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"AVVENTURE" - Riflessioni quotidiane di Roberto Mussapi

Ultimo Aggiornamento: 01/10/2012 11:06
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21/07/2012 08:12



INTERPRETI NON PADRONI



Tesseva la tela che di notte disfaceva. Canonica l'interpretazione scolastica: Ulisse è astuto, la moglie Penelope non è da meno. Per tenere distanti i Proci che la vogliono possedere, sposare appropriandosi così della corona e del regno, ogni giorno tesse una tela, affermando che accetterà un pretendente quando la stoffa sarà ultimata. E ogni notte disfa ciò che ha tessuto. Scaltrezza, l'interpretazione scolastica canonica. E tutt'altro che sbagliata, ma insufficiente. Omero non è uno spiritoso, è uno dei tre più grandi poeti di ogni tempo. Quelli che rappresentano la realtà a cui i grandi filosofi cercano di approssimarsi. Ulisse vaga per anni sul mare, per tornare a Itaca, subisce sventure e assalti, reagisce, si incuriosisce, si avventura: è attore del proprio destino. In realtà una parte di lui, la moglie Penelope, sta tessendo, sempre a casa, senza compiere alcun gesto vistoso o notevole: ma forse la tela che ogni giorno tesse e ogni notte disfà è il destino di Ulisse. Nell'Odissea è una donna che trama la vita dell'uomo, nell'esperienza generale di tutti i tempi, ogni nostra azione ha rilevanza e valore, a patto che siamo coscienti che qualcuno, diciamo un'entità che non è racchiusa in noi stessi, tesse una vita che non è solo nostra. Ma che dobbiamo interpretare degnamente.



Roberto Mussapi


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22/07/2012 06:46



FRATERNITÀ, IN NATURA



«Guarda \ questa conchiglia: è il lavoro di una fata.» Mi è tornato in mente questo verso semplicissimo e svelante del poeta inglese John Keats, una sera. A cena, in giardino, mi accorsi che mia moglie Teresa fissava qualcosa a mezz'aria, concentrata e un po'incantata, come a volte le accade. Quando accade significa che sta scrutando una forma che in quel momento scopre fonte di meraviglia, pur conoscendola da tempo. Era così, infatti. Disse: «Il mondo di sopra e il mondo di sotto sono uguali. Guarda quella gardenia, bianca, sbocciata stamattina. Poiché è nata proprio vicinissima alla conchiglia bianca da sempre appesa a quel ramo, ora mi accorgo che hanno lo stesso disegno». L'affinità tra le due forme era strabiliante. Raramente sappiamo scorgere l'affinità tra forme diverse del creato. Il disegno della gardenia è lo stesso della conchiglia. C'è fraternità, in natura. Dobbiamo riscoprirne il miracolo. Keats lo vide fulmineamente: una mano non umana ha disegnato la conchiglia. Alcune etnie aborigene del continente australiano credono che il disegno della conchiglia conduca al divino. In questo senso quegli uomini sono più attenti di noi, più capaci di cogliere il mistero e la perfezione
del creato.



Roberto Mussapi


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27/07/2012 07:48



RENDERE MEMORIA



«E vi dico che Marco Polo dimorò in quei paesi ben trentasei anni, e poi, trovandosi in prigione a Genova, dettò tutte le cose viste a messer Rustico da Pisa, suo compagno di prigionia in quel periodo». Siamo all'inizio del libro che svelò all'Occidente le meraviglie del lontano, mitico mondo orientale, Il Milione. Fu una detenzione breve (e di riguardo), quella del famoso mercante e ambasciatore del Gran Khan tornato a Venezia a sistemare i conti in banca, catturato in una battaglia tra veneziani e genovesi. Ma queste righe svelano una necessità del nostro essere: noi possiamo viaggiare e conoscere tutto il mondo, avventurarci seguendo l'istinto ulissico del grande mercante veneziano, uomo pratico ma curioso fino allo spasimo; vedere, stupirci e conoscere paesi, terre fiumi, palazzi, gemme e tessuti mai visti. Ma se poi non sostiamo, tutto quel mondo scomparirebbe con noi. Le meraviglie viste da Polo si sarebbero dissolte con la sua vita. Ma Polo dettò, rese memoria e nuova realtà ciò che era apparso ai suoi occhi. Non auguro a nessuno di noi la prigionia, ma la metafora scorre: se fosse anche un incidente, a costringerci a rendere comuni le meraviglie a cui abbiamo assistito, quella sosta forzata non sarà stata inutile, o casuale. Anche in questi casi Dio non gioca a dadi.



Roberto Mussapi


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28/07/2012 10:31




IL VENTO ORIGINARIO



«Spirito selvaggio che ti muovi ovunque, che distruggi e proteggi, ascolta, ascolta!». Percy Bisshe Shelley, uno dei grandi poeti romantici inglesi, ripete questa invocazione al vento occidentale. Shelley ha una religiosità animistica e materialista, una sorta di vicinanza elementare alla natura divina. Siamo distanti dalla visione cristiana. Ma Shelley di fatto si esprime in modo assai simile a san Francesco, nella lode incessante agli elementi. Francesco ringrazia l'acqua, che sappiamo non essere solo pioggia sui campi, ma anche causa di rovine, come il fuoco suo avversario e fratello. Shelley
ci offre un esempio di lode al creato nel suo elemento più vitale e pericoloso: il vento, come scrive, protegge, ma anche distrugge. Ma è prova di vita. La natura non ha morale, ma i suoi elementi rappresentano la realtà su cui si fonda il mondo: e, come intuiscono Francesco e Shelley, non solo quello fisico. Questo vento che distrugge è anche e prima di tutto quello che anima. Senza vento il cielo è immobile. Così è del vento originario, che Shelley riconosce subito, dandogli del tu: il vento dello Spirito. Anche le sue distruzioni hanno un senso, che a noi sfugge, ma indubitabile. Di fronte agli tsunami, come ad altre catastrofi, questo atteggiamento religioso di abbandono può soccorrere.
.



Roberto Mussapi

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30/07/2012 11:10



LA MUSICA PRIMARIA



«È il cuore a produrre incessantemente ogni conoscenza; quanto alla lingua, è essa a ripetere ciò che il cuore pensa». Da un libro della terza dinastia degli Egizi noi apprendiamo quanto per quella civiltà fosse fondante la centralità del cuore. L'affermazione non riguarda gli appassionati di egittologia, ma gli appassionati dell'uomo. In una delle più antiche e splendide civiltà mai conosciute – così come in altre non meno antiche, o in momenti capitali della nostra storia, come il Romanticismo – il cuore è al centro della vita e dell'universo umano. Il dominio della cultura illuminista ha privilegiato, anche a livello vulgato, il ruolo del cervello. Ruolo fondamentale, centrale, naturalmente. Ma inscindibile da quello del cuore. La scienza da tempo distingue due emisferi cerebrali, uno dei quali regola, o meglio è regolato, dalla realtà emotiva e immaginativa: il ponte tra il cervello e il cuore. In francese «par coeur» significa «a memoria»: ciò che passa nel cuore sarà incancellabile, per sempre. La parola cuore non è soltanto quella che rima con amore nelle brutte canzoni, ma il termine che designa la scoperta della parte pulsante, centrale, dell'uomo. In realtà la pulsazione che registra la nostra vita è quella del cuore. La musica primaria dell'universo umano.



Roberto Mussapi


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31/07/2012 09:01


LA PRESENZA DEL CIELO



«Spezzare il tetto della casa». Il grande storico delle religioni Mircea Eliade assume questa espressione di origine tibetana come esempio di potenzialità e necessità metafisica di ogni essere umano, in qualunque civiltà. Nel Tibet si racconta di yogin molto potenti che, chiusi a meditare in una stanza senza finestre, riescono a emergere spezzando il tetto di carta. Questa apertura si chiama «Porta del cielo».
«Spezzare il tetto della casa» è veramente un'espressione di valore universale: l'uomo sente, da sempre, la presenza del cielo, come ciò che è opposto alla gravità del suo corpo, come la dimensione in cui volano gli uccelli, istintivamente intuiti come messaggeri, o simboli di messaggeri tra i due regni. L'uomo deve risiedere nella terra, coltivare, edificare. Deve anche muoversi, partire, camminare lungo il pianeta e navigare sulle acque. Ma non deve e non può dimenticare la presenza del cielo, leggero, aereo, luogo di una realtà superiore, immateriale, che adombra un'esistenza definitiva, oltre e dopo la morte. «Spezzare il tetto della casa» può essere un motto quotidiano: ogni giorno possono esistere nella vita di chiunque momenti in cui ci si libra in alto, per provare il brivido del cielo che drammatizza la vita terrena, ma la riempie di senso e fondata speranza.




Roberto Mussapi

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01/08/2012 11:16



RAGIONE E PASSIONE



«La voce della passione è migliore di quella della ragione,/ Poiché gli impassibili non sanno cambiare la storia». In questi due versi il grande poeta polacco Czeslaw Milosz fissa una verità evidente, che la poesia ha sostenuto in tre secoli di dominio della cultura razionalista e poi scientista. Dall'illuminismo in poi il culto della ragione si è trasformato, nel mondo occidentale, in una sorta di religione priva di pathos ma rigidamente fondamentalista. Il risultato è noto: i campi di sterminio, la bomba atomica, la manipolazione genetica sono alcuni frutti di questa religione perversa, che nelle sue forme estreme cancella il suo fondamento, la ragione, per natura prudente e umile. Di conseguenza le mozioni della passione, del cuore, sono state relegate nella riserva dei facili sentimenti, delle canzonette sdolcinate, della poesia che arriva a tutti perché non svela niente. Mentre il compito dell'uomo è la conquista della semplicità, impresa non facile ma anzi ardua, possibile solo a patto che il mondo della passione
regoli quello della ragione. Così fu per Goffredo Mameli e gli altri patrioti italiani, così fu per Gobetti e Martin Luther King, per
Gandhi, Karol Wojtyla e Cristoforo Colombo: uomini che
non difettavano di ingegno, raziocinio e cultura: ma sottomessi al cuore e alla passione.




Roberto Mussapi


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02/08/2012 10:25



L'opera e la vita



«Riguardo al "pensiero" le opere sono falsificazioni, poiché eliminano il provvisorio e il non ripetibile, l'istantaneo, e il miscuglio di puro e impuro, disordine e ordine». È sorprendente che a scrivere queste parole sia un importante poeta e saggista, Paul Valéry, un uomo quindi perfettamente immerso nella creazione di opere. È evidente l'intento paradossale: Valéry non sostiene certo che le opere letterarie (solo a queste si riferisce nel contesto) non abbiano senso, e che ci si debba affidare alla spontaneità e al caso. Non afferma che il libro, dove si concentra l'opera, sia inutile o limitato. Ma ci invita a non sopravvalutarne il peso, dimenticando la materia viva, pulsante, effimera, da cui il libro ha preso ispirazione, disegno e forma. Dobbiamo leggere un libro come una cosa vivente, non contemplarlo come una lussuosa reliquia. La filosofia, la grande rivoluzione del pensiero che sorge e si sviluppa in Occidente, nasce da un uomo che non scrive, ma parla e dialoga, Socrate. E i Vangeli, libri sacri per molti e importanti per tutti, sono scritti per fermare le parole e le azioni di Gesù, che non scriveva ma predicava, dialogava e si esprimeva per parabole. L'opera ha senso pieno se preserva ed esalta la vita da cui ha origine.



Roberto Mussapi


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03/08/2012 10:08



CONSAPEVOLEZZE



«Più grande è il creatore e più grandi sono le regioni che il suo potere non riesce a controllare». La scrittrice inglese Virginia Woolf sta parlando del magistrale, irraggiungibile Charles Dickens, ma l'affermazione vale per ogni autore, artista, e per ogni uomo. Esistono i creatori, in ogni manifestazione della vita, e ammiriamo in loro la coscienza del loro compito e ruolo, unita, sempre e immancabilmente, a una forte determinazione. Ma poi ci stupisce quanto questa autoconsapevolezza sia inferiore alle loro opere. Gli uomini creatori compiono grandi azioni e imprese, i cui esiti superano spesso di gran lunga la loro coscienza e le
loro intenzioni. Prendiamo Marco Polo, ad esempio, o san Francesco: il primo è conscio e fiero della sua capacità di viaggiatore, mercante, infine anche ambasciatore del Gran Khan, signore di tutti Tartari del mondo. Ma il Milione, il resoconto del suo viaggio e della sua storia, è infinitamente più ricco, generoso, memorabile, di quanto il mercante veneziano potesse immaginare. Cambia la conoscenza degli europei, non si limita a narrare un lungo viaggio fascinoso. Francesco è consapevole di offrire a Cristo la propria vita, di umiliarsi al livello degli animali e di tutti gli esseri più deboli. Non sospetterà mai che la sua è la vita gloriosa di un gigante
.


Roberto Mussapi


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04/08/2012 08:09


Alla portata



«Il sacro in effetti si lascia descrivere, poiché si manifesta nello spazio e nel tempo».
L'affermazione di Julien Ries, il grande storico delle religioni, è una cartina di tornasole nella nostra vita quotidiana. Mio padre non credo abbia mai usato il termine «sacro» se non per contrapporlo, secondo il luogo comune, al «profano», e per lo più in momenti allegri e conviviali: «Su, non mescolate il sacro col profano!». Ma di fronte alle piante, nel suo giardino, si commuoveva, e curava i fiori accarezzandoli, rapito. Percepiva il senso del sacro nella sua realtà più elementare e potente, gioiosamente, in stato di inconsapevole rapimento estatico. Mia moglie spesso si incanta a osservare la forma di un fiore, di un rapace addormentato di giorno su un ramo: quel breve ìncanto rivela un'uscita dal tempo, l'accesso alla meraviglia del sacro. Che non è solo una gardenia o un gheppio, esseri esteticamente privilegiati. Il sacro si manifesta nelle luci al neon della strada cittadina, riflesse nella pozza d'acqua del temporale appena passato. Sappiamo che esistono veri e propri miracoli, rari, esaminati e vagliati con serietà e rigore. Ma il vero miracolo è saper vedere il miracolo: questo è alla portata di ognuno, in ogni istante della sua vita. È il miracolo più
bello, e più difficile.



Roberto Mussapi



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05/08/2012 11:03


CIO' CHE CI MUOVE


«La maggior parte della gente vive avendo come fine l'amore e l'ammirazione; ma è per mezzo dell'amore e dell'ammirazione che dovremmo vivere!» Oscar Wilde è un grande scrittore, celebre per l'umorismo e gli irresistibili aforismi. Non stupisce quindi che le sue frasi spesso divengano immediatamente massime, di spiazzante profondità. Il vero comico, quello di Molière, per intenderci, è necessariamente tragico. In questo caso addirittura pare generosa la premessa: non so davvero se coloro che vivono avendo come fine amore e ammirazione siano la maggioranza. Ma fa parte del paradosso darlo per scontato: e ammesso che ogni uomo vivesse animato da tale aspirazione, ciò non sarebbe sufficiente. L'amore e l'ammirazione (cioè la lode al mondo e in genere all'altro) non dovrebbero essere i nostri fini, ma il nostro motore.
Dovremmo vivere nutriti da amore e ammirazione: sono insiti nel nostro DNA, ma a livello potenziale, come l'odio e l'invidia. In effetti sentirsi nutriti, animati, mossi dall'amore, anziché limitarsi a perseguirlo, è una conquista, un'iniziazione alla vita che ci consente di affrontarla lietamente e coraggiosamente. Il tanto citato bene al prossimo che si rivela bene a se stessi. Che si svela, in questa massima, non un sacrificio ma un atto salutare
.


Roberto Mussapi





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07/08/2012 16:26


UN FILO DI VENTO



«Una soluzione metafisica che non tenga conto del cuore deve essere fortemente sospettata di essere apocrifa. Io arrivo quasi a credere che le idee non richiamino mai altre idee, finché restano idee, così come le foglie in una foresta non creano una trasmissione di movimento. È la brezza che le sfoglia, è l'anima, lo stato del sentimento». Contro la cultura razionalista, la visione astratta e unicamente logica della realtà, il grande poeta Samuel Taylor Coleridge rivendica le ragioni del cuore. Posizione che condivide con gli altri poeti romantici, i quali con veemenza e a colpi di capolavori si ribellano a un'idea appiattita del mondo, di origine illuminista. Questi uomini, tra la fine del Settecento e l'inizio del secolo successivo, hanno ribadito e sostenuto la realtà dell'anima. E la complessità della nostra vita, dove le foglie non sono percepibili se non mosse da un filo di vento. Le pure idee non possono sollecitare e richiamare altre idee, se isolate, prive di relazione con il cuore, con il centro pulsionale del sangue e dell'amore. Non si tratta di svilire le idee, ma di privarle della loro astrazione, farle vive, irrorarle di sangue sgorgante, come sempre hanno fatto gli uomini grandi e quelli che pur se non grandi o destinati a divenirlo, vivono la vita ad alta temperatura.



Roberto Mussapi


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08/08/2012 08:13


Dovere e stupore


«Tutti i grandi sono stati
bambini una volta. Ma pochi di essi se ne ricordano».
Antoine de Saint-Exupéry scrive queste parole semplici e incisive nella dedica al Piccolo principe, il suo capolavoro. Noi non possiamo cancellare il bambino che siamo stati. La perdita di quella creatura comporta la cessazione dello stupore, l'impossibilità di meraviglia, e, con il trascorrere del tempo, l'insorgere di un'angoscia fredda e inconsapevole, privata persino della disperazione e della rabbia che possono esplodere dall'angoscia, e vincerla. Spento in sé il bambino che fu, l'uomo si muove nel mondo convinto di sapere tutto, per poi rassegnarsi di fatto, passivamente, a non comprendere nulla. La necessità della sopravvivenza del bambino può essere però equivocata: un uomo non può giocare a vita con le figurine Panini (peraltro lodevoli) e piangere ogni volta che scoppia il tuono e il cielo lampeggia. Peter Pan è il modello negativo del bambino che non cresce mai, anche se ha barba, impiego e figli.
Il bambino deve crescere, superare fasi di iniziazione, diventare prima ragazzo e poi, letteralmente, uomo: capace di assumersi le responsabilità della propria vita, cosa che non potremmo mai chiedere a un bambino. Ma nella sua vita responsabile non può cessare di stupirsi, divertirsi, incuriosirsi. Sognare e scoprire avventure
.


Roberto Mussapi


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09/08/2012 07:20



NON SIAMO SOLI



«Si potrebbe dire che la storia delle religioni, dalle più primitive alle più elaborate, è costituita da un cumulo di ierofanie, dalle manifestazioni di realtà sacre».
L'affermazione di Mircea Eliade, il grande storico delle religioni, riassume un concetto fondamentale, per certi versi rivoluzionario: prima di Eliade molti studiosi consideravano le religioni conseguenze di realtà sociali e culturali. Un credo religioso, in sostanza, dipenderebbe
dalla società in cui nasce, è quindi relativo. Non è così: sono storiche, relative, le forme in cui lo spirito religioso si manifesta. Ma l'essenza, lo spirito religioso, sono congeniti, appartengono al nostro Dna. I primi uomini pregavano, nelle caverne. Danzavano davanti a divinità dipinte sulle pareti, cavalli e bisonti, recitavano salmodie: musica, fuoco, riti. L'uomo sente da sempre e da subito la presenza di qualcosa di ineffabile che, in quanto tale gli sfugge, ma esiste, ed è intuito come essenziale. Non c'è alcuna differenza tra l'uomo delle caverne e noi, sotto questo aspetto. Il divino non si manifesta esclusivamente in modo sontuoso e spettacolare: si svela ogni giorno, spesso nascosto o quasi impercettibile, ma appare. Il problema è uno solo: saperlo cogliere. Sapere che non siamo soli e vuoti.



Roberto Mussapi


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10/08/2012 07:17



VERSO L'IGNOTO


«Gli uomini che remano duramente sulle rotte del mare-esterno, e se ne vanno così lontano da cambiar cielo, rappresentano, per chi resta, una specie di geni-erranti». In Le parole perdute Victor Segalen viaggiatore e scrittore di fine Ottocento, racconta e svela i miti degli abitanti della Polinesia. La sua affermazione è riferita a quel mondo, ai giovani che si allontanano dalla loro isola remando su canoe leggere e indifese, per lanciarsi nel mare lontano. Ma ha valore universale: da qui la nostra venerazione per i viaggiatori di mare, l'aura fascinosa (e anche diffidente) che circonda il marinaio, rispetto al contadino o all'impiegato, che scelgono di restare ben ancorati alla terra e al luogo di lavoro. Gli abitanti della Polinesia, che ai tempi di Segalen appartenevano a quel mondo definito dagli etnologi "primitivo", vedono in chi si allontana nel mare esterno, oltre la portata degli occhi, un essere non del tutto umano perché inafferrabile, ubiquo, più coraggioso ma anche più inconoscibile degli abitanti dell'isola. In ognuno di noi c'è un polinesiano che vuole salpare su una canoa, verso l'ignoto del mare esterno, verso la dimensione metafisica, e confligge con un altro polinesiano, che a Vailima, a Roma, Londra o Chicago, ammira e teme l'altra parte di sé. E dal loro accordo dipende la nostra vita.


Roberto Mussapi


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11/08/2012 09:28



Parte d'altri e di te



«I francesi hanno un modo di dire per situazioni del genere. Quei bastardi hanno un modo di dire per tutto, ed è sempre giusto. "Dirsi addio è un po' come morire"» Il detto «partir c'est mourir un peu» è divenuto presto un luogo comune di certo sentimentalismo drammatico che appartiene a un aspetto facile e scontato della cultura francese: certi film dove piove sempre a Parigi, gli amanti si lasciano e Pierrot piange. Un clima sentimentale da chansonier che, abusato, può suscitare ironia: non dimenticherà mai, chi ha più di trent'anni, il «Partir c'est mourir un peau» di Riccardo Pazzaglia nel salotto geniale di Arbore in "Quelli della notte". Ma Raymond Chandler, il supremo autore di gialli, il creatore del detective Philip Marlowe, riscrive il detto rendendolo immediatamente tragico. Non «partire», ma «dirsi addio» è un po' come morire. E infatti dirsi addio significa lasciarsi per sempre, o chiudere per sempre una relazione che non potrà mai più riproporsi nella forma in cui è vissuta. Allora è una parte di noi che se ne va, fisicamente qualcosa di me muore per sempre. Perdere un altro, se conosci amore, significa perdere un pezzo di sé stesso, definitivamente. Perché incontrare un altro significa diventare parte di lui e farlo parte di te. Questo ci insegna il grande, duro e romantico detective Marlowe.



Roberto Mussapi


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13/08/2012 05:53


MATERIA E SPIRITO


«Chiedetemi di essere di più del mondo,/ soffrite che io non sia solo questo corpo inerte,/ e con i vostri voti, e ricordi, medicatemi». È la Bellezza che parla, con la B maiuscola. E' Yves Bonnefoy che conclude così la poesia intitolata "La Bellezza". Bonnefoy, uno dei più grandi poeti del nostro tempo, mette a nudo la tragedia della bellezza. Ridotta a idolo, mercificata, subisce la violenza della dissacrazione: una realtà dell'anima viene degradata e offesa. Esposta in una teca, salvata dal triste divenire grazie a un'imbalsamazione, come accade di un nobile reperto, è umiliata a simulacro di ciò che è stata e continua a essere. La
bellezza non è solo l'oggetto che nel museo, nel tempio, nella chiesa, la rappresenta: è anche quello, ma è, simultaneamente, lo spirito che ha fatto nascere quelle opere. Disperatamente, eroicamente, il poeta Bonnefoy assume la voce, il ruolo, la parte della Bellezza e, immedesimatosi nel suo dolore, grida agli uomini: cercatemi, chiedetemi di essere più partecipe, più parte del mondo, non abbandonatemi come un
corpo inerte, una statua senz'anima. Senza di voi uomini, senza il vostro ricordo, i vostri desideri, i vostri rimpianti, io, la Bellezza, non esisto. La Bellezza chiede a noi di volerla, salvando,
con la nostra, la sua anima
.



Roberto Mussapi

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14/08/2012 15:30



L'OMBRA DEL PADRE


«Non temere le occasioni e cerca le avventure». È una frase con cui il padre di d'Artagnan si congeda dal figlio, mentre lo invia a cercare fortuna a Parigi, la capitale, il luogo favoloso del Re, del Cardinale, dei Moschettieri. È un congedo esemplare: il padre non trattiene il giovane presso di sé nella casa e nel luogo natali, ma lo invita a cercare la propria vita, donandogli il suo vecchio cavallo. Per galoppare nel vento. Sa che in tal modo non perderà mai suo figlio, sarà sempre nella sua memoria e nel suo cuore. Per questo d'Artagnan affronterà con coraggio e spavalderia ogni situazione: l'ombra di suo padre gli è sempre accanto, anzi, è in lui, che il vecchio ha mandato a iniziarsi alla vita, per diventare uomo. Figura esemplare di padre, e più in generale di maestro. Al contrario del genitore di Robinson Crusoe che fa il possibile per impedirgli di partire per mare, generando quindi nel figlio, una volta fuggito, un inestinguibile senso di colpa unito a una inconfessata volontà di espiazione. L'occasione è, etimologicamente ciò che accade, che cela un senso, che non può essere eluso. La frustrazione e la depressione sono l'accumulo di occasioni mancate. Andare incontro alle occasioni significa cercare le avventure: non le evasioni, ma le avventure tramate nell'impresa del vivere.



Roberto Mussapi


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15/08/2012 10:26



IL SINGHIOZZO E IL SEMPRE



«La morte fu il primo mistero. Mise l'uomo sulla via degli altri misteri. Elevò il suo pensiero dal visibile all'invisibile, dal transitorio all'eterno, dall'umano al divino».
Gli uomini che come Fustel
de Coulanges, autore delle parole citate, studiano la nascita dell'uomo, storici delle religioni, paleoantropologi, sono da tempo giunti a una conclusione: l' uomo vero, simile a noi, quello che si stacca dall'ominide, non è solo "sapiens", ma anche "religiosus". I primi uomini controllano il fuoco, e lo usano per illuminare le caverne, dove celebrano riti. L'uomo che si
specchia e riconosce in Amleto, in Dante, nasce quando un dolore straziante lo percuote di fronte alla morte di un simile. In quell'attimo di strazio l'ominide è il passato, un'ombra. Traverso la morte, grazie alla morte, l'uomo sospetta che esista altro, leva lo sguardo verso il cielo, inappagato ormai dell'orizzonte, e interroga, e cerca. La morte dischiude le porte dell'immortalità. Quello che i grandi studiosi oggi affermano fu intuito perfettamente e perfettamente espresso nell'opera di un filosofo, Vico, e di un poeta, Foscolo. L'uomo non può non soffrire tremendamente per la morte. Ma sente che in quel suo incontenibile singhiozzo si apre la porta della trascendenza e di un possibile mondo ulteriore, prima e dopo, per sempre.



Roberto Mussapi

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17/08/2012 10:04


IL MAESTRO INATTESO


«Perché tanta meraviglia se il mio maestro fu un sogno?». La vita è sogno di Calderòn de la Barca è uno dei momenti universali del teatro. Al punto che il titolo può divenire uno slogan, intelligente e ermetico, in un'epoca di slogan fatui e banali. Il giovane che non capisce
perché ci si debba stupire se suo maestro fu un sogno, rappresenta l'uomo che ancora vive nel mistero e già si approssima alla conoscenza. Il sogno è un nostro maestro, indica vie e percorsi che al risveglio non si delineano chiaramente, e quasi sempre svaniscono. Ma hanno avuto realtà e senso, seppure quel senso ci sfugga e quella realtà dilegua o appare solo a frammenti. Il sogno non è, come molti pensano, una fuga dalla realtà. E non è neppure, secondo un
altro e opposto luogo comune, la vera sede della realtà. No, è parte della realtà, esattamente come il mondo della veglia e della ragione, come la luna col suo mistero argenteo
segue e accompagna lo splendore illuminante del sole. «You are innocent when you dream», recita e canta Tom Waits, «Sei innocente, quando sogni». Non puoi quindi cercare di seguire le indicazioni del sogno, quando è svanito, né devi rinnegarne il mutamento che ha operato in te. Noi dobbiamo accettare la luce del giorno e il mondo della veglia, sapendo che però il sogno ha agito, in noi, per vie misteriose il cui senso ci sfugge, ma esiste.




Roberto Mussapi


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