rompesse il vaso se la chiusura era così stretta.
E si sa senza cercare che non è amore se si vuol dargli un confine, come non si può dominare la bufera, o anche l'aria, lo spirito, il suono che dilegua, non posso trattenerlo, ma l'ho ascoltato, mi ha cambiato, mi accompagna come piacere, avuto, che rimane sotto altra forma, memoria, emozione, un bambino, qualche volta, un bambino
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Mariapia Veladiano



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26/04/2012 07:57



Amore (2)



A volte è malamore. Prendere con la forza quel che può solo essere regalato. Trattenere quel che si deve lasciare. Non accogliere lo spazio del desiderio, il vuoto della distanza. La bellezza di un esplorarsi di libertà che pure lottano ma nella lotta tessono la loro identità ed escono vivi.
Invece no. E quando è malamore non c'è parte che sia buona in cui stare.
C'è grande confusione, in cui gongola il demonio dicono i santi: anche le attenzioni malate e folli son pur tuttavia attenzioni, essere riconosciuti. Così capita di essere dannati ad accettarle. Un po' alla volta. Apprendistato triste del proprio soccombere all'altro.
Queste cose non avvengono nel deserto. Ma tace il mondo vicino. Si tace. Per piaggeria, per reverenza, per obbedienza e per stupidità, per prudenza. Anche questo è malamore. E quante volte la prudenza del mondo è sorella della complicità.
E si è soli, ad andare controvento, quasi fermi, forse proprio fermi, tutta la vita, a trascorrere giorni in cui sempre almeno un oggetto, un'espressione, il ricordo di una frase diventa improvvisamente una puntura di lancia che colpisce a tradimento.
Infelice chi pratica il malamore, molto più infelice chi lo subisce. Ma guai a chi finge di non vedere
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Mariapia Veladiano

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27/04/2012 10:56



Amore (3)



A volte è amore finito. O almeno lo sembra proprio. Ma può finire l'amore?
Tante parole che viaggiavano insieme. A gara per dirsi in coppia, quella dell'uno che arriva appena prima di quella dell'altro. Vite allineate.
Anche i pensieri viaggiavano insieme, intrecciati, l'uno che inizia, contamina, avvinghia il pensiero dell'altro, ci fa una glossa, ci gioca, lo conserva, lo custodisce.
E poi viene il giorno in cui tutto tutto è babele, anche il silenzio diventa straniero.
Amore che non si riconosce più. Non rimane perché non lo si è avuto, forse, o non ci è dato di saper cosa sia. Ci dicono che è fidarsi e non aver paura. Dono che non perdo perché lo conserva l'altro per me. E così è mio e nostro. Promessa in cui credo. Possesso che non chiedo. Vita ritrovata ogni mattina.
Capita che non si sia avuto mai. Un pezzo di vita che manca, passaggio d'umanità dovuto eppure non avuto. Allora non si può proprio credere all'amore. E così è sgangherato il sentire, eppure nella malinconia infinita che rimane, o anche nell'ossessione che chiamiamo odio quando capita, oppure nel correre in cerca di un altro e poi un altro amore, resta quel che l'amore promette, quel che l'amore ha promesso: abitare l'eternità, anticipo di quel che sarà
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Mariapia Veladiano

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28/04/2012 08:40


Amore (4)


A volte si perde l'amore. Se ne va come se non ci fosse mai stato, improvvisamente colpiti da indegnità e non si sa raccontare una storia che spieghi: troppo minuto il nostro accudire? Troppo attaccamento, troppo distacco, troppo docili, troppo orgogliosi, troppo irriverenti, deferenti, originali, contraffatti, furtivi, sfacciati, queruli, segreti. Appassionati.
Non ci si crede ed è giusto. Le parole dette, ascoltate, non passano senza cambiare, e quindi dov'è il nostro tessere comune le età che si intrecciano e confondono i ricordi bambini perché l'amore è eterno in avanti e anche indietro e sappiamo che tutto era pronto ad allinearsi fin dal principio, e infatti è capitato proprio a noi così sì questo possiamo raccontarlo. Non la fine di un amore. Per quello non abbiamo le parole.
A volte si inventa un amore per coprire il dolore. Che l'amore sia finito. Che non ci sia mai stato. Che non lo abbiamo coltivato. Scivolato nella distratta virtuosità dei giorni, sbriciolare promesse, non conta nemmeno la disciplina, piccolissime assenze diventano oltraggio, non visti, non sentiti. E poi le attese e nessuno si accorge che intanto finisce. L'amore finisce?
Come si fa, come si fa?
E così tutto dice che l'amore è tutto
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Mariapia Veladiano

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30/04/2012 08:57



Amore (5)



E poi cielobenedetto viene il giorno in cui si può quello che non si sapeva di potere. Dedizione, disseminazione di sé, spreco felice, dimenticarsi e perdersi nell'altro, bisogno riconosciuto, accoglienza senza sforzo alcuno, abbandono, l'uno nell'altro e finalmente si può capire, dare, ricevere, affrontare il mare della paura senza morire, senza rinunciare ad attraversarlo, insieme, e salire tornanti, resi fortissimi dal peso dell'altro, felicemente corpo che sente tutto, trema al ritmo dell'altro, e felicemente spirito, che sente ugualmente tutto, e insieme non conta la malinconia, e non si possiede nulla, non ci si possiede, l'altro ha in mano tutto di noi e noi di lui ma è un tenere a palme alzate, liberi di andare e felici a lasciare andare eppure pronti a trattenere, con saldezza se c'è pericolo, fino alla
fine, smemorati di sé e anche al centro di tutto, fedeli di uno sposalizio non comandato né scritto, necessario e pago di inappartenenza naturale, disarmata, e ancora potente, portati al di là di noi, più forti, più forti, come mai avevamo saputo di essere, più generosi, più belli addirittura. E il corpo così lieve, all'improvviso, amico dello spirito, che conosce la speranza, che vive la promessa
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Mariapia Veladiano



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01/05/2012 09:06



Invidiare



Non si fa mancare nulla di nulla chi invidia. Si occupa di scarpe, automobili, libri, orologi, collane e mariti, o mogli. Livido figurante del potere, visto che non è dio si affatica, si estenua, fa pratica di malvagità su tutto quel che lo circonda, umiliare il mondo per innalzarsi, senza essere nulla in più, troppo infelice e quindi senza misura cattivo. A non perdersi un batter di ciglia, atomizzato in milioni di inutili attenzioni per carpire, sapere, e giudicare, giudicare, giudicare.
Con un effetto distruttivo, su uomini e cose. Su se stesso per primo, segregato nel pensiero, umiliato dalla vergogna di essere sempre lì, senza distacco possibile dal bene degli altri, da corrodere e irridere. E non poter nemmeno travestire di una qualche nobiltà di parola questo peccato impudico che alla fine non può star nascosto.
Carsismo del male che prima a lungo scorre sotterraneo e ci riempie di caverne in cui annegare l'energia che pure abbiamo, potente, nostra, che intanto declina, nell'avvilimento di non portarci ad essere quel che veramente vogliamo, andare liberi, alzar la fronte e dire all'altro con la simpatia di chi si somiglia: «È forte la tua bufera, la possiamo attraversare insieme?».
«Essere uomini e non essere Dio. Questa è la summa. Non c'è altro» (Lutero)
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03/05/2012 10:16


Cantare



Non è necessaria la voce limpida e accordata. Il cuore leggero però sì. E nemmeno un pubblico è obbligatorio. Però a qualcuno ci si rivolge.
È un traboccare di noi. Come una creazione. Non poter trattenere quel che siamo. Regalarsi alla vita che ci avvolge.
Canta il corpo, dice l'amica soprano, tutto il corpo. Se non c'è armonia di sé non c'è bel canto. Né se manca l'amore di sé. E gli altri? Si canta quando non si odia, non si è arrabbiati, non si tiene il broncio, non si prova rancore. Almeno un po' di benevolenza è richiesta. Quel che basta.
Ogni organo fa la sua parte, dice l'amica. Non tutti gli organi hanno un nome musicale: laringe, diaframma, bronchi, viscere anche. Non importa. Tutti fan corolla alla voce che si disperde senza far conti, segreto della vita nascosta del corpo che diventa quasi spirito, avviso di quel che sarà.
E anche la volontà c'entra, è sicuro. Non si canta sopra il pianto straniero del mondo, oppure a sovrastare la pena di un silenzio che va prima esaudito.
Bisogna volere una storia nuova, per poter cantare. E lavorare con mani e piedi e intelligenza e volontà a questa storia. Per questo, ed è bellissimo, chi lavora, può cantare.
«Saldo è il mio cuore, Dio,
saldo è il mio cuore:
voglio cantare inni, anima mia» (Sal 108, 2)




Mariapia Veladiano

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04/05/2012 09:33




Pensare



Dicono che sia la nostra più nobile facoltà. Ci mette proprio in cima alla piramide. Autorizzati solo noi ad accatastare summe, a esser dottori, rettori, chiarissimi e anche monsignori, e a parlare dell'Altissimo.
Piccola rassegna, senza qualità e pretese, di pensieri quotidiani: che faccia, che pancia, non mi entra niente, son tutti ladri, ci rubano il lavoro, e anche delinquenti, non ci si può fidare di nessuno, è sempre la solita storia, fa preferenze, si capisce che c'è dietro qualcosa, quanti anni ha? dove sta? chissà da dove gli arriva, lui ha detto, lei ha detto, forse ha voluto dire, si capiva che era contro di me, invidioso, sempre a pensar male di tutti, ma l'ha detto o non l'ha detto? Cosa ci vuoi fare, così va il mondo, così va il mondo così va il mondo.
Scrosciare di chiacchiera chiusa, intima, che ci svigorisce, offende, ammala.
E grazie al cielo, come ombra sognata nell'abbaglio che spiana e livella i nostri desideri, arrivano i pensieri della cura, dovuta e insieme amata: vado a prenderlo a scuola, le faccio una sorpresa stasera, prendo il pane fresco, un mazzo di asparagi per tutti noi intorno al tavolo, a raccontare il giorno.
Quanti pensieri, numerati dal mattino alla notte, coltivano la nostra nobile facoltà?
«Radice dei pensieri è il cuore» (Sir 37,17)



Mariapia Veladiano

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05/05/2012 09:21



Conoscere


Di certo sappiamo che l'indaco è un felice miscuglio di ciano e magenta e che la stalagmite delle Bahamas è cresciuta al ritmo di 10 millesimi di millimetro l'anno.
Da qualche parte dell'universo, ci dicono anche, intere galassie spariscono dentro i buchi neri e nell'Oceano Indiano quasi seimila specie di pesci si affollano mentre nel Mar Morto solo qualche Archeobatterio alofilo fa compagnia a qualche Eubatterio a sua volta alofilo.
Abbiamo poi appreso con sollievo che i neutrini non corrono più veloci della luce come qualcuno pretendeva di sostenere e ci fa un piacere assurdo non dover prendere a martellate il cemento amato del nostro sapere di scuola.
È certo anche che ci sono a spaglio un po' ovunque malesorti: mangiar polvere e acqua e nell'acqua morire, Mare Nostrum, mostruoso passare e andare senza lasciare tracce. Anche questo ci raccontano, e vuol farsi strada dentro di noi, ci arriva da tutte le parti, in carta e in onda, e come ci tormenta.
È un bel combattere per non piegarsi a questo che pretende di essere il nostro sapere quotidiano e così, coperti di vergogna, poter continuare a commettere la nostra vita, tutta preterintenzionale, sia chiaro. E chiediamo anche le attenuanti
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Mariapia Veladiano

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06/05/2012 07:36


GIUDICARE



Mi piacerebbe pensare che mai mi capiterà di non fare quel che dovrei fare e invece non posso pensarlo perché so che è troppo facile qui alla finestra protetta del mio affaccio luminoso sulla piazza delle Erbe, pulita e senza uomini, bambini e donne in pericolo ma chissà se penserei gli stessi pensieri con il suolo che si apre e il mondo che si rovescia oppure semplicemente con l'anima squarciata da un'offesa che non immaginavo.
Eppure, penso, si deve credere che dobbiamo provare, e provare e provare e coltivare la fede che possiamo essere quel che dobbiamo, in nome dell'altro e perché pareti sottili, molto sottili ci dividono dalla vita e dalla morte di chi ci sta accanto. Eppure capisco che si può non farlo. Per nascondere una cosa, piccola cosa, o per paura o perché il mio spirito si è incagliato per un momento, solo un momento. E allora penso che bisogna non lasciar perdere nulla, punire certo per quel che offende la vita mia e di tutti, ma soprattutto capire e capire e capire come questo può capitare e coltivare un mondo in cui possa capitare poco, pochissimo. E penso che il mare di tremende parole che tutti i giorni diciamo, e di tempo che sprechiamo a dir male, ci può sommergere. Che il giudizio è la nostra morte anticipata
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Mariapia Veladiano

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09/05/2012 08:03






Volare



C'è un'impronta sempre. È il prezzo del corpo. Si mangia e si lasciano ossa sul piatto. Si cammina e la terra se ne ricorda.
Se si corre, addirittura trema la terra, e si può disturbare chi ha bisogno di silenzio.
Ci sono anche sentimenti più pesanti del corpo. La rabbia ad esempio riesce a raddoppiarci, piombo anche sull'anima, che così annienta dispute secolari sul suo esistere.
Si può voler essere più leggeri del proprio corpo e anche di qualsiasi nostra anima infelice. Onnipotente delirio qui in terra, e si può fin morire di questo desiderio di volare. Giovani. Palloncini sfuggiti alle nostre stesse mani.
E si può però decidere di camminar leggeri. Pieni di pensieri curiosi invece che sentenziosi. E vivere con la grazia delle stagioni a cui diamo quel che prendiamo, felici di esser custodi del giardino della Genesi.
Si vola di gioia. Assaggio di cielo. Però si deve stare attenti al sole. Mai perder di vista la terra. Scendere può essere duro.
E poi le cattive notizie volano, si dice. All'incrocio qualcuno distratto ha abbattuto un muretto. Più lontano un bambino è caduto. È vero, le cattive notizie volano. A volte viaggiano nel silenzio di un grido che aspettiamo e non viene.
C'è da aver paura di quel che è senza corpo qui sulla terra.



Mariapia Veladiano


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10/05/2012 08:21



Generare



Di generazione in generazione. Si pensa (forse, si è pensato) a volte che generare sia scontato e naturale, vita ricevuta con gratitudine e data con la spontaneità operosa della primavera che arriva con il suo incanto sicuro.
Pensare incauto, quasi che il dubbio portato dal fumo indecente dei campi non avesse oscurato il cielo, il cielo delle stagioni, per non dire del trono di Dio. E come se la paura non abitasse oggi il centro di tutto. Paura di non avere abbastanza, non poter difendere dal dolore, non saper dire le parole che rispondano al perché: «Perché la vita, col suo male?».
Abbiamo dilapidato il bene del mondo a nostra condanna. La sua bellezza, e non c'è più il candido appena rosa di un melo fiorito da offrire in risposta, né quasi più ormai un paesaggio nel mare di nebbia per cui ringraziare. Abbiamo chiamato successo il nostro prevaricare, e neanche l'offesa abbiamo condannato, o il potere ostentato alla faccia del povero.
Oggi generiamo sapendo di dover rendere ragione ogni ora della fede che è in noi. Quasi una santità segreta ci è richiesta, minutissimo discreto mostrare che tutto ha valore di questa tremenda splendida vita che pure vogliamo.
Che possiamo non sottrarci alla vita, nostro bene, nostro tutto
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Mariapia Veladiano


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11/05/2012 07:45



Ricominciare


Ad essere civili? A controllare le parole che pronunciamo irrimediabilmente? A raccontare storie che ci fanno abbracciare?
A ricordare. Quel che molti ci hanno offerto. E i desideri che frullavano le nostre mattine. Senza misura e durata. Promesse di tutte le creazioni possibili.
A ostinarsi, e a non lasciare che la furia d'esistere di cui ci sapevamo felicemente impastati si lasci sfumare dall'abitudine a pensare pensieri comuni, desideri di tutti, circoscritti di sicurezze, troppo presto diventati cemento di muri alla cui ombra adattarsi, invece che pensieri dispersi, consegnati e ritornati freschi con la grazia e la larghezza di un campo di nuovo fiorito senza sforzo alcuno dalla polvere invernale.
Ricominciare dopo essere stati frodati di tutto, incompiuti, inflitti, mancanti, senza un bene da rivendicare, un bambino da accudire e grazie al quale dimenticarsi, senza essere eroi, con la grazia unica, tutta nostra, ricevuta e forse per un poco dimenticata, di poter osare tutta la libertà, santi non necessariamente, ma divini sì, in quella vita ricevuta che è per sempre nostra, forza, luce, in fondo, dentro, che esce quando non l'aspettiamo, ma la vogliamo, e ci fa ricominciare quando tutto sembrava perduto.



Mariapia Veladiano


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12/05/2012 07:00





Parlare



Dire solo parole che fanno la differenza.
Prima qualcuno era fuori, e noi lo abbiamo invitato ad entrare. Anche se non aveva le parole per chiederlo.
Lui non conosceva il suo nome, e noi lo abbiamo chiamato mentre ancora era lontano. Pentecoste quotidiana di chi si riconosce.
C'è anche chi non sa proprio le parole, straniero al paese in cui ha trovato rifugio e anche a se stesso in questa terra, e allora noi gliele insegniamo, una a una, festoni di suoni colorati appesi alle pareti d'aula, raggruppate in famiglie composte e perbene: casa, casina, casetta, casona, casata. Anche caserma per movimentare un po'. E a volte capita di consegnare una parola per noi indifferente e facile facile, come mare, ad esempio e quando loro, i bambini, ce la restituiscono e appendono il festone, scopriamo che non hanno potuto far famiglia, perché forse l'hanno persa per sempre, e le parole ci ritornano raggruppate per desideri e dolori: mare, mamma, casa. E anche porto, buio, onde, paura. E felici allora se troviamo parole che accolgano le loro che adesso oscillano lievi ogni volta che le sfioriamo sospese, disposte a diventare racconti non ancora scritti ma già pronti quasi a disperdersi nel mondo quando il vento entra dalle finestre aperte dell'aula e le solleva come la coda di un aquilone
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Mariapia Veladiano

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14/05/2012 10:30



Ammiccare



Purché il male non si veda. Disposti a tutto. A chiamarlo normale: normale ostentare la ricchezza, normale esibire potere, parole e persone, normale prevaricare, farsi raccomandare, tradire per poter luccicare un momento in tv, sul podio, sul palco, della fiera di paese. E poi negare: la malattia segregata o esibita, e l'età che naturalmente cammina, e poi la morte che ci dice
creature.

E c'è poi un modo oggi fatale di nascondere il male. Raccontarlo per minuto, di dritto e di sguincio, con tendini candidi recisi di netto da mannaie di criminali o da bisturi di anatomopatologi, fra urli e silenzi che ugualmente ci frastornano.
Troppo vedere, per poter non distinguere, ammiccare indecente al nostro essere peggiore. Troppo dentro, troppo frullati per poterlo chiamar per nome il male. Pronti a dire che tutto è male nella notte nera delle nostre responsabilità.
Coltivare col pensiero l'impotenza dell'azione. Come se non ci fosse una possibilità di giustizia, se non di ripararlo almeno di denunciarlo il male, dar voce limpidissima a chi lo subisce, dire che forse è sì vero che non possiamo a volte evitare di dargli principio, ma lo possiamo fermare ogni giorno in noi, chiamarlo per nome e dirgli: «Qui oggi tu non passi, in me, tra noi, non passi».




Mariapia Veladiano


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15/05/2012 09:42



Attendere



È un ponte, l'attesa. Si crede che oltre, dopo, ci sia qualcosa, anche se può capitare di non veder bene. Ma c'è un passo da fare e lo facciamo, a volte sull'impronta segnata da un altro. C'è un desiderio che mi porta e diventa movimento e se il procedere è senza traccia alcuna capita di pensare che il ponte si costruisca sotto i nostri passi, diventati noi creatori, per grazia.
È buona l'attesa, ci restituisce alla nostra responsabilità: se dopo di me non c'è l'abisso, custodisco allora il tempo che vivo e quello che viene. Per chi ancora viene e verrà.
Quando oltre c'è qualcuno, allora l'attesa diventa un preparare veloce, festoso e inquieto, dal vestito ai pensieri alle parole: cosa dirò? come starà? Allora tutto di noi diventa importante, e anche intorno a noi, lo spazio, le cose.
Non c'è debolezza, rassegnazione, pigrizia, indolenza nell'attesa. Nella promessa consegnata l'attesa è vita purissima, coltivata, difesa, progettata, infine riconsegnata a chi l'ha a sua volta attesa.
Non si deve aver paura di fare promesse.
Così è l'amore che sa mantenere quel che ha promesso anche nei lunghi spazi delle assenze che sappiamo capire e anche che non possiamo capire.

«Assenza, più acuta presenza». Attilio Bertolucci.




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16/05/2012 08:30



Sedurre



Eppure c'è del buono nel seduttore. C'è la vita dentro il suo desiderio bulimico dell'altro, delle altre, uomini e donne non importa, processioni stregate dalla promessa del mercante, d'amore, di parole.
Il suo potere è nelle parole. Un incanto. Sempre quelle giuste, mai barocche, esagerate eccessive, retoriche. No no. Sempre sull'orlo di quel traboccare oltre ma non traboccano mai. Promettono di farlo ogni istante e alla promessa sono aggrappati i desideri di chi lo ascolta. Donne soprattutto? Perché del loro desiderio d'amore racconta la letteratura? No no, gli uomini anche. Perché è il potere a sedurre. Dirigenti, docenti, politici, scrittori. Anche sedicenti, finché dura.
Dà più dolore che gioia il seduttore, molto più dolore. Ma tutti intorno a lui sperano la gioia che le parole promettono. Perché lui conosce i desideri. Esser visti, noi unici agli occhi suoi, e poter vivere. Riconosciuti finalmente, nella luce sua brillare un poco anche noi alla fine. E ora l'uno ora l'altro lui lo guarda e tocca, e così tutti sospesi sperare. E il suo potere così è grande e vince lui, sempre lui la contabilità dell'avere.
È l'obbedienza il controveleno al seduttore. Obbedienza al chiamare di chi non sa gridare il suo bisogno e così poter dire con allegria: «Eccomi!». E ritornare alla nostra pace
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17/05/2012 08:29



Riparare



Non è di moda, non lo fa più quasi nessuno, dalle scarpe ai rapporti. Funziona o non funziona e buttare è un gesto distratto, una piccola parabola in discesa che attraversa clandestina la coda dell'occhio intanto che facciamo il caffè. E che non si veda dove finisce. È fastidio intollerabile la Geenna cittadina dei rifiuti fumanti.
Anche i rapporti. Le storie stampate ci insegnano: è amore, naturalmente eterno, se dura cento pagine, poi diventa indifferenza a scomparsa e odio, quello sì eterno. Perché un altro amore, naturalmente eterno, si fa largo nelle ultime pagine.
Persone appaiono e dispaiono. Amici, nemici, lontani, nessuno. Come se il mondo fosse solo deserto o giardino, ineluttabile abitare quel che capita, perché così va la vita, non c'è niente da fare, bisogna prender quel che viene, ma dove-vive-lei, la gente è così, a esser sognatori ci si perde sempre, come se non si potesse coltivare il deserto, e anche il giardino.
È un'arte il riparare, se ben coltivata può far nuove tutte le cose, e non perderne neanche una, né una persona mai, perché bisogna aver vicino quel che si ripara e così, semplicemente, non si dimentica il suo valore. In tutta la Bibbia è un'arte divina, come il creare.
«La terra, che era desolata, è diventata ora come il giardino dell'Eden». (Ez 36,35)



Mariapia Veladiano

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18/05/2012 09:49



Scappare


E come si fa?
La terra è una. La vita è una. La nostra umanità è una. Scappare vuol dire lasciare indietro qualcosa. Cosa lasciamo? Quale lontano possiamo raggiungere se la vita ci precede, ci avvolge, ci abita?
Certo è una tentazione e come tutte le tentazioni è un'illusione. Sembra una via d'uscita: «Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!» (Mt 27,40).
È la croce il problema. La dolorosa struggente chiarezza del male che tocca le nostre vite. E la tentazione di scappare è forse di chi più sente e ha sentito e per contagio di comune umanità continua a sentire che non c'è riparo al dolore perché il dolore è mistero da sempre e nel suo mistero non preferisce i malvagi, a nostra consolazione.
Gli altri non ci pensano neanche a scappare e la calcano bene la terra, con falcate lunghe che lasciano il solco, e a gambe larghe fanno sosta davanti alle croci sbracciandosi a dire che se la son voluta, che basta saper vivere. E non sanno la vergogna di sé.
È il nostro restare, insieme e non divisi, che sfida ogni giorno
la barbarie di tutte le croci. Qui in terra. Sperando il giorno, ma saldi a passare insieme la notte.
«Può darsi che domani spunti l'alba del giudizio universale: allora, non prima, noi deporremo volentieri l'opera per un futuro migliore». (Dietrich Bonhoeffer)




Mariapia Veladiano

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19/05/2012 10:29



Tacere



Ogni volta che c'è da ascoltare. Silenzio necessario per captare suoni anche lontani, richiami a cui accorrere, passi di qualcuno che è atteso, e potergli andare incontro, preparare per lui il nostro spazio.
O per non perdere parole che a volte appena muovono l'aria. Parole che rovesciano la nostra storia, o la sua.
Anche quando non si ha niente da dire si deve tacere. Sulla persona che nemmeno conosco, ma so ogni cosa, arrivata dal parlare di chi a sua volta nulla conosceva, ma non ha taciuto. E allora tutto può essere detto e chi ferma il fiume delle parole ormai dette?
E poi tacere quando c'è da conservare un segreto. Consegna di sé. Chi sa oggi tenere i segreti?
E davanti alla tragedia. Per sentire il morbido passaggio delle schiere di angeli che corrono, a salvare un bambino, e non sappiamo perché non li salvano tutti. E poi quindi tacere anche davanti al mistero assurdo e supremo della morte bambina. Per non dire parole superbe e sentire se forse una Parola arriva, di consolazione e promessa: ci sono, sono qui, risorto come tutti risorgono.
Tacere per sentire il suono della Parola che leggo.
Per ascoltare il suono del proprio esistere.
Per custodire verità che possono far trafiggere.
Ma quando la nostra parola attesa può salvare, guai a noi per il nostro tacere.




Mariapia Veladiano


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