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I RACCONTI DI VAGABONDO

Ultimo Aggiornamento: 06/01/2009 02:12
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06/01/2009 01:48

Il Misantropo (Storia Vera)

Da: Soprannome MSN°_Vagabondo_°  (Messaggio originale)Inviato: 11/05/2005 18.22

Il Misantropo


(Storia Vera)




Ormai mancava solo una settimana a  Natale.
Le luci gioiose e multicolori già trapuntavano le case e le strade.


 



Il clima invernale tutto attorno era come un enorme panettone guarnito di rosso. Al posto dell’uvetta e dei canditi propositi e desideri d’amore destinati ad essere regolarmente fagocitati e dimenticati il giorno di Santo Stefano. Peccato pensai, a Roma non nevica mai altrimenti avremmo avuto anche lo zucchero a velo.

 





Mi infilai nel tepore scacciafreddo del bar che ti accoglieva e coccolava fra i profumi di cornetti caldi e cappuccini. E fu li, in quel rifugio accogliente che accadde qualcosa che si sarebbe impressa indelebilmente nella mia mente.






“Che te posso offrì?” Quelle parole mi sorpresero non poco risuonando dietro di me all’improvviso. Giulio “er fantasma” come lo chiamavano tutti per via che non rivolgeva una parola a nessuno se non costretto, ora mi parlava.






A dire il vero era una vita cercavo di penetrare quel suo solito silenzio con cenni di saluto a cui regolarmente non rispondeva. Ma io non mollavo, sentivo una voce che mi diceva che quell’uomo che camminava come se attorno a lui non esistesse nessuno con l’incedere leggermente incerto del tipo che di prima mattina preferiva un cognac al cappuccino, celava molto di positivo dentro se.






Sulla quarantina Giulio, fisico asciutto, naso aquilino, viso torvo ed assoluta mancanza di espressione ed interesse per qualsiasi cosa, facevano di lui il classico misantropo, chiuso nel suo egoismo e silenzio.






Era indubbiamente malvisto nel nostro ambiente di lavoro, dove è d’obbligo l’adulazione e parlare degli affari tuoi; pena illazioni e maldicenze, arricchite dalla fantasia di chi le ripete ad un altro fino a farti diventare un mister Hyde che sotto le mentite spoglie di collega taciturno cèla chissà quali biechi segreti, occultati negli orrendi meandri, dell’immaginario di chi vuole vivere a tutti i costi la tua vita non avendone una propria da vivere. Fosse comuni dove hai sepolto la loro semplicità persa da fin troppo tempo.






Io presi un cappuccino e lui un cognac, proprio come immaginavo e questo cominciò a ripetersi ogni mattina per quasi un mese. Io non gli chiedevo niente, così come lui a me, rispettava completamente la mia privacy. Poi una mattina, dopo la colazione mi disse “- viè che te faccio vedé na cosa” Mi condusse al baule della sua auto sgangherata che aveva di certo vissuto fasti ora scomparsi tra la ruggine, lo aprì e quello che vidi mi lasciò non poco sorpreso.






Dentro c’erano grandi sacchi neri dell’immondizia stracolmi di giocattoli e una serie di quadri, tutti raffiguranti bambini, con i colori della poesia e con dei visi dolcissimi da lasciarti incantato. Un quadro in particolare mi colpì e mi smosse l’anima: una donna con una bambina in braccio accompagnato dalle sue parole che come un treno partirono lentamente per diventare fiume in piena.
 





Con lo sguardo lontano e come se stesse parlando più a se stesso che a me cominciò: “- La cosa che nun sopporto è er pietismo de la gente, a te pé primo ricconto tutto questo, perché dentro te ce trovo na speranza, na luce che sa quello che io so, che loro ce stanno ancora e cammineno cò me, me porteno do stanno loro.”






Dodici anni prima, Alessandra, la bambina era volata via all’età di 5 anni per una leucemia fulminante e Dora, sua moglie due anni dopo era andata ad occuparsi di lei ed aveva, (come diceva lui) preso il treno del cancro per raggiungerla. Ma non si erano mai allontanate, gli parlavano, lo confortavano e lo portavano ogni volta con loro.
 





“-Ce vieni domani pomeriggio cò noi? portamo li regali de Natale a certi amichetti de Alessandra”. Gli dissi che andava bene, che sarei andato: mi incuriosiva troppo la dolcezza e la poesia dietro l’apparenza di un uomo che semplicemente nascondeva al mondo i suoi tesori che custodiva gelosamente nel suo cuore al di la dello spazio e del tempo.






L’indomani eravamo dentro un orfanotrofio a distribuire giocattoli a dei bambini che al suo arrivo e per tutta la durata della permanenza li, lo abbracciavano e lo baciavano. “-Ecco”, disse, “Alessandra m’ha portato qua un giorno, mentre guidavo senza meta, così ho capito che la morte nun esiste, che è solo na barriera immaginaria che la gente costruisce cò l’egoismo”.






Dopo qualche mese Giulio per motivi di salute, si trasferì in un’altra sede vicina alla sua abitazione. Lentamente ci perdemmo di vista ma non potevo fare a meno di pensare continuamente lui. Poi una mattina, andando al lavoro lo sentii nominare all’ingresso. Mi fermai fingendo di leggere dei manifesti e seppi così da alcuni colleghi che "- il fantasma si era finalmente “levato dalle p..le” Cirrosi epatica… lo avevano sempre detto loro; che se non la smetteva di bere non l’avrebbe scampata.






 Pur avendo avuto voglia di replicare non lo feci e tirai via parlando silenziosamente con lui…. “- tante belle cose Giù e goditi la tua famiglia, questi non hanno capito niente…" Era già la metà di Dicembre; nella mia macchina giocattoli e un costume da Babbo Natale…..






"… Ma quale cirrosi! … che ne sanno questi Giù, era solo un treno”.
 


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06/01/2009 01:54

L'Incidente (Racconti Romani)
Da: Soprannome MSN°_Vagabondo_°  (Messaggio originale)Inviato: 20/07/2005 0.17
L'incidente

 
Riccardo Santini, settant'anni suonati,  era seduto davanti al vetro della finestra,
su cui la pioggia creava e disfaceva continuamente bizzarri ricami.
 
Fissava gli alberi antistanti piegati dal vento, assorto nei ricordi del  passato che in una persona anziana,
essendo il presente molto aleatorio ed il futuro sempre più breve ed incerto, sono la fetta maggiore di una torta,
spesso troppo amara.

 *****

Il suo pensiero corse alla notte dell'incidente, diversi anni prima, quando si trovò al classico bivio,
dove una scelta può condizionare il nostro e l'altrui destino, spesso senza  appello.
 
E lui, quella volta, al bivio, ci era arrivato nel  senso  letterale della parola.
 
Alla guida del Tir dell'azienda di trasporti dove lavorava,
stava tornando da uno dei  massacranti viaggi a cui si sottoponeva per cercare di dimenticare
una piaga familiare che già da un paio d'anni, come un fiume in piena  lo aveva travolto
e sballottato tra i flutti  dei suoi fallimenti di padre e  di uomo.

Eppure, sino a  due anni prima, Riccardo aveva una moglie e due figli stupendi.
 
Laura, 24 anni, bella ed intelligente, aveva dato quasi tutti gli esami Universitari
e già assaporava un grande futuro, Giorgio, 19 anni, invece, diplomato al Liceo Classico,
si era già iscritto all'Università, quando comparve il solito alieno della droga
che avanzando impietoso, mangiò Giorgio ed avvelenò tutta la famiglia
senza speranza di salvezza.

Una storia come tante, che non fa più notizia e nemmeno coinvolge più emotivamente,
ma  che devasta le persone che la vivono fino a farle diventare tanti zombie dal passo incerto
e senza più un grammo di vita nell'anima.

Ed oltre ad essere cambiato suo figlio Giorgio, era cambiata Silvia, sua moglie,
che da allegra e dinamica era diventata una larva in preda alla depressione,
era cambiata Laura, che legata da un amore sviscerato per suo fratello,
aveva lasciato Università,  ragazzo e amici, dannandosi dietro a lui, per guarirlo.

E soprattutto era cambiato Riccardo stesso, che per lenire la piaga  della sua impotenza,
si era celato meschinamente dietro ad una maschera di intransigenza verso Giorgio
che una sera, dopo un litigio era scappato di casa, seguito qualche giorno dopo da sua sorella Laura
che si sbatté porta alle spalle, disgustata da quel padre che invece li amava più della propria vita,
ma che non sapeva affrontare quella cosa, troppo grande per chiunque.

A quel pensiero, le lacrime presero ancora una volta a sgorgare, copiose e cocenti,
fino ad appannargli completamente la vista, non facendogli scorgere l'utilitaria
spuntata alla sua destra, che investita in pieno dal Tir,  dopo un paio di testa coda
si adagiò in un fosso dall'altra parte della strada.

Frenò e disperato scese di corsa; dall'auto non proveniva alcun segno di vita,
mentre Riccardo non aveva il coraggio di avvicinarsi,
conscio di  essere colpevole di quell'incidente orrendo.

Un pensiero vile si fece largo nella sua mente: era l'una di notte
e la strada provinciale che stava percorrendo era deserta.
 
Nessuno aveva visto nulla ed il Tir non aveva riportato grandi danni.
Gli sarebbe bastato rimettere in moto e lasciarsi alle spalle quell'istante di follia.
Nessuno mai sarebbe risalito a lui….ma che stava facendo?

No, basta essere vigliacchi, ora era tempo di prendersi le proprie responsabilità.
Lo doveva agli occupanti di quella macchina, lo doveva a Silvia sua moglie, 
e soprattutto lo doveva ai suoi figli Laura e Giorgio,
di cui non sapeva più nulla, ormai da troppo tempo.

Chiamò il 113 e si precipitò verso l'auto distrutta
certo di dover assistere ad una scena raccapricciante,
quando vide venire verso di se, nell'oscurità
le sagome delle due vittime dell'incidente, miracolosamente illese.

*****

Aveva smesso di piovere.
 
Accarezzò i suoi due nipotini che paghi delle coccole, tornarono a giocare,
saltellando con la  gioia di passeri felici.

Che strano il destino, se avesse ceduto alla vigliaccheria, ora forse, tutto sarebbe stato diverso
e due persone, reduci da una terribile guerra del nostro tempo, non avrebbero mai trovato,
per timore e per orgoglio, il coraggio di tornare: in quell'auto incidentata,
c'erano infatti Giorgio e Laura, oggi sposati, un figlio a testa e rispettivamente,
un professore di lettere ed un ottimo avvocato,
ma che senza l'incidente, forse non avrebbe mai più visto.

Sua moglie Silvia, portò la pipa a Riccardo che l'accese,
fumando finalmente insieme alla sua anima il calumet della pace.

Vagabondo 
[Modificato da Anam_cara 06/01/2009 02:00]
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06/01/2009 02:04

Da: Soprannome MSN°_Vagabondo_°  (Messaggio originale)Inviato: 23/02/2006 18.45

UNA SCENA RACCAPRICCIANTE

Così come gli fu chiesto, Corradi accese delle fiaccole per delimitare la scena del crimine.
 
L’ispettore Arvali era sul posto e la scientifica era al lavoro già da un pezzo.

Malgrado fossero ormai tanti anni che faceva quel mestiere, quella sera sentiva dentro una strana inquietudine; una catena che dallo stomaco gli veniva attorcigliata sino alla gola.

L’orologio del campanile della chiesa, diede tre rintocchi che a quell’ora della notte e con quello scenario apocalittico risuonarono sinistri come una premonizione malaugurante.

Nella strada completamente deserta, un  vento tormentoso urlava quasi come il lamentarsi di un’anima dannata e formava mulinelli di foglie e cartacce dentro cui da un momento all’altro sembrava dovesse materializzarsi chissà quale orrenda creatura dell’oltretomba.

Gli alberi spogli, agitandosi a quel soffio infernale formavano spettrali ombre cinesi che si agitavano paurosamente sul muro, mentre con la loro luce inquietante i lampioni, ondeggiavano  sventagliando paurosamente qua e la quella poca luce tetra.

La pioggia, accompagnata da lampi che accendevano per qualche istante una paurosa luce psichedelica e da tuoni che facevano tremare lo stomaco e il cuore, fittissima e battente come sventagliate di mitraglia sul selciato, si insinuava in ogni più piccolo pertugio dei vestiti scuotendo fin dentro l’anima che gelava insieme al corpo già semiparalizzato da quell’atmosfera surreale che ricordava molto da vicino alcune descrizioni del Giorno del Giudizio in certi classici dell’orrore.

“- Ecco”, pensò l’ispettore Arvali, “adesso ci mancherebbe solamente di veder spuntare una carrozza alla cui guida, sghignazzante, c’è la sinistra figura della morte, incappucciata, senza volto e con la falce in mano. E in un certo senso quella evocazione ebbe subito effetto, perché dal fondo della strada il furgone della polizia mortuaria avanzava mestamente.

Da li a poco due “Caronte” avrebbero avvolto in un sacco di plastica e traghettato fino all’obitorio quella prostituta bambina che fino a poco prima era un sublime contenitore di vitali sentimenti e che ora era solamente un pallido ammasso di materia inerte che supina sull’asfalto sgranava gli occhi al cielo,  fissando qualcosa che non poteva vedere e non avrebbe mai più visto.

Quel maledetto serial killer aveva colpito ancora e con ferocia: il medico legale aveva contato almeno 11 coltellate che lasciavano sgorgare il sangue che in strada, in mille rivoli si diluiva con la pioggia battente e inseguiva una vita già fuggita via, quasi a cercarla invano per tentare di ricongiungersi ad essa.
Il medico legale si avvicinò al commissario per dirgli che il suo lavoro era finito e che i rilievi erano stati tutti effettuati. A quel punto, quasi sollevato, Arvali si rivolse agli addetti in tuta bianca della Morgue con un laconico “- Potete rimuovere il corpo…………..
- Stooooop, buona l’ultima! Ce ne andiamo a dormire! Urlò il regista,  mentre i tecnici cominciarono a smontare la scena tra il vociare generale e il lamentarsi della “morta” che ora si era rialzata e tutta fradicia e infreddolita veniva fornita di accappatoio e asciugata dall’acqua che le avevano gettato addosso per simulare la pioggia sul cadavere.

Il regista si avvicinò a Corradi mentre smontava e riponeva i suoi prestigiosi effetti speciali con cui aveva creato quella scena da incubo per complimentarsi con lui:
“-Bravo Corradi lei è sempre il migliore nel suo campo, i suoi effetti speciali ormai sono leggendari! Degni di Hollywood!

Corradi ringraziò e si affrettò a caricare i macchinari sul camioncino pensando che l’indomani, non avrebbe aperto nessun quotidiano ne visto nessun TG in televisione. Del resto erano anni ormai, da quando si era specializzato in effetti horror che non aveva più il coraggio di farlo….

Lui sapeva che da qualche parte, quasi ogni giorno, senza effetti speciali, qualcuno realmente moriva alla stessa maniera in cui egli preparava con così tanta cura quella finzione capace di scuotere spettatori annoiati.

Vagabondo
[Modificato da Anam_cara 06/01/2009 02:12]
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