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"AVVENTURE" - Riflessioni quotidiane di Roberto Mussapi

Ultimo Aggiornamento: 01/10/2012 11:06
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02/07/2012 11:23



AVVENTURE

UN POETA IMMAGINA

Secondo avvicendamento trimestrale per la rubrica di prima pagina, l’appuntamento quotidiano di riflessione per i nostri lettori. Il nostro caldo ringraziamento a Mariapia Veladiano, che dal primo aprile a ieri – ricevendo il testimone da Gennaro Matino – ci ha proposto una emozionante indagine poetica su azioni e sentimenti umani sotto il titolo interrogativo «Ma come tu resisti, o vita?», tratto da uno scritto di san Giovanni della Croce. E un cordialissimo benvenuto in questo spazio a Roberto Mussapi, che nei prossimi tre mesi ci proporrà le sue «Avventure». Nato a Cuneo nel 1952, poeta e drammaturgo, Mussapi vive a Milano dove insegna Drammaturgia all’Università Cattolica del Sacro Cuore. Autore e conduttore di programmi per Radio Rai, dirige la collana «I poeti» per le edizioni Jaka Book. Ha tradotto numerosi autori di lingua inglese e francese. Numerose le sue letture poetiche in pubblico, per radio o in sala d’incisione. Mussapi è ben noto ai lettori di «Avvenire», essendo da tempo nostra apprezzata firma.

«Per ultimo ho dato all'uomo il fuoco».
Lo inchiodano a una scoscesa scogliera della lontana Scizia, affinché sconti il suo estremo atto di amore per l'uomo: Prometeo ha portato agli umani il fuoco, fino ad allora privilegio esclusivo degli dèi. Prometeo è un dio, come grida indomabile in quella posizione crocifissa, ha donato all'uomo la parola, la conoscenza dei numeri, la scrittura, e ancora l'arte mantica. Poi ha donato loro la memoria, inscindibile dalla speranza. E infine, dopo la speranza, il fuoco che sancisce la nostra definitiva distanza dagli animali, che allontana le fiere, che ci consente di fondere i metalli e dominare la dura e sorda materia.
Lo spettatore del teatro di Atene, nel V secolo, a.C., vedeva un attore con mani e piedi inchiodati a una rupe: posizione di crocifisso. Apprendeva che un dio che amava l'uomo più di tutti gli altri dèi del Pantheon era
inchiodato e torturato per ordine di Zeus. Un grande poeta greco, di una civiltà che non ha relazioni con quella di Israele e dei suoi profeti, immagina un dio più buono degli altri, capace di sacrificarsi, lasciarsi crocifiggere, morire e poi risorgere.


Roberto Mussapi

L'Avvenire

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02/07/2012 22:42

Benvenuto allora a Roberto Mussapi! [SM=g27985]

Non ho mai letto nessun testo di questo scrittore ...
sono quindi curiosa di leggerlo....

Cara Aurora [SM=g1730207]  nel frattempo provvedo a spostare
gli articoli di Maria Pia Veladiano nella bacheca:
"Meditazioni" come avevo già fatto con i testi
di Mons. Ravasi così che rimangano sempre di facile lettura
nel tempo [SM=g27985]

Cara Amica, GRAZIE del tuo costante impegno nella Com 

DTB!  [SM=g1730275] Anam
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03/07/2012 08:22


Sì, carissima amica.. [SM=g1730207]

Un gran bacione [SM=g27987]

aurora


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03/07/2012 08:23



AGIRE E RESISTERE



«Rassegnati, mio spirito, dormi il tuo sonno brutale.» Charles Baudelaire, il grande poeta francese, in una lirica intitolata Desiderio del nulla, fissa uno dei momenti dell'esistenza di ogni uomo in cui senza ragione, senza cause riconoscibili o apparenti, lo spirito sprofonda in una sorta di abbattimento.
Nulla a che vedere con la disperazione di chi ha subito un
lutto, o sta vivendo una tragedia. Sono irruzioni di quel demone del nulla che i medici salernitani del Duecento definivano Demone meridiano, un'invasione di nichilismo, di sfiducia. Il poeta Baudelaire accetta questa indesiderata condizione, non la rimuove. Ma come reagisce? Accettandone l'influsso nefasto, ma scrivendo dei versi, contrapponendo a questo demone nullificante l'attività dell'uomo che agisce e resiste. Il tempo lo inghiotte, ma l'uomo cerca di fermare queste sensazioni sulla pagina. Le vuole conoscere e rendere comuni ad altri. Così, ogni volta che un insensato pessimismo ci coglie
in un momento normale del giorno, dovremmo accoglierlo come parte del nostro essere. Non siamo nati e fatti solo per ammirare le stelle, il tramonto, il creato. A volte ne sentiamo, immotivatamente, il peso. Accettare questa condizione significa accettare la vita. Indirizzandola verso altre sue manifestazioni, felici, vitali, luminose. Se vivo questi momenti significa che vivo. E vivere è magnifico.




Roberto Mussapi


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03/07/2012 22:23

Al Moro di Venezia

Salpai dagli Schiavoni per annullare il tempo.
Lo vidi, svanire, ad Acri, dove il confine dileguava,
ne udii lo smembramento nei brevi viaggi per mare,
scosse violente a poppa, rumori nella stiva,
e vele che il vento lacerava a brandelli.
Poi fu un lungo cammino, a piedi, a cavallo, in un paesaggio
cangiante nelle forme e nei colori,
ma immobile ormai nell’oltretempo.
L’Oriente dei lapislazzuli e dell’alabastro,
dei maghi idolatri che adoravano il fuoco,
del Vecchio della Montagna che scompariva nelle brume
col suo reame e le sue vittime, a ogni tramonto.
Non ho avuto bisogno di fumare l’oppio,
vivevo tra l’incanto e il miraggio,
tra il vero inafferrabile e il gioco artefatto
da maghi ignoti e forse inesistenti.
Lui, Khublai Khan comprese il mio sgomento,
il desiderio e l’angoscia del viaggio,
la sete e l’orrore dell’orizzonte.
Moro, che da quella torre sancisci il tempo,
nell’orologio costruito dopo la mia morte,
Moro, tu che batti il nero dei secondi e dei secoli,
dimmi se fu illusione la mia fuga dal nostro mondo di numeri
visibili nell’aria come piramidi o cerchi
o se sei tu il folle che cerca di scandirlo.
Dimmi se Marco Polo si allontanò da Venezia
per il commercio infinito e lo scambio incessante
o se tu che martelli il passare degli attimi
conosci un tempo che oscuramente mi mosse,
dove l’istante e l’infinito coincidono.


da: "La stoffa dell’ombra e delle cose", Mondadori, 2007
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04/07/2012 10:05



CERCARE ALTROVE



«Ogni tanto sento bisogno di salpare, partire in mare», afferma Ismaele, il narratore in Moby-Dick, capolavoro di Herman Melville.
Molti hanno un'idea sbagliata su chi si allontana dal suo luogo per cercare nuovi orizzonti. La mia generazione ha conosciuto, negli anni Sessanta, chi partiva per un indeterminato e generico Oriente, alla ricerca di se stesso. Sovente si trattava di un'evasione, una fuga dalla realtà, dall'hic et nunc. Ma la condanna a priori di questa fuga è limitata, frutto di paura del diverso. Il desiderio di fuggire verso nuovi e sconfinati orizzonti nasce da una percezione concreta e sana del nostro essere: sete d'infinito. L'uomo ha bisogno di uscire di sé, salpare, cercare qualcosa altrove. Questa esperienza può essere compiuta con un viaggio fisico (missionari, esploratori, astronauti), o con un' uscita da se stessi necessaria, per la nostra salute, ogni giorno. Il centro di noi stessi è in noi, ma se arroccato nelle proprie mura spegne ogni spirito di conoscenza e avventura. Salpare verso l'ignoto, andar per mare, come esprime Ismaele, significa cercare il senso ultimo di noi stessi. Che non è nell'altro, ma nel nostro confronto con l'altro. Che ha un centro esattamente come lo abbiamo noi. Non arroccarsi, non chiudersi, vuol dire tradurre, comprendere, andare incontro.




Roberto Mussapi


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05/07/2012 07:46



L'ISOLA CHE C'È


«Può darsi che su quest'isola ci sia il tesoro, di sicuro c'è la malaria». Parla il dottor Livesey, osservando al cannocchiale l'isola a cui, a bordo della nave Hispaniola, è diretto con i suoi amici. Il giovane Jim Hawkins, che lavora con la madre vedova alla Taverna portuale a Bristol, trova fortunosamente la mappa di un tesoro sepolto da pirati in un'isola lontana. Ne parla con il dottore e notabili del luogo, che organizzano una spedizione. L'Isola del tesoro di Stevenson è uno dei libri più letti e importanti dell'umanità.
L'affermazione del dottore è fondamentale, per loro e per noi: può darsi che dopo questa lunga, pericolosa navigazione, si trovi, davvero, il tesoro. Ma la malaria è certa, diagnostica il medico, che si rivelerà buon profeta. Quello che noi cerchiamo, il tesoro, vale a dire il simbolo di ciò che cambia in bene la nostra vita, liberandoci dalle ambasce quotidiane, non è a portata di mano. Per trovarlo dobbiamo partire, metterci in gioco, rischiare, uscire di noi stessi, affrontare l'ignoto. Ma non è affatto detto che il tesoro si trovi in una specie di paradiso artificiale. L'isola del tesoro può essere malarica, paludosa, infetta. Come il volto enfiato o giallastro e sporco di uno che incontri per strada, lacero, povero. Quella è l'isola che devi raggiungere, lì forse si cela il tesoro
.



Roberto Mussapi


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06/07/2012 09:36



SENZA CALCOLO



«Nessuno deve temere di perdere qualcosa, nel tragitto dell'anima». È una frase semplice e nello stesso tempo enigmatica del grande americano Ralph Waldo Emerson, contemporaneo di Melville e Whitman, un pensatore
simile ai presocratici, in cui si fondono pensiero, racconto e poesia.
Incipit coraggioso, al limite dell'azzardo o della spavalderia, alla Paolo di Tarso: «non abbiate, non abbiamo mai paura». Impresa solo apparentemente facile: quante occasioni della nostra vita sono state mancate per una paura inconfessata, priva peraltro di una vera causa? Paura del nuovo, dello sconosciuto, di noi stessi.
Quante volte ci è andata bene, nonostante un attimo di immotivata paura che rischiava di compromettere l'avventura di un istante, la scoperta di qualcosa fuori di noi, nell'“altro”? Ci è andata bene, ripeto, perché l'istinto, il senso di appartenenza, la compassione hanno spontaneamente prevalso sul calcolo, sulla prudenza interessata, su quella forma di paura non giustificata che ipocritamente è metaforizzata nel temine buonsenso, tutto attaccato, per paura che si spezzi e sgretoli. Emerson sta parlando dell'anima: di fronte alla quale non si deve avere paura di perdere nulla. Se ci spiazza, ci manifesta scenari nuovi e inauditi, crollino pure le nostre certezze, nulla si perde seguendo lei, l'anima.




Roberto Mussapi


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07/07/2012 08:59



CONTROCORRENTE



«Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato». La frase finale del capolavoro di Francis Scott Fitzgerald non riguarda solo il protagonista del romanzo, il grande Gatsby. Ma come ogni pagina, riga e parola dei grandi libri da Omero in poi, riguarda tutti gli uomini. Noi andiamo avanti, cercando una nuova sponda o almeno seguendo un sempre nuovo orizzonte. L'impresa è vana come la lotta di Don Chisciotte contro i mulini a vento, poiché non possiamo mutare la realtà. Remiamo contro corrente, impresa destinata alla sconfitta, fatica che produce non avanzamento ma immobilità. Ma la corrente vince la forza del rematore e la spinta del remo, ci risospinge senza posa nel passato. Non è, come può apparire a una prima lettura, una visione disperata, o quanto meno disarmante: indica invece la forza dello spirito che spinge l'uomo in avanti, remando, pur se l'impresa pare impossibile. Non si tratta della fatica di Tantalo, non a caso punizione infera, tormento per le anime dell'Ade classico, privo di speranza. No, il nostro slancio non è privo di risultati: essere risospinti senza posa nel passato è l'opposto che sostarvi a vita, per pigrizia o inettitudine. Remare in avanti, nonostante la corrente, produce una visione continuamente nuova di quel passato, lo rende presente e attivo, contribuisce a remare verso l'ignoto, mantenere il sogno dell'orizzonte.



Roberto Mussapi


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08/07/2012 06:47



TEMERSI NESSUNO



«Chi ti ha accecato?». «Nessuno mi ha accecato». Anche in questi tempi di smemoratezza, o oblio, resta celebre la frase con cui Ulisse inganna il gigante Polifemo, essere mostruoso, con un solo occhio al centro della fronte, che si nutre di carne umana. A Polifemo che gli chiede «Chi sei? Come ti chiami?» Ulisse risponde: «Nessuno». Così, accecato nel sonno dal palo che Ulisse gli conficca nell'occhio, il gigante griderà che Nessuno lo ha accecato e nessuno, proprio, dei suoi colleghi ciclopi gli darà retta, permettendo al re di Itaca e ai suoi di fuggire e salvarsi. Interpretazione inconfutabile. Ma non sufficiente. Sarebbe un po' poco, da parte di Omero, inventare queste frasi per confermare la nota astuzia di Ulisse. C'è altro, ben più profondo e angoscioso: Polifemo è una specie di uomo, un mostro semiominide, la sua natura offende la natura umana. Ma è uomo, comunque: eretto, bipede, si esprime con linguaggio parlato. Ulisse di fronte a questo essere è sgomento: se anche questo è un uomo, allora io, uomo, io non ho nome, io sono nulla, mi chiamo nessuno. Di fronte alla mostruosità dell'uomo, al pedofilo, al campo di concentramento, alla schiavitù, allo stupro, io non sono più certo di avere un nome, come uomo: se l'uomo è anche quello, vacillo: in quel momento, per fortuna non eterno, io temo davvero di essere nessuno.



Roberto Mussapi

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10/07/2012 09:53



COME UN FIORE



«Il fiore si nasconde tra l'erba, / ma il vento sparge il suo profumo». Due versi sapienziali, limpidi e lancinanti di Rabindranath Tagore, grande poeta indiano, una delle maggiori voci del Novecento. Il fiore è una delle creature più belle: colorato, profumato, gentile, nasce sulla terra a decorarla, una manifestazione di bellezza spontanea, un dono. E infatti, per le persone gentili, da sempre il dono per antonomasia è un fiore. Questa bella e dolce creatura non si mette in mostra, non si isola dal mondo vegetale a cui appartiene, ma se ne sta ben felice tra gli infiniti fili d'erba, vivendo nella sua comunità, senza manifestare la sua bellezza. Ma la bellezza, quella vera, come non ha bisogno di essere ostentata, non si può celare: il suo potere è più forte di ogni altro. Provvederà il vento a spargere il profumo del fiore, nella natura si trova la ricompensa al piccolo prodigio della natura. Se un'anima ha affinità con il fiore, se è dotata di dolcezza, smalto, colore, sempre qualcosa che spira la porterà agli altri, spargendo il suo profumo, il suo sentore. Alcune persone hanno un'aura, di bontà, di luce, di cui sono quasi sempre inconsapevoli. E che di conseguenza non penserebbero mai di ostentare. Ma attorno, nell'atmosfera, c'è qualcosa che ne coglie il profumo, lo spirito, e lo diffonde nell'aria, lo rende percepibile ad altre persone. Noi, consapevoli o meno, percepiamo l'aura di chi vive come un fiore.



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11/07/2012 10:01



L'AMORE CHE RISPONDE



«Un mondo, certo sei tu, Roma, ma senza l'Amore
/il mondo non più il mondo, Roma non sarebbe più Roma».
Johann Wolfgang Goethe, il grande poeta tedesco, scrive
questi versi nelle sue splendide Elegie romane. Parte per Roma come un pellegrino diretto al tempio della Bellezza. E rivela nei suoi versi un'idea forte, giusta, non equivocabile di bellezza. Che si manifesta nella forma, ovviamente. Ma tale forma non potrebbe nascere e svelarsi senza l'amore che della bellezza è linfa, sostanza, miccia. In questo senso, incantato davanti a Roma, quintessenza della bellezza, natura, storia, arte, una realtà piena e conclusa, il grande poeta Goethe, che ha maturato e sedimentato uno straordinario patrimonio di conoscenza filosofica, religiosa, scientifica, alchemica, mentre è incantato dal cielo di Roma, dalla sua luce e dalle opere dell'uomo, comprende quale sia il combustibile, l'amore. Amore divino è origine e causa del cielo, della luce, dei tramonti, delle brezze, della vegetazione di Roma. Amore umano edifica la capitale del mondo antico
che diverrà Europa; amore umano, ispirato, genera la onirica, bianca, Roma rinascimentale e barocca. La bellezza visibile, in natura e nell'arte, non esisterebbe senza la bellezza profonda, invisibile, l'amore che risponde con lirica e inno al miracolo della vita. Tutto ciò che è bello è frutto d'amore.




Roberto Mussapi


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12/07/2012 10:05



SOLO COSÍ, SOLO QUANDO



«Allora le auguro dal profondo del cuore di ritrovare il senso dell'angoscia davanti alla morte del sole. Lo auguro a tutto l'Occidente, con tutta l'anima».
Cheikh Hamidou Kane è uno dei grandi scrittori africani affermatisi negli anni Sessanta, alla caduta del colonialismo. Nel suo capolavoro L'ambigua avventura un maestro nero, un sapiente in una comunità africana, si rivolge con le parole citate a un bianco, e l'augurio, in forma di invettiva, prosegue salendo di tono. È una delle più grandi esortazioni che la poesia abbia scritto all'uomo occidentale di oggi, a opera di un nero, in pieno e moderno Novecento. L'invettiva è un atto d'amore: auguro a tutti voi uomini d'Occidente di provare alla sera l'angoscia del tramonto, di sentire che il sole, in quegli istanti, s'inabissa nel mare e muore. Di sentirvi in sintonia con il creato, con la natura e il suo panico. Solo così, domattina, al risveglio, scoprirete la bellezza dell'alba e del mattino, lo splendore della luce e della vita albare. Anestetizzati dal monopolio di un totalitario pensiero logico-scientifico, insuperbiti da un presunto dominio sulla natura, ci accorgiamo del suo mistero solo quando un terremoto rade al suolo un'isola, o una città. Apatia, causata da presunzione, e il palpito della vita ci sfugge, e va recuperato: la concretezza quotidiana del divino.




Roberto Mussapi


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13/07/2012 14:48



METÁ DELLA NOSTRA VITA



«Noi siamo fatti della stoffa di cui sono fatti i sogni». Allora Shakespeare, autore di questo verso, afferma che la nostra vita è vana e inesistente? Come i sogni inconsistente, illusoria? Una visione nichilista. Al contrario: chi può negare che la nostra vita, vita terrena, a un certo punto svanisca? Ma Shakespeare sottende che i sogni, come dissolvono, riappaiono: non muoiono mai definitivamente. Il materialista duro e puro, l'ateo fondamentalista, risponderebbe che il corpo vive e poi muore, punto. Verissimo: sarebbe folle svalutare la realtà fisica del corpo: chiedetelo a chiunque soffra, a qualunque malato o ferito. E il corpo conosce pure felicità. Questa realtà è vera e innegabile, ma non sufficiente. Lasciamo stare la dimensione spirituale dell'uomo che l'ateo fondamentalista esclude. Domandiamogli se si è mai innamorato. Perché di quella persona e non di un'altra? E le simpatie? Perché qualcuno ci è simpatico e un altro no? E perché qualcuno si trova tifoso di una squadra di calcio e qualcuno nasce e permane indifferente? Perché uno ama la musica e altri no, uno i cani e un altro le piante? La parte fisica del nostro essere è importante. Ma quella spirituale, muove metà della nostra vita. E la sua sostanza non è di muscoli e sangue (benedetti, sia chiaro), ma impalpabile, tessuta dal nulla, come i sogni.



Roberto Mussapi



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14/07/2012 10:56



OLTRE L'ATTIMO



«La mia pena è durare oltre quest'attimo». Verso memorabile del grande Mario Luzi: quante volte, inavvertitamente, ognuno di noi ha vissuto una simile sensazione, subito svanita? Svanita appunto in quanto percepita come sensazione, cioè al puro livello dei sensi: che non ingannano, al contrario di quanto recita il luogo comune, poiché colgono perfettamente il lampo, o il buio che ci colpisce. Ma non ingannano a patto che non si chieda loro ciò a cui non sono deputati: fare memoria, fare conoscenza. I sensi illudono se si interpreta il loro responso come un verdetto durevole. Quando invece la loro percezione deve passare a un'altra sfera dell'essere, che fissa, ferma, ricorda, rende memorabile. Qualcosa che accadde e andò perduto. I poeti sono al mondo per questo, rendere memorabile ciò che tanti uomini hanno appercepito, e poi smarrito, come un brivido o un sogno. Quante volte l'esistenza quotidiana si illumina improvvisamente, gratuitamente, imprevedibilmente, di fronte a un volto visto in una certa piega o posizione, un sorriso o un velo di pianto trattenuto, tra la folla, in metropolitana o al supermercato? Poi, spingendo il carrello, rispondendo al cellulare, quella visione di comunione col mondo svanisce, come il ricordo di un tramonto o una luce sul mare. Pena, durare oltre quell'attimo. Ma qualcuno lo riporta al tuo presente, qui, ora.



Roberto Mussapi



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16/07/2012 09:01



FERMARSI, CONSISTERE



«Stay, illusion». È una delle invocazioni più importanti della letteratura e del teatro di ogni tempo: sugli spalti del castello di Elsinore Orazio vede lo spettro del re morto, padre di Amleto e sa che, come è apparso, svanirà, essendo un fantasma. Lo implora di fermarsi, di perdurare: «Stay, illusion!, Fermati, illusione!» Non è solo il senso supremo della tragedia più grande e famosa di ogni tempo, ma della nostra stessa esperienza umana. Di fronte a ogni apparizione, a ogni sogno, a ogni barlume di visione, noi preghiamo che quell'immagine si fermi. Che sia dolce, felice, rasserenante. Che sia cupa, inquietante, ma svelatrice, indicativa di qualcosa che ci riguarda e dobbiamo conoscere, come nel caso del castello di Elsinore. Ma il fantasma, sempre, come è apparso dilegua, e l'uomo sempre lo implora inutilmente di fermarsi, di consistere. Poiché ci fa soffrire la cangianza continua del nostro essere, che comprende la fugacità della vita, l'oblio, il trascorrere irrefrenabile del tempo. Eppure questo è il nostro destino, a cui non solo non possiamo, ma non dobbiamo sfuggire: il nostro cuore è stato creato per serrare ogni immagine amata e ogni ricordo. E tramandarla, passarne il testimone ad altri. Vincendo, con la memoria, la finitudine del tutto, anticipando un ulteriore ma prossimo tempo infinito.



Roberto Mussapi

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17/07/2012 06:46



OCCIDENTE E ORIENTE



«Anch'io vorrei lasciare il mondo, andare/ nei monti dell'ovest tra schiere di fenici, di gru». Versi di un poeta dell'antica Cina, Chang Chien. Per un cinese, un orientale in genere, abbandonare il mondo significa muoversi verso Occidente, dove si profila, oltre l'orizzonte, una realtà sconosciuta. Di primo acchito potremmo pensare che analogamente l'uomo occidentale immagina il viaggio a Oriente. Pensiamo al mito dell'Oriente così diffuso in certi particolari momenti della nostra civiltà, esempio vistoso il viaggio in India della beat generation, dei figli dei fiori, e di tanti giovani americani o europei agitati da inquietudine e inappagati del nostro mondo. In realtà non è così: il sogno dell'Oriente non adombra un'avventura verso l'ignoto, ma un ritorno: all'origine, alle fonti delle civiltà, al luogo dove sorge il sole. I beat non cercavano una nuova realtà, ma una più antica, originaria. Anche per noi il viaggio avventuroso, verso l'ignoto, è a occidente, secondo il modello dell'Ulisse dantesco. Nessuno di noi può dimenticare queste due realtà archetipiche e spirituali: l'Occidente che ci chiama a partire, avventurandoci verso lo sconosciuto, e l'Oriente che ci ricorda l'origine, la nascita, la luce elementare e prima. Sono due parti della nostra anima che devono convivere, in conflitto e armonia.



Roberto Mussapi


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18/07/2012 08:58



IL GIARDINO DI DIO



«Nel ricco giardino di Dio, noi fedeli/ curiamo che sbocci ogni gemma, ogni fiore». In questi due versi semplicissimi e incancellabili del grande poeta tedesco Novalis vediamo fusi mirabilmente Oriente e Occidente: l'idea del mondo come giardino richiama la mistica orientale, con la sua dolce e levitante contemplazione, la cura dell'uomo a ogni singola gemma evoca lo spirito occidentale, perennemente attivo. Contemplare il giardino e curarlo significa apprezzare il mondo ma nello stesso tempo contribuire alla sua nascita incessante. Non è in noi umani il segreto che spinge il calamo, l'elisir della linfa che porta lo stelo a sbocciare e fiorire: ma è in noi la sua cura: non solo seguendo il giardino, il suo disegno. Il fiore è il segreto della bellezza che nasce dalla terra, dal buio, rivelando prodigiose quanto invisibili risorse della terra e del buio. Essere fedeli, al giardino, alla bellezza dei fiori, pur sapendo che in questo giardino la legge della morte fisica non è abolita, semmai modificata da un perenne, incessante sbocciare. Fare poesia, arte, edificare templi e palazzi, acquedotti e strade, ordinare leggi, curare la salute, organizzare la convivenza umana secondo un modello di bellezza, questo significa curare ogni gemma e ogni fiore del giardino di Dio.



Roberto Mussapi


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19/07/2012 07:42



VERSO L'IGNOTO



«Ismaele è una mente immaginativa, che tiene a distinguersi dalla comune folla 'inimmaginativa', e oltretutto immerso in un ambiente di pensiero fortemente immaginoso, che i marinai condividono con i selvaggi, con i fanciulli, con i poeti. Ismaele, in altri termini, è nella condizione adatta per essere un lettore ideale». Queste considerazioni di Ettore Canepa, autore di uno dei libri secondo me più intelligenti degli ultimi vent'anni,
Per l'alto mare aperto, uscito per la precisione nel 1991, hanno un valore relativo all'argomento specifico del libro (Ismaele è il marinaio-narratore in Moby Dick, il capolavoro di Herman Melville), ma, come tutto il saggio di Canepa, illuminano sulla dimensione avventurosa dell'uomo. Che per Canepa è sinonimo di metafisica. Avventurarsi significa muoversi verso l'ignoto, agire secondo un
impulso di ricerca metafisica. Possibile all'uomo dotato di immaginazione. Per questo il mondo di Ismaele, (un simbolo, per noi, di azione e sapienza, marinaio e narratore) è simile a quello dei bambini, dei selvaggi, dei poeti. Di chi non ha perso la curiosità e la capacità di stupore. Il lettore ideale non
è il professorone erudito, non è Balanzone. Il lettore ideale è colui che sa auscultare la realtà del mondo. Perché, essendo immaginativo, sente che scoprirà sempre qualcosa.




Roberto Mussapi


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20/07/2012 06:34




TRAVAGLIO D'INFANZIA



«Esistono talune persone che, una volta divenute adulte, dimenticano quanto sia stato terribile il compito di imparare a leggere. Trattasi
forse del più grande sforzo cui un essere umano possa accingersi, e deve essere compiuto da bambini». Con disarmante semplicità uno dei maggiori scrittori del Novecento, John Steinbeck, ci pone di fronte a una realtà evidente quanto spesso dimenticata.
Imparare a leggere,. e quindi a scrivere, significa passare a un mondo di concentrazione simbolica straordinaria, molto più stupefacente di celebrate prove dell'ingegno umano, come le Piramidi, o l'approdo alla luna. Infatti l'uomo vive migliaia di anni prima di inventare la scrittura, e in quel lunghissimo periodo della sua storia elabora comunque una civiltà. I poemi omerici giungono a noi nella forma letteraria sublime plasmata dal loro autore. Il quale però attinse ai fonti orali: per un tempo lunghissimo la poesia fu tale, come le storie dell'origine con cui si mescolava, e le imprese delle tribù e degli uomini rappresentativi. L'apprendimento della lettura è quindi un evento felicemente drammatico per un bambino: significa appropriarsi di un codice che l'uomo ha impiegato migliaia di anni a elaborare
e fissare. Ed è bello ripensare a quel travaglio d'infanzia, leggendo, risillabando in silenzio l'avventura
.


Roberto Mussapi



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