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Galileo Galilei. La leggenda del «martire» della scienza moderna

Ultimo Aggiornamento: 15/09/2010 09:17
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15/09/2010 07:57

Galileo Galilei. La leggenda del «martire» della scienza moderna

di Luciano Benassi

[Da Franco Cardini (a cura di), Processi alla Chiesa. Mistificazione e apologia, Piemme, Casale Monferrato 1994]

Introduzione

Fra le «leggende nere» che la cultura laicista sovrappone alla realtà della storia, una in particolare ha dimostrato caratteri di straordinaria resistenza alla prova dei secoli e della verità: è la leggenda o mitologia sorta intorno a Galileo Galilei, pisano, Padre della Scienza e Vittima della Inquisizione.

Quali le cause di tanta tenacia? La risposta può essere trovata scorrendo, ad esempio, qualcuna delle opere più diffuse dedicate allo scienziato pisano e cercarvi il senso con cui viene presentata la vicenda che lo vide protagonista, nonché il messaggio che, attraverso essa, viene veicolato: Galileo fu colui che, volendo innovare il metodo di indagine nel regno della natura, trovò sulla sua strada la Chiesa cattolica e il suo apparato repressivo e oscurantista, l’Inquisizione; da questa fu obbligato ad una umiliante autoaccusa e sottoposto ad una lunga e dura carcerazione.

Ma il suo esempio, continua il messaggio,
fu raccolto dagli spiriti più liberi d’Europa e consentì di aprire la strada a quel sapere scientifico che ha rimosso la superstizione e ha beneficato l’umanità con i risultati delle sue scoperte.

Questo racconto, che non è la storia di Galileo, è nato oltre due secoli fa, nello stesso ambiente culturale che operava, in nome della «ragione», alla demolizione sistematica della memoria storica dell’Europa cristiana.

Gli intellettuali dell’Enciclopedia, che già avevano avviato la demonizzazione delle Crociate, della civiltà medievale e che stavano gettando uli di calunnie sulla conquista delle Americhe da parte delle potenze cattoliche di Spagna e Portogallo, non si lasciarono sfuggire le opportunità che la vicenda legata a Galileo Galilei offriva in termini di polemica anticattolica: e quello che era, e poteva restare, un caso umano, ancorché doloroso e drammatico, fu trasformato in un caso - il caso Galileo appunto -, esemplare, nell’intenzione dei suoi formulatori,
di una costitutiva inconciliabilità tra fede e ragione, tra religione e scienza, tra dogma e libertà di ricerca.

Dal secolo dei Lumi la mitologia galileiana si è radicata nella cultura europea, e non solo scientifica; si è arricchita, nei decenni, di una aneddotica divenuta ormai patrimonio scolastico comune; è entrata nell’immaginario collettivo attraverso la letteratura, il teatro, il cinema; è venuta a costituire, con tutto ciò, l’elemento separatore fra due mondi, fra due culture, la prova di una pretesa irriducibilità fra l’attitudine religiosa, - con il suo inevitabile corollario costituito dalla adesione ad una «chiesa» -
e il bisogno dell’uomo di battere liberamente le vie della conoscenza, senza «costrizioni» o «condizionamenti».

Nella crisi grandiosa che ha colpito la Cristianità a partire dalla fine del Medioevo, crisi che si presenta in una veste passiva - come diminuzione del senso religioso - e in una attiva - come attacco polemico alla religione e alle sue incarnazioni storiche -,
il caso Galileo, per la sua innegabile portata dialettica, è ascrivibile alla seconda tipologia.

All’interno della cultura cattolica, infatti, esso ha costituito, e costituisce tuttora, un fattore di imbarazzo e di divisione, essendo la vicenda galileiana sentita comunemente come una colpa e considerata come una macchia nella storia della Chiesa.

E certamente ha anche alimentato quel dissenso dalla gerarchia che, in epoca moderna, si è rivestito di valenze scientifiche e ha individuato nel «progresso» la via per superare l’«immobilismo» della «Chiesa-istituzione».


Da ultimo
, ma non per l’importanza che la questione riveste, l’immagine di Galileo «martire» della scienza ha condizionato negativamente il rapporto degli uomini di scienza con la religione in generale e con la fede cattolica in particolare.

Ma se il caso, nelle intenzioni dei suoi ideatori, doveva costituire lo strumento privilegiato per l’affrancamento dalla religione nel nome di una scienza in grado di salvare l’umanità, a distanza di oltre trecentocinquant’anni dai fatti e dopo quasi tre secoli di polemiche, tale pretesa ha invece perduto molte delle sue certezze, come dimostra la generalizzata diffidenza dell’opinione pubblica verso il mondo della ricerca: diffidenza che emerge, per esempio, in tema di ecologia e di corsa agli armamenti.
Tuttavia uno storico dei pensiero scientifico come Stanley L. Jaki ha osservato acutamente che la diminuita fiducia nel ruolo salvifico della scienza è stata provocata anche da un profondo mutamento di fattori, sia filosofici che storici, ai quali il caso Galileo è strettamente collegato.

«Nella misura in cui la scienza non è semplice strumento ma attività intellettuale creativa, - afferma lo studioso benedettino - essa è intessuta di presupposti di carattere chiaramente ideologico. Anche su questo punto si ammette più oggi che non una o due generazioni fa, quando scienza e positivismo […]
erano praticamente sinonimi. Anche in ambienti dove fino a poco tempo fa la prospettiva indiscussa era uno stato di guerra perenne si può ormai sentire dire che la scienza e l’ideologia per eccellenza, il cristianesimo, non sono necessariamente irriconciliabili.
E l’affermazione che la scienza non ha avuto inizio improvvisamente col piano inclinato di Galileo la si può trovare perfino in alcuni dei più recenti trattati sull’inizio del pensiero moderno. Ciò è conseguenza del fatto che alcuni eminenti scienziati hanno preso nota delle vaste prove storiche su alcuni predecessori medioevali di Galileo
» (1).

L’idea che l’impresa scientifica sia nata molto prima del caso Galileo e che il suo significato generale affondi le radici nel rapporto religioso che ha come principio il Dio della tradizione cristiana, trascendente la natura e libero creatore di essa, ha favorito, negli ultimi anni l’instaurarsi di un clima propizio alla riflessione sui limiti della scienza da un lato e, dall’altro, alla riconsiderazione di casi storici che, come quello legato a Galileo Galilei, hanno per secoli condizionato negativamente il rapporto tra scienza e fede;
un rapporto che, invece, si è venuto manifestando sempre più necessario e strutturale per la ricerca del vero.

Lo sfondo storico

La vicenda galileiana si svolge a cavallo di due secoli cruciali - ma quale secolo non è stato cruciale? - per la storia dell’Europa: il Sedicesimo e il Diciassettesimo.

Nel 1517 il monaco agostiniano Martin Lutero
dà il via allo scisma protestante con la affissione delle 95 tesi alla porta della cattedrale di Wittenberg. Nel 1520 lo stesso Martin Lutero brucerà pubblicamente la bolla Exsurge Domine con cui Papa Leone X gli intima la ritrattazione e l’anno successivo riceverà la formale scomunica.

L’avvio della rivolta antiromana in Germania si innesta per di più in un contesto europeo, che vive le tensioni politiche tra la Francia di Francesco I e la Spagna di Carlo V, erede quest’ultimo dell’Impero asburgico.
Il conflitto che ne scaturisce durerà, con diverse interruzioni, dal 1521 al 1559 e verrà a sovrapporsi, quando non a coincidere, con le contemporanee lotte fra cattolicesimo e protestantesimo.

Nel pieno di questi conflitti la Chiesa cattolica arriva, non senza difficoltà, al Concilio di Trento (1545-1563) nell’intento di rilanciare l’unità religiosa e dottrinale della Cristianità.
Anche se il primo obiettivo non sarà raggiunto, in quanto l’Europa settentrionale aderirà al protestantesimo e rimarrà protestante, il Concilio consentirà alla Chiesa di ritrovare l’unità dottrinale attraverso la riaffermazione e la riproposizione vigorosa dei valori propri del cattolicesimo romano: unità intorno al Papa, disciplina nella gerarchia, vita comunitaria del clero, ristabilimento della Tradizione.
L’impresa promossa dal Concilio tridentino sarà ardua e difficile,
talora condotta con una decisione e una determinazione tali da apparire coercitive e anche dolorose per chi ne subisce i rigori.
Ma questo imponente sforzo conseguirà grandi risultati, tanto che la ripresa della vita religiosa in quella parte di Europa rimasta fedele alla Chiesa appare ancora oggi molto più che il risultato di una semplice reazione alle tesi luterane.
La stessa fioritura di ordini religiosi durante tutto il XVI secolo - ancora prima della rivoluzione protestante -,la presenza attiva della Chiesa nei più diversi campi della vita sociale e la stessa ampiezza d’orizzonte che traspare dai docenti tridentini, consentono di affermare
che il periodo a cavallo fra il XVI e il XVII secolo fu testimone di una vera e propria Riforma cattolica, le cui motivazioni non sono riducibili ad un’unica causa scatenante, quale fu la rivolta luterana.

È in questo clima, di difesa ma anche di rilancio della fede, che si svolge la vicenda galileiana. E anzi, per molti versi, è difficile separare il primo dalla seconda senza deformare inevitabilmente le valutazioni e i giudizi.

Quando Galileo nasce a Pisa, il 15 febbraio 1564, il Concilio di Trento è appena terminato.
Fra i provvedimenti di tipo istituzionale organizzativo emanati dall’assise che più legheranno il proprio nome a quello dello scienziato, sono da annoverare l’istituzione del Sant’Uffizio (1542) e la pubblicazione di un Indice dei libri proibiti (1559), per l’aggiornamento del quale fu istituita, poco dopo, una Congregazione dell’Indice: due organismi che diventeranno altrettanti «classici» della polemica anticattolica, arrivati fino a noi dall’epoca illuministica con il loro ulo di pregiudizi e di falsità.

Ma, lo stesso processo a Galileo, il quale non subirà torture né patirà il carcere, è una prova che le modalità con cui operano queste istituzioni
non corrisponde a quanto comunemente si crede (2).

Il Sant’Uffizio, composto da nove cardinali, è incaricato di sovrintendere al Tribunale dell’Inquisizione, già istituito al tempo di Innocenzo III, verso la fine del XII secolo, come strumento per contrastare la diffusione delle eresie. Il Tribunale decadde nel XIV e nel XV secolo, per venire ripristinato in Spagna intorno al 1480 e a Roma da Papa Paolo III.

La Congregazione dell’Indice è l’organo ecclesiastico che ha il compito di ascoltare gli autori e i redattori dei libri a stampa, nonché di valutare la presenza nei testi di dottrine eretiche o immorali.
Il possesso, la lettura e la diffusione dei libri messi all’Indice comporta diverse pene, che vanno dalla scomunica al carcere e al confino.

Tuttavia, come nel caso dell’Inquisizione, anche alla Congregazione dell’Indice
interessa l’aspetto pubblico e pastorale della pena che, una volta raggiunto, comporta spesso l’attenuazione o l’abbandono della pena stessa.

Il caso Galileo tra leggenda e storia 

I temi della polemica anticattolica suscitati dal caso Galileo sono innumerevoli e di diverso livello, come del resto il caso stesso impone
.

Nella questione galileiana, infatti, si trovano raccolti, ma più spesso intrecciati, elementi di svariata natura:
filosofici, se si guarda ai problemi legati al conflitto tra la «nuova fisica» e la fisica aristotelica;
teologici, se si considera il dibattito sullo statuto e la probanza della Sacra Scrittura;
giuridici, se si affronta la questione della competenza dei tribunali ecclesiastici in materie non teologiche;
scientifici, se si indaga sulla originalità delle intuizioni galileiane;
e infine storici, quando si voglia considerare il contesto in cui la vicenda si è svolta e gli «attori» che ne sono stati protagonisti.

È ovvio che ridurre a sintesi tutti i temi richiamati in questi ambiti e confrontarli con le tesi più erroneamente consolidate risulta impresa talmente onerosa da esulare dagli scopi di questo lavoro.
E certamente più utile passare in rassegna alcuni dei miti maggiormente ricorrenti intorno al caso Galileo, scegliendoli tra quelli che offrono un più ampio spettro di questioni implicate.

La presunta ostilità dei Gesuiti nei confronti di Galileo

Il tema dell’ostilità e dell’antagonismo fra Galileo e i Gesuiti, soprattutto quelli del Collegio Romano,
non è certamente uno dei più conosciuti nell’ambito del caso.

Tuttavia esso cala puntualmente, quasi come un fondale scenico, allorché occorra accreditare e confermare l’atteggiamento dogmatico e intransigente della Chiesa cattolica nei confronti del «mondo nuovo» che le idee del Pisano si accingevano a rivelare.

Ludovico Geymonat, nella sua purtroppo diffusissima biografia scientifica di Galileo, fornisce una testimonianza esemplare di questo atteggiamento.
Anche se i Gesuiti, spiega lo studioso marxista,
«rappresentavano indubbiamente - in quel momento - l’ordine religioso più aperto verso le scienze esatte, erano però, malgrado tale apertura, i più ligi custodi dell’ortodossia cattolica e quindi intendevano usare la propria competenza scientifica soprattutto ad un fine: quello di impedire che la scienza moderna assumesse un qualsiasi significato contrario al dogma.
Non bisogna dimenticare che proprio alla Compagnia di Gesù apparteneva il più autorevole rappresentante, allora vivente, dello spirito controriformistico: voglio dire il cardinale Roberto Bellarmino (1542-1621), già professore di Controversie al Collegio Romano e, in seguito, teologo del Papa, consultore del Sant’Uffizio, esaminatore dei vescovi
» (3).

La Compagnia di Gesù, approvata nel 1540 da Papa Paolo III - dopo circa quindici anni che il gruppo originario di Compagni di Cristo si era raccolto intorno a Ignazio di Loyola (1491-1556) nel periodo in cui questi, trentasettenne, frequentava la Sorbona -, era venuta effettivamente a costituire una milizia sceltissima di cattolici consacrati al servizio della fede e del Papa.

Attraverso una selezione e una preparazione assai severe - esercizi spirituali, studi profani e sacri - il Gesuita perveniva, dopo un tirocinio di sedici anni e anche più, all’ordinazione sacerdotale.
Ai voti di castità, povertà e obbedienza, egli aggiunge un particolare voto di obbedienza al pontefice, da cui la Compagnia dipende direttamente, senza la normale mediazione gerarchica.

I sessanta antichi seguaci di Sant’Ignazio erano diventati duemila dopo venticinque anni e raggiunsero il numero di dodicimila nel primo decennio del XVII secolo, a dimostrazione che la radicalità ignaziana trovava una profonda corrispondenza nei sentimenti della Cristianità.

Unendo, con straordinario equilibrio, fermezza e carità, prudenza e senso pratico, rigore dottrinale e intelligenza del nuovo, consapevoli della necessità di servire la Chiesa e il suo Capo, i Gesuiti operarono con successo per il ricompattamento della Cristianità lacerata dal protestantesimo e rivalutarono, per questa impresa, le armi della cultura e della educazione, ciò che ancora oggi qualifica l’apostolato ignaziano.

Intere regioni d’Europa devono alla Compagnia la loro permanenza nella fede di Roma: e sono la Baviera, la Boemia, l’Ungheria, la Polonia.
Non va dimenticato neppure lo slancio missionario che animò la Compagnia fin dalle origini e che portò suoi eminenti esponenti in Cina, in India, in Giappone, dove dettero prova di grande duttilità nell’incontro con quelle culture tanto diverse dalla cultura europea.

E dove, per ritornare a Galileo, insegnavano una astronomia copernicana già sul finire del XVII secolo, tanto che la rapida diffusione, in Estremo Oriente, della dottrina del movimento della Terra avvenne principalmente per merito degli astronomi della Compagnia.

Ora, questi Gesuiti, certamente rigorosi e prudenti, ma anche intelligenti, colti e appassionati, nei confronti di Galileo e della scienza sperimentale che stava nascendo, avrebbero invece dimostrato tutta la grettezza e tutta la miopia di cui gli uomini possono essere capaci.

Il contesto abituale è la controversia sulle macchie solari, poi quella sulla natura e sulla posizione delle comete, infine la disputa sui Massimi Sistemi, ovvero sul copernicanesimo e sulle prove disponibili a suo sostegno.
In questa polemica i principali avversari di Galileo sono considerati i padri Cristopther Scheiner (1579-1650) e Orazio Grassi (1583-1654), descritti solitamente come poco informati, maldisposti e ostruzionisti nei confronti delle idee dell’astronomo pisano.

La realtà storica è alquanto diversa. In un documentato saggio del padre domenicano William A. Wallace (4) viene fatto stato del quadro generale relativo alle ricerche condotte dai Gesuiti del Collegio Romano, dei loro rapporti con Galileo e li alcune scoperte che, secondo l’Autore, implicano
«una revisione sostanziale dell’analisi critica del ruolo di Galileo nella rivoluzione scientifica e nelle sue origini nel pensiero tardo medioevale e scolastico», al punto che si può parlare di un «debito di Galileo nei confronti dei Gesuiti».

Il Collegio Romano fu fondato dallo stesso Sant’Ignazio di Loyola nel 1551 e divenne, sul finire del secolo, la più importante università cattolica guidata da Gesuiti dell’Europa. Lo studio sia dei libri di testo adottati dai docenti per le loro lezioni sia degli appunti degli stessi docenti, dimostra che al Collegio Romano le questioni «scientifiche» - secondo l’accezione dell’epoca - venivano affrontate regolarmente, facendo parte dei corsi di studio. Anche la matematica, che caratterizza modo galileiano di fare scienza, era fortemente presente nel piano di studi del Collegio.

Il principale artefice del programma di matematica era il tedesco Christopher Clavius (1537-612), già allievo di Pedro Nunez a Coimbra e figura eminente suo campo tanto da essere definito, all’epoca «l’Euclide del sedicesimo secolo».
Dopo il primo incontro con Galileo a Roma, nel 1587, il Gesuita rimase molto impressionato da un lavoro del Pisano sul centro di gravità dei solidi.
Per questo collaborò con il protettore di Galileo, il marchese Guidobaldo del Monte, per assicurare al giovane matematico un posto di insegnante in una università.
Non si può parlare certo di atteggiamento ostile!
E anzi, secondo il padre William A. Wallace, lo stesso «
Galileo si dedicò a proseguire il programma di Clavius, nell’applicare la matematica allo studio della natura e nel generare una fisica matematica che potesse fornire valide spiegazioni causali sia per i fenomeni astronomici sia per quelli fisici»
Con questo, precisa l’Autore, non si vuole insinuare che Galileo sia debitore verso il Collegio Romano di tutta la sua scienza, ma che le basi su cui egli sviluppò la propria attitudine scientifica furono attinte dalla cerchia dei professori gesuiti: frequentandoli e potendo disporre degli appunti delle loro lezioni, il giovane studioso poté acquisire un «complesso di opinioni» che lo spinse ad applicare il ragionamento fisico e matematico nell’indagine della natura, ciò che costituirà il risultato migliore dei suoi anni più maturi.
Con una battuta, padre William A. Wallace sintetizza questo rapporto: se è indiscutibile che Galileo possa essere considerato il «padre della scienza moderna», tale titolo non esclude un «nonno» o altri progenitori per la nuova fisica.
Per venire alla disputa sulle comete, essa è rivelatrice tanto del carattere astioso di Galileo quanto della malafede di molti suoi biografi, che hanno visto in lui sempre e soltanto una vittima degli «scolastici oscurantisti».

«Serpe lacerata», «scorpione», «balordissimo», «solennissima bestia»:
così Galileo ebbe modo di nominare quel padre Orazio Grassi che gli fu contraddittore dotto e puntuale, con lo pseudonimo di Lotario Sarsi, a partire dal 1619, quando la comparsa di tre comete obbligò gli astronomi a pronunciarsi sull’argomento.
Orazio Grassi, staccandosi da Aristotele e appoggiandosi a Tycho Brahe e alle numerose osservazioni celesti compiute dai Gesuiti in tutta l’Europa, precisò, quanto alla natura e alla distanza, molto meglio di Galileo, il quale negò persino l’esistenza delle comete come oggetti reali.

Il fatto propone un insegnamento:
né Grassi né Galileo
potevano disporre, all’epoca, di prove conclusive per suffragare le rispettive posizioni circa le comete.

Eppure, i «meriti» del gesuita non sono magnificati nello stesso modo con cui normalmente si esaltano i «meriti» di Galileo
nel sostenere il sistema eliocentrico, benché né lui né i partigiani del sistema tolemaico disponessero delle prove definitive (
che, come noto, arrivarono circa un secolo dopo, almeno per quanto riguarda il movimento annuale della Terra; per quello diurno bisognerà attendere il 1851).

Da ultimo va ricordato che la «solennissima bestia» Orazio Grassi fu al contrario un uomo di profonda cultura, studioso di ottica e soprattutto grande matematico.
Fra i massimi architetti del suo tempo, eresse la chiesa di Sant’Ignazio in Roma, la cui cupola, che non fu mai innalzata, avrebbe dovuto essere non molto inferiore alla cupola di San Pietro.

La polemica sui Massimi Sistemi

É il tema che domina tutto il caso Galileo e riguarda l’antagonismo fra due opposte cosmologie, fra due modi irriducibili di descrivere l’Universo:
da un lato il sistema geocentrico o tolemaico, con la Terra in posizione centrale e immobile, e la Luna, il Sole, i pianeti e le stelle rotanti attorno ad essa;
dall’altro il sistema eliocentrico o copernicano, con il Sole in posizione centrale e gli altri corpi celesti, Terra compresa, rotanti attorno al Sole.

Innanzitutto occorre precisare che la comparsa sulla scena astronomica del sistema copernicano, a noi oggi così evidente e plausibile, per la cultura del tempo costituì invece un autentico trauma.
Il sistema tolemaico era infatti generalmente accolto fin dall’antichità: Eudosso di Cnido, nella prima metà del IV secolo a.C., fu il primo a immaginare un ingegnoso e complesso sistema di 26 sfere concentriche e collegate i cui movimenti rendevano conto dei movimenti degli astri osservabili; il suo discepolo Callippo ne aggiunse altre sette, pervenendo ad una descrizione straordinariamente precisa dei moti celesti;
Aristotele, introducendo l’etere come sostanza celeste, immise ulteriori 22 sfere, questa volta retrograde, allo scopo di compensare gli effetti dei movimenti delle sfere superiori su quelle inferiori;
Ipparco di Nicea, nel II secolo a.C., toccò il vertice della concezione geocentrica adottando epicicli ed eccentrici per ricomprendere nel sistema anche quei fenomeni che, come i movimenti retrogradi del Sole e dei pianeti, erano rimasti inspiegati; infine Claudio Tolomeo, nel II secolo d.C., completò e sigillò la cosmologia greca nella versione di Ipparco, codificando un sistema nel quale, sia pure a prezzo di artifici e assunzioni, i dati di osservazione dei vari pianeti vi apparivano totalmente coerenti e giustificati.
In questa forma il geocentrismo superò i successivi 1500 anni, senza che seri ripensamenti potessero metterne in dubbio la validità.

Ma il sistema tolemaico non costituiva soltanto un metodo di descrizione dei movimenti degli astri: come già nell’antichità fu inseparabile da una filosofia che si interrogava sulle cause prime e cercava risposte «religiose» agli interrogativi dell’esistenza, così più tardi esso entrò a pieno titolo nel vasto sistema di valori della cultura cristiana, permanendovi fino all’epoca di Galileo, in omaggio a quel carattere unitario della cultura che era un retaggio della scolastica medioevale.
Tale carattere unitario, «in sé positivo ed auspicabile ancor oggi», come ha affermato Giovanni Paolo II proprio in occasione della conclusione dei lavori della commissione da lui istituita per approfondire il caso Galileo (5), includeva tuttavia la convinzione che la conoscenza della struttura del mondo fisico fosse imposta dal senso letterale della Sacra Scrittura.

Dunque, il rischio di una trasposizione indebita di questioni appartenenti alla fisica nel campo della dottrina della fede era molto elevato, come pure era elevata la tendenza a rinunciare alla verifica dei fatti quando questi sembravano non concordare con il dettato della Sacra Scrittura.

Sarebbe però un errore confondere il pensiero ufficiale della Chiesa cattolica con la posizione di quei teologi che, sia pure numerosi, non percepivano la distinzione formale tra la Bibbia e la sua interpretazione.
Della disposizione dei Gesuiti al confronto con i dati dell’osservazione si è già detto.
La loro attitudine è peraltro riassunta nella raccomandazione del cardinale Roberto Bellarmino al padre carmelitano Paolo Antonio Foscarini, che si era schierato in favore di Copernico e contenuta nella celebre lettera del 12 aprile 1612:
«1. Dico che mi pare che V.P. ed il Sig.r Galileo facciano prudentemente a contentarsi di parlare ex suppositione e non assolutamente, come io ho sempre creduto che habbia parlato il Copernico [...]
3. Dico che quando ci fusse vera demostratione che il sole stia nel centro del mondo e la terra nel 3° cielo, e che d sole non circonda la terra, ma la terra circonda il sole, allora bisogneria andar con molta considerazione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e più tosto dire che non l’intendiamo, che dire che sia falso quello che si dimostra» (6).

La linea di pensiero del cardinale non era affatto isolata.

Prima di lui, Sant’Agostino
era stato guidato dalla stessa saggezza e dallo stesso rispetto per la Sacra Scrittura: «Se ad una ragione evidentissima e sicura si cercasse di contrapporre l’autorità delle Sacre Scritture, chi fa questo non comprende e oppone alla verità non il senso genuino delle Scritture, che non è riuscito a penetrare, ma il proprio pensiero, vale a dire ciò che non ha trovato nelle Scritture, ma ciò che ha trovato in se stesso» (7);
dopo di lui Leone XIII confermava, nell’enciclica Provvidentissimus Deus che «Poiché il vero non può in alcun modo contraddire il vero, si può esser certi che un errore si è insinuato o nell’interpretazione delle parole sacre, o in un altro luogo della discussione» (8).

Secondo questi criteri il copernicanesimo poteva essere tranquillamente studiato, anche se si mostrava contrario al senso letterale di alcuni passi della Bibbia, purché venisse presentato come ipotesi e non come verità comprovata.
Del resto l’opera di Copernico, il De revolutionibus orbium coelestium, pubblicato nel 1543, uscì con una dedica al Papa Paolo III, che l’aveva accettata
;
lo stesso canonico polacco trovò influenti e autorevoli protettori, come il vescovo Tiedemann Giese e il cardinale Schoenberg;
al tempo di Galileo fu accolta e incoraggiata da numerosi cardinali, fra cui Maffeo Barberini, il futuro Urbano VIII, e da molti astronomi gesuiti.

Fino al fatidico 1616 la discussione sul sistema copernicano era non solo permessa, ma persino incoraggiata: all’unica condizione che rimanesse confinata in ambito «scientifico», ovvero senza sconfinare nella teologia.

Arthut Koestler, che non si può certo sospettare di simpatie cattoliche, azzardava l’ipotesi che la titubanza, prima di Copernico e poi dello stesso Galileo, a schierarsi apertamente per l’eliocentrismo fosse dettata, più che dal timore di sanzioni improbabili, dalla paura di esporsi al ridicolo, di subire il sarcasmo dei «dotti», dal timore di farsi fischiare, a causa dell’apparente «enormità» costituita dal portato eliocentrico di fronte alla «naturalezza» dell’assunto tolemaico.

Fa certamente onore a Galileo e alle sue doti di intuizione avere rotto gli indugi dopo le prime, straordinarie scoperte fatte con il cannocchiale a partire dall’estate del 1610, e rivelare sempre più apertamente la sua propensione per il sistema copernicano.

Ma tutto questo avvenne in un clima polemico, in cui si mescolavano fattori intrinseci ed estrinseci alla questione: la mancanza della prova decisiva - l’experimentum crucis - richiesta dagli avversari e che Galileo non riusciva a portare (quella delle maree non fu giustamente accolta dai contemporanei, che ne avevano compreso l’inconsistenza);
il fatto che le impressionanti osservazioni compiute da Galileo con il cannocchiale, nonostante avessero assestato un duro colpo alla nozione aristotelica di un cosmo «perfetto», non intaccassero sostanzialmente la bontà descrittiva del sistema tolemaico;

la preoccupazione della Chiesa, e soprattutto degli organismi preposti alla difesa dell’ortodossia dottrinale, di fare fronte alla crisi protestante, allora in pieno svolgimento;

un’eccessiva preoccupazione di tipo giuridico, un’incapacità di affrontare l’esegesi biblica su presupposti più aperti da parte di uomini di Chiesa;

da ultimo, il carattere dello stesso Galileo, incline alla polemica, incurante delle inimicizie, teso all’umiliazione del contraddittore piuttosto che alla disamina leale delle idee.

La storia è nota, e qui merita ricordarla solo per sommi capi.

Nel marzo del 1615 il domenicano Tommaso Caccini, che già dal pulpito di Santa Maria Novella, in Firenze, aveva tuonato contro i copernicani, rilasciava una deposizione al Sant’Uffizio, specificando che Galileo sosteneva il moto della Terra: aveva inizio il primo procedimento a carico dello scienziato.
Il 15 giugno Galileo scrisse la famosa lettera a Cristina di Lorena, Granduchessa Madre, in cui rivendicava l’autonomia della ricerca scientifica nel quadro teologico-morale fornito dalla Sacra Scrittura parafrasando una celebre sentenza del cardinale Cesare Baronio:
la Bibbia non intende insegnare l’astronomia - «come vadia il cielo?» -, bensì che cosa deve credere ogni uomo per raggiungere la vita eterna - «come si vadia al cielo»-.

Alla fine di quell’anno si recò a Roma, dove ricevette, nonostante tutto, un’accoglienza lusinghiera e dove si incontrò con lo stesso Niccolò Caccini
.
 
Tuttavia non riuscì ad impedire che le tesi circa la stabilità del Sole e il moto della terra fossero censurate: il 24 febbraio 1616 una commissione di undici teologi rese operativa la dichiarazione di censura, con la conseguente ammonizione di Galileo e la messa all’Indice del libro di Copernico, donec corrigatur, ossia fino a quando la situazione non fosse chiarita.

L’ammonizione non cambiò la vita di Galileo, che continuò a godere la stima del Papa e di moltissimi cardinali.
Lo stesso Roberto Bellarmino, sollecitato dal Pisano, scrisse una dichiarazione a tutela del suo onore, minacciato dai numerosi calunniatori che auspicavano provvedimenti più gravi.

Nel 1623 salì al soglio pontificio, con il nome di Urbano VIII, Maffeo Barberini, molto favorevole a Galileo, il quale si affrettò a dedicargli Il Saggiatore, l’opera con cui intendeva confutare il gesuita Orazio Grassi nella disputa sulle comete: un’opera di notevole pregio letterario, ma al servizio di una causa errata, quale quella delle comete come fenomeno ottico di origine terrestre.

Dopo diversi tentativi di fare togliere l’ammonizione e dopo avere respinto qualunque offerta di riconciliazione con il gesuita, Galileo si dedicò completamente alla ricerca della prova conclusiva a sostegno del sistema copernicano. Lavorando intorno alla questione delle maree, credette di avere trovato in esse la prova che cercava.
Nel 1630 aveva terminato l’opera che raccoglieva questi studi e che voleva intitolare, appunto, Delle maree.
Urbano VIII, disposto a permetterne la pubblicazione, consigliò di mutarne il titolo, in modo che apparisse evidente che la questione del movimento terrestre risultasse solo un’ipotesi e non un fatto reale, capace di produrre effetti reali come le maree: nacque così il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano, opera di grande vigore polemico, ma debole proprio nel punto che ne avrebbe dovuto costituire il fondamento.
Incoraggiato dall’apertura del pontefice, con il beneplacito del Granduca di Toscana Galileo, che dal 1616 non aveva mai rinunciato a pronunciarsi in favore del movimento terrestre, si recò a Roma.
Tuttavia, il tono polemico dell’opera e la evidente apologia del sistema copernicano, non più presentato solo come ipotesi, ritardarono il sospirato imprimatur.
A mani vuote Galileo ritornò a Firenze, dove comunque il libro venne stampato dal Landini nell’estate del 1631. Nel marzo del 1632 due copie giunsero a Roma.

A questo punto la vicenda diventa nebulosa. È certo che Urbano VIII si contrariò per la pubblicazione dell’opera.
Si sono avanzate, a tale proposito, diverse ipotesi: la più diffusa riguarda il fatto che il Papa potesse essere identificato, fra i personaggi del Dialogo, proprio in quel Simplicio le cui argomentazioni a difesa del sistema tolemaico e della fisica aristotelica cadono regolarmente nel ridicolo;
altri sostengono che il Papa e i suoi collaboratori avessero intravisto, nella «nuova fisica» galileiana un attentato al dogma della transustanziazione delle specie eucaristiche (9).
 
Comunque sia, è certo che a Roma ebbero l’impressione di essere stati raggirati, senza avere avuto la possibilità di introdurre le modifiche suggerite dalla prudenza.

Il 13 febbraio 1633 Galileo giunse nuovamente a Roma, chiamato dall’Inquisizione.
Il 12 aprile venne sottoposto a un primo esame, che doveva accertare le modalità seguite per la stampa del Dialogo;
cinque giorni dopo gli fu contestata la contravvenzione all’ammonimento del decreto del 1616, in quanto nell’opera era manifestata l’adesione al sistema copernicano;
infine, il 22 giugno, nel convento di Santa Maria sopra Minerva, Galileo pronunciò l’abiura famosa.

Seguì la condanna, ma qui conviene dissipare un’altra serie di fosche leggende.

>>Segue
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