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"AVVENTURE" - Riflessioni quotidiane di Roberto Mussapi

Ultimo Aggiornamento: 01/10/2012 11:06
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11/09/2012 11:01



La nostra vita, qui, ora



«Penso a quella che sarebbe stata la mia vita senza di lui. No, non ci riesco. Possiamo immaginare tante vite, ma non rinunciare alla nostra». Il narratore in prima persona si chiama Giuseppe Pontiggia, Peppo per gli amici, uno dei maggiori scrittori italiani del Novecento, prematuramente scomparso. «Lui», la persona sulla cui presenza il narratore si interroga, è il figlio Andrea, a cui è ispirato il romanzo Nati due volte. Ma, come ho già scritto, ciò che distingue subito il grande scrittore dagli altri è l'universalità delle sue parole. Che valgono subito, e perennemente, anche per chi non ha mai letto e mai leggerà il libro in cui sono contenute. È possibile, spesso accade, chiudere gli occhi, come il protagonista narratore, immaginare una nostra vita senza qualcuno che abbiamo accanto. È possibile nei momenti felici. È altrettanto possibile, più drammaticamente necessitato, forse, chiudere gli occhi e pensare a un'altra nostra vita quando quella che stiamo vivendo è segnata dal dolore. Ma esiste un vincolo alla vita, un legame con tutto ciò e tutti coloro con cui essa è in relazione. No, insegna Pontiggia, noi possiamo immaginare tante vite, ma vogliamo la nostra, anche qui, ora, nella sofferenza. Combattuta, vinta dalla necessità dell'altro e dalla potenza del legame d'amore.


Roberto Mussapi


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12/09/2012 08:20



La scena e il suo rovescio



«È solo l'evento scenico, accattivante per l'occhio, che ci fa afferrare il significato delle tragedie». Semplice e geniale questa osservazione di Robert Louis Stevenson. E, di fatto, una tragedia è colta nella sua vera natura quando l'occhio ne percepisce l'evento scenico. Le immagini televisive di un bombardamento o una strage hanno un'efficacia infinitamente superiore per intensità e rapidità al resoconto di un grande giornalista. Nulla è immediato e potente come la rappresentazione, che giunge alla mente direttamente attraverso il nervo ottico. Questa realtà scenica del mondo non riguarda solo le tragedie, ma tutto la sfera dell' esperibile: da sempre l'uomo, per favorire la preghiera e l'estasi, inscena il rito, che, grazie a un'azione scenica, a costumi, elementi teatrali, colori simbolici, favorisce l'uscita dal tempo, concentrando la nostra attenzione su un'altra realtà, ulteriore, più profonda. La medaglia ha il suo rovescio: drammatizzando, rendendo evento scenico un avvenimento qualsiasi, lo si ingigantisce: da qui i rischi della cosiddetta civiltà dello spettacolo, che può oscurare valori reali e crearne di fasulli, elevandoli a mito. Fittizio, di cartapesta, devastante. Come "Il grande fratello" e fenomeni consimili, che truffano il nervo ottico per ingannare la mente e annichilire l'anima.


Roberto Mussapi


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13/09/2012 08:00



La grandezza è dono



«È il grande albero che decide dove crescere e là lo troviamo, e così è per la grandezza degli uomini». L' affermazione di un personaggio di Ormai a disagio, del grande scrittore nigeriano Chinua Achebe, vale per ognuno di noi: qualcosa è incluso nella nostra anima all'atto in cui veniamo al mondo. Una ghianda che può divenire quercia e foresta. Ma in particolare qui ci si riferisce alla grandezza dell'uomo paragonata a quella della pianta. «Non si può piantare la grandezza come si piantano gli ignami e il mais. Chi ha mai piantato un albero di iroko, il più grosso della foresta?» Noi non siamo padroni in pieno del nostro destino, del nostro futuro. Possiamo, e dobbiamo, scrutarne i segni, ascoltare le voci interiori che lo adombrano, quando ne indivìduiamo una traccia, seguirla. Ma non sappiamo che cosa accadrà. E la grandezza umana, quella che rende alcuni uomini più importanti, utili ed esemplari alla loro tribù e alla nostra, universale, non può essere piantata. Nasce spontaneamente, quando qualcuno - non umano - decide. Possiamo seguire la natura, accompagnarla, frenarne gli aspetti pericolosi o esuberanti, ma non incanalarla. Soprattutto non dobbiamo pensare di piantare la grandezza, che non ci appartiene, giunge agli uomini più dotati da altrove, da una realtà che non è loro se non in quanto dono.


Roberto Mussapi


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14/09/2012 09:46



L'importanza dello stile



«La vita o è stile o è errore». L'incipit di Passo d'addio, il capolavoro con cui Giovanni Arpino, uno dei massimi scrittori del Novecento, si congedò precocemente dal mondo, è esemplare. Sulle prime potrebbe apparire un'espressione elegante, ironica, dandistica. Il che non sarebbe comunque negativo: il dandy, l'uomo sprezzante del denaro e della volgarità, ispirato dall'eleganza, incarnato massimamente da Baudelaire e Oscar Wilde, non è affatto un damerino, ma un uomo etico. Le sue scarpe devono essere sempre lucide, ma sono l'unico paio che possiede, e nessun cameriere lo attende per lustrarle. Semplicemente il dandy cammina giorno e notte nella strada e non si impolvera, non si fa contaminare da una società di cui detesta il materialismo e la volgarità. Il dandy però ha un limite, storico e geografico: ha senso in Occidente e nell'Ottocento del dominio e del conformismo borghese. La frase di Arpino invece è universale: senza stile non vive una comunità africana, boscimana, senza stile, che vuol dire equilibrio, misura, sensibilità, rispetto, non si regola l'esistenza di un monastero tibetano o trappista. Lo stile è adeguamento a una superiore armonia. Ed è nutrito di compassione: Arpino non scrive «o stile o vergogna». No, «errore». Da cui ci si può riprendere, a cui si può rimediare. Lo stile è indissolubile dalla pietà.


Roberto Mussapi


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15/09/2012 11:34



Le due sfere



«Non c'è contrapposizione tra le due sfere del naturale e del sovrannaturale, bensì si passa, con transizioni impercettibili, dall'una all'altra, da Mozart e da Cartesio a santa Teresa e a san Giovanni della Croce». È un'affermazione capitale questa di Roger Bastide, nel suo libro Il sacro selvaggio. L'esperienza dei grandi mistici si manifesta come un'uscita dal tempo quotidiano e storico, che conduce per estasi, senza mediazioni, in una dimensione assoluta. Che non è il buio, o il caos, come molto pensiero scientista pensa dell'ascesi mistica. È una pienezza in cui la bellezza dell'universo è goduta pienamente. Analogamente l'opera dei grandi artisti, Michelangelo, Mozart, Miles Davis, è innanzitutto un'esperienza estatica: non puoi realizzare certe opere restando perennemente nella dimensione quotidiana, che pure fornisce gli strumenti, le mani, la penna, lo scalpello, il pennello, il pianoforte, per rendere presente e memorabile la visione. Lo stesso per il filosofo o il pensatore, Platone, Plotino, Cartesio, che vedono il disegno dell'universo e il suo equilibrio aritmetico. La differenza tra l'esperienza del mistico e quella dell'artista o filosofo è che la visione del primo non torna, qui, sulla terra, mentre quella del secondo sì, in forma durevole. Ma l'essenza, all'origine, è la stessa.


Roberto Mussapi


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16/09/2012 10:58



Il senso dell'andare



«E torneranno indietro senza sapere che dire, o senza ricordare. Perché non è sempre chiaro quale sia lo scopo di un viaggio». Nel suo romanzo Le voci sotto, Giulia Massini, una voce molto forte e originale nella giovane narrativa italiana, sottolinea questo aspetto del viaggio, sconfitta ed errore. Nel contesto si riferisce a una generazione per la quale andarsene può significare droghe pesanti o inutili tentativi di evasione dal quotidiano, in assoluto indica un rischio del viaggio. Viaggio, un tema su cui più volte mi sono soffermato in queste Avventure. Finora ho sottolineato la sua necessità: che significa uscire, cercare oltre l'orizzonte e altrove, andare incontro al mistero, aprirsi all'infinito. Qui Giulia Massini scolpisce una condizione negativa di fallimento, l'esito di troppi viaggi non necessari e non sinceri: andare per andare può essere motivato in un momento di disperazione, ma in assoluto è stupido. Si va per e verso qualcosa, anche se ignoto. L'andare per andare non rivela curiosità ma pura insoddisfazione, inquietudine pigra, rifiuto accidioso. Senza progetto, senza meta, senza un sogno. Perché, come scrive con ben celata sapienza l'autrice, non è sempre chiaro quale sia lo scopo di un viaggio. E senza scopo non ha senso partire, come non ha senso restare. Lo scopo è il senso, il senso è lo scopo.



Roberto Mussapi

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18/09/2012 09:15



La mancanza



«Passione dell'assenza è la nostalgia. (…) Il nulla in fondo è il vero oggetto della nostalgia». Sergio Givone, uno dei grandi filosofi viventi, anche scrittore di razza, ha scritto pagine fondamentali su quella che è forse la realtà più specifica dell'epoca attuale in Occidente: il Nulla. Che registriamo come malattia: un morbo mellifluo e strisciante ha contaminato tante anime e tante menti, manifestandosi in forme di accidia, apatia, indifferenza, come molti scrittori avevano già rilevato nel secolo scorso. Passione dell'assenza, nostalgia: le frasi dei filosofi, come i versi dei poeti, possono essere diagnosi fulminee e farmaci potenti: se io non mi accorgo di non credere in nulla, e vivo ciecamente questa condizione, questo è il Limbo. Se io sento un'assenza, sento drammaticamente, con "passione", che qualcosa mi manca, se avverto che non ho forza né motivazioni per credere e sperare qualcosa che non sia tirare fino a sera, allora il Nulla ha una funzione benefica. Mi fa soffrire la mia condizione, generando in me nostalgia di qualcosa che non conosco, ma che forse ho provato e che sicuramente esiste. Soffrire un'assenza, accettare la nostalgia, può condurci a comprendere che quella che sentiamo non è un'assenza, ma una mancanza. Quando io sento che qualcosa mi manca, io lo sto già invocando.


Roberto Mussapi


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19/09/2012 09:31



La zona mistica



«Il misticismo è una delle reazioni dello spirito umano». Come scrive Henri Delacroix, non è un'anomalia, una rarità, un impoverimento della coscienza, al contrario di quanto predica la lettura illuministica di questo fenomeno, relegato a una sorta di regressione verso una confusa e primitiva realtà originaria. Il misticismo è la reazione di santi, poeti, artisti, «che un giorno hanno sentito scorrere in sé la vita universale».
Procediamo: nessuno si commuoverebbe ai versi di Leopardi o Baudelaire se la poesia non fosse, tacita e inconosciuta, in ognuno di noi. Come necessità, desiderio. Anche l'esperienza del mistico, analogamente, non riguarda una sfera esclusiva da cui l'uomo normale è escluso. Solo i poeti sanno scrivere versi folgoranti ma tutti gli uomini in teoria li possono capire e far propri, così l'estasi e il volo del mistico, preclusi al resto degli uomini, non sono per questi realtà incomprensibili. L'uomo si meraviglia di fronte a tali esperienze, le ricorda, le racconta, dagli albori dell'umanità, narra leggende. C'è una zona mistica in ognuno di noi, tacita, latente. Diversamente non si spiegherebbe la commozione improvvisa, il senso di pienezza o al contrario di infinita nostalgia, all'improvviso, in certi momenti emozionanti della nostra vita. Non in volo, con le rondini. Al mare, al mercato, in metropolitana
.


Roberto Mussapi



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20/09/2012 10:25



Istanti di pienezza



«Trovavo in me un vuoto inspiegabile che nulla avrebbe potuto colmare, un certo slancio del cuore verso un'altra sorta di godimento di cui non avevo idea e di cui, nello stesso tempo, sentivo il bisogno (…) Ero penetrato da un sentimento vivissimo e da una tristezza attraente che non avrei voluto non provare». Jean-Jacques Rousseau descrive un suo sogno, che si presenta simile a uno stato di estasi. Racconta di una pienezza conseguita, un'armonia con tutto l'universo, e nello stesso tempo di un senso di mancanza di tutto ciò, una onirica consapevolezza che il sogno era effimero, pur se veritiero, e stava per svanire. Percezione e desiderio d'infinito. Filosofo e scrittore, sa rappresentare questa esperienza estatica. Che è però non infrequente, quasi sempre non riconosciuta, in ogni uomo. L'amore, una forte emozione positiva, la vista di un paesaggio o un luogo che ci smuove inaspettatamente, fanno nascere in noi istanti di pienezza assoluta, a cui spesso non si sa dare nome né collocazione. Ormai inesperto dell'anima, disabituato ad ascoltarla e accettarla nella sua scandalosa, miracolante libertà, l'uomo lascia che quel fuoco baluginante si estingua dileguando nell'oblio quotidiano. È necessario recuperare questa capacità di percezione dell'anima, non fanciullesca. Primigenia.



Roberto Mussapi

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22/09/2012 11:19



La visione del poeta



«E la morte non avrà dominio». È il verso finale di una poesia memorabile del grande Dylan Thomas. Un verso che risponde alla domanda fondamentale dell'uomo, se tutto cessa con la morte, o se esiste una vita ulteriore. La domanda primigenia, a cui cercano risposte le religioni, i filosofi, i poeti. La risposta di questi ultimi è piuttosto una scoperta: a differenza del filosofo, che ricerca attraverso la ragione, il poeta, più similmente al mistico, viaggia spiritualmente e incontra delle visioni. Come risponde Dylan Thomas? Nel modo drammatico e complesso, che la poesia esige. Affermare che la morte non esiste, a chi sta perdendo una persona amata, o sta sentendo spegnersi la propria vita, è inefficace. E sarebbe anche una scappatoia, per un poeta, che deve guardare il mondo con gli occhi degli uomini, non dei profeti, e parlare con la lingua dei profeti, umanata. La risposta, il verso finale, ha qualcosa dell'esperienza del mistico ma una tremenda forza di fango umano.
Un poeta non sopporta la sofferenza dei suoi simili, spesso sta male anche per quella di un uccellino o di una pianta. Non può rivolgersi a un malato terminale tranquillizzandolo con l'affermazione che la morte non esiste. Non è nella sua natura e nel suo compito. No, ma può cantargli a piena voce che la morte esiste, e non avrà, non avrà dominio.



Roberto Mussapi


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24/09/2012 11:44



La scrittura svela



«Colui che legge bene è colui che, per così dire, non legge più, o che non si accorge di leggere». I filosofi, soprattutto i grandi filosofi, come Carlo Sini, di cui cito queste parole, non sono qui per caso. Da tempo ci si interroga, giustamente, sul futuro del libro: con la diffusione dell' e-book scomparirà il volume cartaceo? Sono coinvolto in prima persona, come autore, e penso che se questo è il futuro del libro, va bene, ciò che conta è quanto vi è scritto. Non si combatte la realtà quando non è malefica, e questa non lo è affatto. D'altro canto sto inviando questa breve «avventura» via e-mail, non con un piccione viaggiatore. Ma certo avrò nostalgia del libro cartaceo e rilegato, mio, e dei maestri, e compagni di strada, se scomparirà. Anche se so che non scomparirà per sempre, ritornerà, magari dopo vent'anni, come il vinile. Ma il problema è un altro: Sini, nel suo libro Etica e scrittura, affronta verità fondamentali sull'invenzione greca che ha cambiato l'umanità, trasformando l'uomo nella nuova condizione di lettore. Questo conta, e il filosofo, il saggio, rivela con chiarezza: ovunque tu legga, su una pergamena, una pagina stampata, uno schermo, tu stai leggendo. Sei uno che non vede le lettere, non percepisce la scrittura, ma la sua anima invisibile, che la scrittura non rappresenta ma svela. Questo conta, è accaduto e non muterà più.



Roberto Mussapi

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25/09/2012 09:29



Ciò che avvelena



«Oh rosa, sei malata,/ Il verme invisibile / Che vola la notte / Negli urli delle tempeste / Scoprì il tuo giaciglio / Di gioia scarlatta / E il suo amore segreto, buio / Distrugge la tua vita». In questa breve lirica del poeta inglese William Blake incontriamo una realtà doppiamente terribile perché quotidiana e pure quasi sempre, da ognuno di noi, inavvertita. Ogni rosa, nella sua gioia scarlatta, nella felicità piena e semplice del suo essere sbocciata e fiorita, può essere corrosa, segretamente, nel buio, da un verme invisibile. Noi riconosciamo subito il male in azione manifesta: un uomo che uccide, picchia, aggredisce. Ma nella vita esistono vermi che nel buio rodono segretamente la bellezza della rosa, fino a farne ammalare, avvelenandoli, i petali: il falso amore, volontà di possesso, il rancore, l'invidia, il disamore e l'astio che tra le mura domestiche o nel luogo di lavoro smangiano a poco a poco, sfibrandola, una vita nata semplice, innocente e bella come una rosa. Facile restare sgomenti di fronte al folle che entra in una chiesa o una scuola e compie una strage con un'arma da fuoco. Molto più difficile individuare il verme che muove molte persone, inducendole segretamente, nell'oscurità, a fare del male, a ferire e corrompere la rosa, a fare sfiorire la vita nata per fiorire a vita.


Roberto Mussapi

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26/09/2012 07:06



Al centro è l'amore



«Partire è salpare in un mare mai traversato, / l'inquieto mare del mutamento (…) / Al centro di questo mare travolgente, / tra l'alba e la notte, Amore». Il tema del viaggio è centrale in queste Avventure. D'altro canto che avventure sarebbero, diversamente? Viaggio naturalmente non solo fisico, ma anche, spesso contemporaneamente, spirituale. Il viaggio per mare è la metafora più immediata e diffusa dell'avventura, dell'apertura all'ignoto e all'incontro con altri. In questi versi del grande poeta indiano Rabindranath Tagore abbiamo una rivelazione ulteriore del senso profondo del viaggio: partire, lasciare la propria sede, è come avventurarsi in un mare sconosciuto, che nessuno ha mai attraversato. Il mare inquieto del mutamento è quello che noi affrontiamo ogni volta che accettiamo una nuova occasione, ci apriamo a un'esperienza inconsueta. L'accettazione dell'inquietudine, del mutamento, è prova di forza, conoscenza di sé. Ma, ecco la rivelazione del poeta: la meta, il senso profondo del viaggio non è, o non è solo, l'altra riva, la terra sconosciuta e lontana, no, è il cuore del mare stesso. Andare verso qualcuno, aprirsi, accogliere, conoscere, non ha il suo compimento solo nell'altro, ma nel fatto stesso di compiere questa azione, di muoversi, accettando di entrare in una dimensione al cui centro è l'amore.


Roberto Mussapi


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27/09/2012 11:15



Uscire dal tempo



«La gioia di meditare, perché si arrivi alla piena coscienza che la meditazione è un atto, l'atto filosofico». Introducendo un suo libro geniale, Psicanalisi dell'acqua, Gaston Bachelard sancisce l'importanza della meditazione, un "atto filosofico". Che dovrebbe essere proprio del filosofo, ma non esclusivo. Meditare è necessario a ogni uomo, e non gli è precluso. Meditare significa uscire dal tempo quotidiano, dai suoi affanni, svuotando la propria mente. Prendere le distanze, anche per poco, da se stessi, immergersi in un pensiero che non sia l'affanno immediato, abitua a distaccarci, non per allontanarci, ma per essere meglio presenti. Ognuno di noi è un mondo: io medito felicemente quando nuoto, pratico sci di fondo, o cammino (anche a Milano, tanto per intenderci), altri hanno bisogno di fermarsi, interrompere anche fisicamente il tempo, non rallentarlo e metterlo "fuori tempo" come faccio io. Alcuni devono uscire dal luogo di lavoro, altri possono fissare, apaticamente, lo schermo del computer, senza percepirne le immagini. La meditazione quotidiana non è vuota: implica la convinzione, o almeno la speranza, che ci sia qualcosa a noi superiore. E che possa interagire, farsi anche riconoscere, per venirci incontro. In questi casi, svuotarsi per un quarto d'ora, è preliminare a un futuro, inimmaginato, riempimento.


Roberto Mussapi


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28/09/2012 11:18


La distinzione



«Credete alle apparizioni?», chiese Athos a Portos. «Io? Io non credo che in quello che vedo, e siccome non ho mai avuto apparizioni, non ci credo». Esistono fondamentalmente due tipi d'uomo, rispetto al metafisico: uno naturalmente versato, l'altro no. Il primo è immaginoso, sensibile ai sogni e alle intuizioni, predisposto ad accogliere un evento apparentemente fuori dell'ordinario. Il secondo è concreto, pratico, non immagina e non ama immaginare. È evidente che il primo, a differenza dell'altro, è predisposto a una visione della realtà più ampia, che non si esaurisce nell'hic et nunc. Ma corre anche un rischio: di cedere facilmente all'illusione, di affrontare con un senso di sufficienza (che è in realtà insufficienza) la realtà concreta e quotidiana. Così come il secondo tipo, accanto al suo limite (non sa quanto può perdere della vita), ha un vantaggio: ama il concreto, e la vita è anche questo. Purché quest'uomo non propenso alle apparizioni e al metafisico, sia come il simpaticissimo, elegante, vanitoso, smargiasso moschettiere Portos, immortale personaggio creato da Alexandre Dumas. Credo solo in ciò che vedo. E non avendo mai visto un'apparizione non ci credo. Sotteso ed evidente: se la vedessi, ovviamente, ci crederei. Questa è la distinzione tra l'uomo concreto e quello terrorizzato dal mistero, tra il laico e il laicista


Roberto Mussapi


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01/10/2012 11:06



In noi, in cerca


«E,dal nulla, un respiro». Un verso di Ezra Pound, uno di quei versi con cui la poesia in forme concentratissime e assolute svela e rivela una conoscenza cosmologica, una sapienza attinta magicamente alle radici dell'essere. La nascita del sole, dei pianeti, della terra, e poi la vita, l'ameba, il primo mammifero, il minuscolo, timido, impaurito Purgatorius, e poi gli ominidi, che alzano lo sguardo oltre la vegetazione e diventano bipedi, e poi il controllo del fuoco, la preghiera, l'arte… In un verso l'essenza della storia del cosmo, della vita e dell'uomo: dal nulla, un respiro. Che, nella lingua originale suonano allo stesso modo: nulla, nothing, assuona con respiro, breathing. Il poeta intuisce ed esprime anche che il nulla e il respiro hanno un suono concorde. La nostra vita conosce il nulla, gli attimi di vuoto e sgomento, disillusione. Che spesso la cultura del nostro tempo assolutizza: non hai un cedimento nervoso, un momento di paura, ma una crisi di panico. Sancita come male diagnosticato. Al minimo abbattimento, alla prima crisi di insonnia sei irrevocabilmente depresso (quando la depressione è una patologia seria e grave): non giova solo alle industrie farmaceutiche, ma agli spacciatori del nichilismo, che non sanno che nulla fa rima con respiro, che il vuoto e il soffio animante la vita hanno bisogno l'uno dell'altro, si cercano.


Roberto Mussapi

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