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Galileo Galilei. La leggenda del «martire» della scienza moderna

Ultimo Aggiornamento: 15/09/2010 09:17
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Sesso: Femminile
15/09/2010 08:08

Nascita di un mito

Si favoleggia molto, infatti, intorno al processo e alla relativa condanna
.

Anche in questo caso
la storia vera si discosta notevolmente da quanto è sedimentato nell’immaginario collettivo.

Sebbene il clima fosse di generale freddezza
- certamente distante da quello trionfale del 1611, al tempo delle osservazioni col cannocchiale; e certamente distante anche da quello tollerante del 1616, durante il primo processo -,
il trattamento riservato a Galileo in questa occasione fu estremamente favorevole.
 
Gli fu ingiunto di presentarsi a Roma non più tardi dell’ottobre 1632
, ma, in considerazione dell’età, egli poté ritardare il viaggio fino al febbraio dell’anno successivo.

Durante il processo non fu relegato in carcere, ma abitò in una sorta di foresteria nel palazzo del Sant’Uffizio.

Anche le motivazioni della condanna devono essere comprese correttamente
.

Come ha osservato Pier Carlo Landucci, il verdetto non ebbe alcuna pretesa di «infallibilità», limitandosi al «puro quadro pragmatistico e disciplinare» e fu improntato ad una «equilibrata giustificazione» dottrinale (10).

Secondo le parole della sentenza, infatti, Galileo fu condannato per avere «tenuto» una dottrina «contraria alla Scrittura», non di averla soltanto ipotizzata e considerata sul solo piano matematico: in tal caso sarebbe stata permessa.

Nella parte finale della sentenza emerge la vera questione di principio: si condanna di «sostenere e difendere come probabile un’opinione... per definizione contrastante con la Sacra Scrittura».

Ora, la nozione di probabilità implica un certo grado di possibilità, e ciò innalza l’ipotesi su un piano di realtà che, qualora l’ipotesi contrasti con la Sacra Scrittura, non può essere tollerata.
Naturalmente non bisogna dimenticare il contesto teologico più volte richiamato,
secondo cui il senso letterale della Scrittura prevaleva legittimamente in mancanza di prove contrarie.

Per quanto riguarda i punti della condanna,
il rigore letterale della sentenza fu alquanto mitigato nei fatti,

Oltre all’abiura formale della dottrina copernicana
, la sentenza prevedeva un periodo di carcere a discrezione del Sant’Uffizio e l’obbligo di recitare per tre anni, una volta alla settimana, i salmi penitenziali.

Avvenne che la prigionia consistette in un soggiorno di cinque mesi nella villa del Granduca di Toscana, a Trinità dei Monti
,

seguito da una permanenza
nell’«abitazione del mio più caro amico che avessi in Siena - racconta lo stesso Galileo al padre olivetano Vincenzo Renieri -
monsignor arcivescovo Piccolominì, della cui gentilissima conversazione io godetti con tanta quiete e soddisfazione dell’animo mio che quivi ripigliai i miei studi trovai e dimostrai gran parte delle conclusioni meccaniche sopra la resistenza dei solidi con altre speculazioni e dopo circa cinque mesi; cessata la pestilenza della mia patria, verso il principio di dicembre di quest’anno 1633, da sua santità mi è stata permutata la strettezza di quella casa, nella libertà della campagna, da me tanto gradita, onde me ne tornai alla villa di Bellosguardo e dopo in Arcetri, dove tutt’ora mi trovo a respirare quest’aria salubre, vicino alla mia cara patria Firenze».

Quanto ai salmi penitenziali,
incaricò di recitarli, con il consenso della Chiesa, la figlia Maria Celeste, suora carmelitana.

Ad Arcetri lo scienziato chiuse la sua vita terrena l’8 gennaio 1644

non prima di avere completato
i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla meccanica ed i movimenti locali,
l’opera con cui ritornò alla sua vera vocazione di fisico-matematico e che meritatamente lo colloca tra quei «giganti» che, come amava dire Isaac Newton, «mi hanno portato sulle loro spalle».

Ma nessuna tortura, nessuna tetra galera, nessuna umiliazione o vessazione caratterizzò gli anni successivi alla condanna,

che,
anzi, furono densi di attività e di relazioni, anche quando, ormai al termine, fu colpito dalla totale cecità.

I temi della «leggenda nera» galileiana nacquero in epoca illuministica e, paradossalmente, proprio nel momento in cui la Chiesa cattolica attenuava sia gli effetti giuridici dei provvedimenti del 1616 e del 1633, sia la diffidenza verso il sistema copernicano
.

Si trattò di un attacco ideologico, di un’operazione di intenzionale disinformazione, il cui obiettivo era quello di dimostrare l’incompatibilità del sistema cattolico con le ragioni della libertà di ricerca nei vari campi del sapere.

Le critiche alla Chiesa in relazione al caso, che da allora divenne tale, iniziarono nei paesi protestanti, in concomitanza con la pubblicazione delle prime storie sulla Inquisizione, come la traduzione inglese dell’Historia Inquisitionis del 1692, pubblicata a Londra nel 1731 ed utilizzata per suscitare l’odio contro Roma al tempo della seconda ribellione scozzese:
i cardinali che si opposero a Galileo vi sono descritti come nemici del vero sapere e della vera scienza.

I philosophes francesi del XVIII secolo si ispirarono invece alle opere di Fontenelle e di Pierre Bayle, in cui veniva ripreso l’eliocentrismo e si ribadiva l’opposizione tra ragione e fede.

Su questa linea, Voltaire, nel suo Dizionario filosofico, dirà che
«Ogni inquisitore dovrebbe arrossire fino in fondo all’anima solo alla vista di una sfera di Copernico».

In Italia, sul finire del ’700, Giovanni Targioni Tozzetti e Girolamo Tiraboschi ripresero il tema delloscurantismo clericale, attribuendo i guai di Galileo ai «Regolari» e agli «Ecclesiastici», responsabili anche dell’offuscamento della memoria dello scienziato.

In realtà la Chiesa cattolica, attraverso le Congregazioni romane, aveva adottato diverse misure a favore di Galileo.

Nel 1734 il Sant’Uffizio ne riabilitava la memoria autorizzando l’erezione di un mausoleo in suo onore nella chiesa di Santa Croce in Firenze.

È utile ricordare che tale concessione avvenne durante il pontificato di Clemente XII, il primo Papa che condannò la Massoneria e che affidò all’architetto fiorentino Alessandro Galilei, pronipote dello scienziato, la costruzione delle facciate di San Giovanni in Laterano e di San Giovanni dei Fiorentini.

Un secondo gesto di disponibilità fu compiuto da Benedetto XIV il quale, nel 1757 tolse dall’Indice i libri che insegnavano il moto della Terra, con ciò ufficializzando quanto già tacitamente aveva fatto Papa Alessandro VII nel 1664 con il ritiro del Decreto del 1616.

Benedetto XIV aveva peraltro dimostrato il suo interesse per le scienze fin da quando era arcivescovo di Bologna, dove istituì un museo e una cattedra di anatomia.
Salito al soglio pontificio, riformò l’Accademia dei Lincei, istituì cattedre di chimica e di matematica all’Università della Sapienza,
prescrisse che i teologi incaricati di esaminare opere controverse fossero affiancati da esperti nelle scienze profane e tenne rapporti con un newtoniano come Pierre L.M. de Maupertuis, cui si deve la formulazione del principio di minima azione.

La definitiva autorizzazione all’insegnamento del moto della Terra e dell’immobilità del Sole arrivò con un decreto della Sacra Congregazione dell’inquisizione approvato da Papa Pio VII il 25 settembre 1822,
anche se già da molto tempo la teoria copernicana, ormai diventata newtoniana, veniva insegnata in tutte le università cattoliche dell’Europa, sia pure come ipotesi, per rispetto ai decreti della Chiesa.

Per quanto riguarda le prove del moto annuale della Terra attorno al Sole, il primo fenomeno che deponeva seriamente in suo favore fu l’aberrazione della luce, rilevato dall’astronomo inglese James Bradley nel 1725: egli collegò gli sfasamenti osservati durante passaggi successivi della stella  Draconis nel campo del telescopio con il moto della Terra lungo la sua orbita e con il fatto che la velocità di propagazione della luce è finita.

Si trattava di un effetto che tuttavia «copriva» ancora la misura della parallasse stellare, ritenuta, a ragione, la prova cruciale del moto di rivoluzione: bisognò attendere fino al 1837, quando il tedesco Wilhelm F. Bassel determinò in 0,30" lo spostamento apparente della stella 61 Cygni, attribuendolo allo spostamento reale della Terra lungo la sua orbita.

Il moto diurno del pianeta fu dimostrato ancora più tardi, nel 1851
, quando il francese Leon Foucault mise in evidenza lo spostamento del piano di oscillazione di un grandioso pendolo sospeso alla cupola del Pantheon di Parigi: poiché il piano di oscillazione di un pendolo libero di muoversi non muta, l’astronomo concluse che la rotazione osservata era da attribuirsi in realtà a quella, in direzione opposta, della Terra intorno al proprio asse.

Va ricordato, infine, che la Chiesa non rimase estranea allo straordinario sviluppo dell’astronomia - e della scienza - dei secoli XVIII e XIX.

Per citare solo un esempio, quell’Osservatorio Pontificio Vaticano, fondato nel 1579 da Gregorio XIII e che fu uno dei luoghi della vicenda galileiana, operò attivamente anche nei secoli successivi e raggiunse una grande notorietà internazionale alla metà dell’800, quando padre Angelo Secchi, introducendo l’analisi spettroscopica nello studio della luce stellare, iniziò una classificazione delle stelle in base al tipo spettrale.

Il 14 marzo 1891 Leone XIII, con il motu proprio «Ut mysticam»,
decretò la trasformazione dell’antico Osservatorio nell’attuale Specola Vaticana.

Affidata ancora ad astronomi gesuiti, la Specola ha partecipato fin dalla sua nascita ai programmi internazionali di realizzazione di carte fotografiche del cielo.
Per questo lavoro fu necessario costruire un particolare telescopio, ancora oggi utilizzato per la fotografia dei campi stellari.

Attualmente la Specola Vaticana rappresenta ufficialmente la Santa Sede in seno all’Unione Astronomica Internazionale e i suoi programmi di ricerca si sono dilatati allo studio della astrofisica e della cosmologia.
Da oltre dieci anni è attivo a Tucson, in Arizona, un centro di ricerche che dipende direttamente dalla Specola.

Ultimo atto: dal creato a Dio creatore

Il 10 novembre 1979
, in occasione delle celebrazioni del primo centenario della nascita di Albert Einstein, Giovanni Paolo II, di fronte ai membri della Pontificia Accademia delle Scienza, esprimeva l’auspicio
«che teologi, scienziati e storici, animati da uno spirito di sincera collaborazione [approfondissero] l’esame del caso Galileo e, nel leale riconoscimento dei torti, da qualunque parte provengano, [rimuovessero] le differenze che quel caso tuttora frappone, nella mente di molti, alla fruttuosa collaborazione tra scienza e fede, tra Chiesa e mondo.
 
«A questo compito», aggiungeva il Santo Padre, «che potrà onorare la verità della fede e della scienza, e dischiudere le porte a future collaborazioni, io assicuro tutto il mio appoggio»
(11).

Il 3 luglio 1981 veniva istituita una Commissione Pontificia per lo studio della controversia tolemaico-copernicana dei secoli Sedicesimo e Diciassettesimo nella quale il caso Galileo si inserisce.

La Commissione era articolata in quattro gruppi di lavoro,
presieduti dal cardinale Carlo Maria Martini, per i problemi esegetici;
dal cardinale Paul Poupard per la sezione culturale;
dal professor Carlos Chagas e dal padre George Coyne per le questioni scientifiche ed epistemologiche;
da monsignor Michele Maccarrone per le questioni storiche e giuridiche.
Il padre Enrico di Rovasenda svolgeva le funzioni di segretario.

Dopo oltre dieci anni di lavori e a trecentocinquant’anni dalla morte dello scienziato pisano, il 31 ottobre 1992 la Commissione chiudeva solennemente il decennio di studi galileiani durante la Sessione Plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze.

Sarebbe errato interpretare l’iniziativa pontificia come la tardiva «riabilitazione» di Galileo da parte della Chiesa, come puntualmente hanno fatto i mass media ignorando il reale contenuto sia del discorso con cui il cardinale Paul Poupard ha presentato i risultati delle ricerche, sia della replica conclusiva di Giovanni Paolo II.

Infatti, se una riabilitazione vi è stata,
si è trattato della riabilitazione della verità storica intorno a tutta la vicenda.

Secondo il cardinale Paul Poupard il fatto che Galileo
«ebbe molto a soffrire» e che, quindi, «[...] Bisogna riconoscere [. ..] con lealtà, come ha chiesto Vostra Santità» i torti da lui subiti, non impedisce di considerare che fu in

«una congiuntura storico-culturale, ben lontana dal nostro tempo,
che i giudici di Galileo, incapaci di dissociare la fede da una cosmologia millenaria, credettero a torto che l’adozione della rivoluzione copernicana, peraltro non ancora definitivamente provata, fosse tale da fare vacillare la tradizione cattolica, e che era loro dovere proibirne l’insegnamento
».
 
Si è trattato, di un «errore soggettivo di giudizio» e non di una cieca avversione alla scienza o di una chiusura acritica alla novità:

«
Le qualifiche filosofiche e teologiche abusivamente attribuite alle teorie nuove per allora sulla centralità del Sole e la mobilità della Terra furono conseguenza di una situazione di transizione nell’ambito delle conoscenze astronomiche, e di una confusione esegetica riguardo alla cosmologia».
 
La conclusione, per il cardinale, non può che essere «ancora una volta»quella dimostrata dalla «rilettura dei doenti d’archivio» e cioè che «tutti gli attori di un processo, senza eccezioni, hanno diritto al beneficio della buona fede, in assenza di documenti processuali contrari».

Se, dunque, il «beneficio della buona fede» deve considerarsi la chiusura «storica» del caso, quella «culturale» - cioè quella sui valori in gioco nella vicenda galileiana - è stata delineata da Giovanni Paolo II.

Il Santo Padre ricorda innanzitutto l’importanza della filosofia, «che è ricerca del senso globale dei dati dell’esperienza, e dunque ugualmente dei fenomeni raccolti ed analizzati dalle scienze», per l’uomo di scienza, il cui ricorso sempre più frequente a concetti metascientifici necessita di uno sforzo costante di chiarificazione, onde «evitare di procedere a delle estrapolazioni indebite che leghino le scoperte strettamente scientifiche a una visione del mondo o a delle affermazioni ideologiche o filosofiche che non ne sono affatto dei corollari».

In secondo luogo il Santo Padre ricorda quanto possa diventare «grande il rischio di giungere ad una "cultura frantumata" che sarebbe di fatto la negazione della vera cultura» qualora la altissima specializzazione delle ricerche, cui pure «sono dovuti i successi che constatiamo», non fosse «equilibrata da una riflessione attenta a notare l’articolazione dei saperi».

Si tratta di due richiami di valore generale, ma non può sfuggire la loro puntualità a fronte di una tendenza della scienza moderna a egemonizzare gli ambiti propri della ricerca filosofica e teologica e a screditare ogni approccio al reale che non ricade sotto il suo metodo di indagine: per esempio molti dei testi divulgativi di fisica moderna o «nuova fisica» -, i cui autori sono spesso premi Nobel o insigni docenti universitari, affrontano problemi come la creazione, il tempo, la coscienza con il piglio aggressivo di chi, finalmente, ha trovato la strada giusta per risolvere questioni che secoli di filosofia e di teologia hanno lasciato irrisolte.

Venendo alla vicenda galileiana, Giovanni Paolo II ripete che «i problemi soggiacenti a quel caso toccano la natura delle scienze come quella del messaggio della fede»; quindi che non si deve
«escludere che ci si trovi un giorno davanti ad una situazione analoga, che richiederà agli uni e agli altri una coscienza consapevole del campo e dei limiti delle rispettive competenze».


Anche in questo caso il richiamo è preciso, e se costituisce una doverosa messa in guardia da eventuali ingerenze filosofico-teologiche nelle questioni scientifiche, descrive pure l’ipotesi opposta, ovvero la pretesa della scienza di fornire il senso globale dei dati dell’esperienza, di rispondere non solo al «come» dei fenomeni, ma anche al «perché» del loro esistere.

D’altra parte questa mancata «distinzione tra quello che è l’approccio scientifico ai fenomeni naturali e la riflessione sulla natura, di ordine filosofico, che essa generalmente richiama», dice Giovanni Paolo II, fu proprio l’errore che accomunò i sostenitori del sistema tolemaico e Galileo:
i primi ritenendo che bastassero i passi scritturali a provare la loro cosmologia,

il secondo, in paradossale contraddizione il metodo sperimentale di cui fu sostenitore, ostinandosi a presentare come vera la propria, benché in assenza di prove conclusive.

Alla fine ebbe ragione Galileo, ma sì può veramente parlare di una vittoria della scienza sperimentale?
Oggi, dopo la teoria della relatività, dopo le galassie, dopo le stelle di neutroni e i buchi neri, la polemica, almeno sul piano strettamente scientifico appare stemperata e lontana e, in questo senso, il Pontefice ricorda che

«spesso, al di là di due visioni parziali e contrastanti, esiste una visione più larga che entrambe le include e le supera».

Ma le ultime riflessioni che la vicenda galileiana suggerisce riguardano, per Giovanni Paolo II, il senso finale dell’impresa scientifica, «che concerne quanto c’è di più profondo nell’essere umano allorché, trascendendo il mondo e se stesso, egli si rivolge a Colui che è il Creatore di ogni cosa».

Al di là delle legittime esigenze di autonomia - che il caso Galileo ha contribuito a definire -,
l’autentica necessità di chi si impegna nella ricerca scientifica continuerà ad essere, allora come oggi, l’intima consapevolezza

«che il mondo non è un caos, ma un "cosmos", ossia che c’è un ordine e delle leggi naturali che si lasciano apprendere e pensare, e che hanno pertanto una certa affinità con lo spirito [...]
Questa intelligibilità, attestata dalle prodigiose scoperte delle scienze e delle tecniche, rinvia in definitiva al Pensiero trascendente e originario di cui ogni cosa porta l’impronta».

Note
(1) Stanley L. Jaki, Il Salvatore della scienza, Libreria Editrice Vaticana, CdV 1992, pp. 5-6.

(2) Per una informazione non conformista sulla Inquisizione, soprattutto quella spagnola, cfr. Jean Dumont, L’Église au rìsque de l’histoire, Criterion, Limoges Cedex 1984, pp. 343-413.

(3) Ludovico Geymonat, Galileo Galilei, Einaudi, Torino 1957 e 1969.

(4) Cfr. William A. Wallace, Galileo e i professori del Collegio Romano alla fine del secolo XVI, in Mons. Paul Poupard (a cura di), Galileo Galileo. 350 anni di storia (1633-83). Studi e ricerche, Edizioni Piemme, Casale Monferrato 1984, pp. 76-97.

(5) Cfr. il Supplemento a «L’Osservatore Romano», 7 novembre 1992, pp. 5-7. Nel seguito, salvo diversa indicazione, le citazioni di Giovanni Paolo II e del card. Paul Poupard sono tratte da questo doento. I corsivi sono nel testo.

(6) Edizione Nazionale delle opere di Galileo Galilei, tomo XII, pp. 171-172.

(7) Epistula 143, n. 7, PL 33, col 588.

(8) Leonis XIII Pont Max. Acta, vol. XIII, 1894, p. 361.

(9) Renato Redondi, Galileo eretico, Einaudi, Torino 1983.

(10) Cfr. Pier Carlo Landucci, Nuovi studi storici sulla vicenda di Galileo, in Cultura & Libri, settembre-ottobre 1984, pp. 215-231.

(11) Cfr. «L’Osservatore Romano», 12-13 novembre 1979, p. 2.


http://www.kattoliko.it/leggendanera/modules.php?name=News&file=print&sid=184
 

[Modificato da Anam_cara 15/09/2010 09:17]
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