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LA NAVE CHE CANTAVA - romanzo di fantascienza - di Anne McCaffrey

Ultimo Aggiornamento: 09/09/2011 20:33
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07/09/2011 06:38

LA NAVE CHE CANTAVA


LA NAVE CHE CANTAVA - 1





Era nata imperfetta e sarebbe stata spacciata, se non fosse riuscita a superare l’esame elettroencefalografico che era obbligatorio per tutti i neonati. C’era sempre la possibilità che, anche se i suoi arti erano deformi, la mente fosse normale; che, anche se le orecchie avevano un udito debole, e gli occhi una vista confusa, la mente fosse ricettiva e ben sveglia.
L’elettroencefalogramma fu completamente favorevole, e la notizia venne data ai genitori che attendevano angosciati. Bisognava prendere la dura decisione definitiva: o praticare l’eutanasia alla bambina oppure permettere che diventasse un ‘cervello’ incapsulato, un meccanismo guida in una delle tante strane professioni. In questo modo la loro creatura non avrebbe sofferto, avrebbe vissuto una comoda esistenza in un guscio metallico per parecchi secoli, e avrebbe reso servizi preziosi ai Mondi Centrali.
La bambina visse ed ebbe un nome, Helva. Per i primi tre mesi di vita vegetativa agitò le chele da granchio, scalciò con i piedi a clava, e si godette la solita esistenza dei neonati. Non era sola, perché nella speciale nursery nella grande città c’erano altri tre bambini come lei. Poi li portarono tutti all’istituto dei Laboratori Centrali, dove incominciarono le loro delicate trasformazioni.
Uno dei piccini morì durante la trasposizione iniziale, ma della ‘classe’ di Helva, diciassette vissero nei gusci metallici. Invece di far muovere i piedi, le reazioni neurali di Helva fecero muovere le sue ruote; invece di afferrare con le mani, manovrò estensioni meccaniche. Mentre maturava, altre sinapsi neurali si sarebbero adattate a far funzionare altri meccanismi specializzati nella manutenzione e nel funzionamento di un’astronave, perché Helva era destinata ad essere il ‘cervello’, la metà di una nave da ricognizione, in compagnia di un uomo o di una donna (quello che lei avrebbe scelto) che sarebbe stato la metà mobile. Helva sarebbe stata un’eletta, nel suo genere. La sua intelligenza era superiore al normale e il suo indice di adattamento era insolitamente alto. Finché il suo sviluppo all’interno del guscio fosse stato all’altezza delle previsioni e finché non vi fossero effetti spiacevoli causati dalla manipolazione della ghiandola pituitaria, Helva avrebbe vissuto una vita insolita e interessante, assai più di quella che avrebbe potuto vivere come essere umano ‘normale’.
Tuttavia nessun diagramma delle sue onde cerebrali, nessun test precoce del quoziente d’intelligenza registrava certi fatti sul conto di Helva che la Centrale avrebbe comunque scoperto. Avrebbero dovuto darle tempo, sperando che le dosi massicce di psicologia ‘del guscio’ bastassero anche nel suo caso, come un bastione a difesa delle pressioni e dell’isolamento che la sua professione comportava. Una nave guidata da un cervello umano non poteva fuggire o impazzire, con la potenza ed i mezzi che la Centrale doveva conferire ai suoi ricognitori. Le navi guidate da cervelli, naturalmente, non erano più alla fase sperimentale. Quasi tutti i neonati sopravvivevano alle tecniche perfezionate della manipolazione delle pituitarie, che mantenevano piccoli i loro corpi ed eliminavano la necessità di trasferire un individuo da un guscio ad un altro più grande. E pochissimi andavano perduti quando veniva stabilito il collegamento definitivo con i comandi della nave o con il complesso industriale. Le persone ingusciate assomigliavano a gnomi adulti, nella forma, qualunque fossero le loro deformità innate: ma i loro cervelli perfettamente orientati non avrebbero accettato uno scambio neppure con il corpo più perfetto dell’universo.
Quindi, per molti anni felici, Helva si diverti nel suo guscio insieme ai suoi compagni di scuola, giocando, studiando tecniche di traiettoria e di propulsione, calcolo, logistica, igiene mentale, psicologia extraterrestre fondamentale, filologia, storia spaziale, giurisprudenza regolamenti del traffico e codici; e inoltre tutto quello che doveva costituire il patrimonio di un cittadino logico ed informato. Per lei la cosa non era molto ovvia, ma lo era per i suoi insegnanti: ed Helva ingeriva i precetti del suo condizionamento come assorbiva il fluido nutriente. Un giorno sarebbe stata felice di avere ricevuto un’istruzione a livello subcosciente...
Nella civiltà di Helva c’erano associazioni che facevano inchieste sugli eventuali maltrattamenti nei confronti dei cittadini terrestri ed extraterrestri. Uno di questi gruppi, la Società per la Difesa dei Diritti delle Minoranze Intelligenti, si scandalizzò, quando Helva aveva quattordici anni, per la faccenda dei bambini ‘ingusciati’. I Mondi Centrali scrollarono le spalle, e organizzarono una visita alle Scuole del Laboratorio, e incominciarono la visita mostrando agli esponenti della società umanitaria i dati personali su ognuno dei casi, con tanto di fotografie. Furono ben pochi i componenti della commissione in visita che ebbero il coraggio di guardare più delle prime foto. Quasi tutte le loro obiezioni contro i ‘gusci’ caddero, per il sollievo che quei corpi spaventosi erano nascosti, in quel modo.
La classe di Helva stava facendo lezione d’arte, una materia facoltativa. Helva aveva attivato uno degli strumenti microscopici che avrebbe usato in futuro per riparazioni delicate a certe parti del suo quadro dei comandi. Il soggetto era grande (una copia del Cenacolo e la tela piccolissima: la testa d’una minuscola vite. Helva aveva sintonizzato adeguatamente la vista: lavorava e intanto canterellava distrattamente, emettendo un suono curioso. Gli ‘ingusciati’ si servivano delle loro corde vocali e del loro diaframma, ma i suoni uscivano da microfoni, non dalle bocche. La cantilena di Helva era stranamente vibrante, calda e dolce, anche in quei vagabondaggi cromatici a casaccio.
“Oh, ma hai una splendida voce,” disse una delle visitatrici.
Helva ‘alzò’ lo sguardo e scorse un panorama di sudici crateri regolari su di una superficie rosea e scagliosa; la sua cantilena divenne un gorgoglìo sorpreso. Regolò istintivamente la propria ‘vista’ fino a quando la pelle perse l’aspetto a crateri e i pori assunsero proporzioni normali.
“Si, ho fatto qualche anno di addestramento vocale, signora,’ disse con calma Helva. “Spesso le stranezze vocali diventano irritanti, durante i lunghi viaggi interstellari, e bisogna eliminarle. Le lezioni mi sono piaciute molto.”
Benché fosse la prima volta che Helva vedeva gente non ingusciata, accettò con calma l’esperienza. Altre reazioni sarebbero state segnalate immediatamente ai suoi Superiori.
“Voglio dire che canti molto bene.., mia cara,” disse la Signora.
“Grazie. Vuole vedere il mio lavoro?” Chiese educatamente Helva. Rifuggì istintivamente la discussione su quell’argomento personale, ma ricordò quel commento per rifletterci sopra in seguito.
“Lavoro?” Cinguettò la signora.
“Sto riproducendo il Cenacolo sulla testa d’una vite.”
“Oh, davvero!” Esclamò la signora.
Helva regolò la propria vista sull’ingrandimento e studiò criticamente il dipinto.
“Si, i colori non sono eguali perfettamente all’originale, e la prospettiva ha qualche difetto, ma mi sembra una copia discreta.”
La signora sbarrò gli occhi per vedere.
“Oh, dimenticavo,” fece Helva, in tono contrito. Sarebbe arrossita, se avesse potuto. “Voi non avete una vista regolabile.”
Il funzionario che controllava il colloquio sorrise divertito a quel tono di pietà per le sventure altrui.
“Ecco, così andrà meglio,” disse Helva, sostituendo una lente d’ingrandimento in una estensione e ponendola davanti alla pittura.
Sbalorditi, i membri della commissione si chinarono ad osservare l’incredibile, ottima copia del Cenacolo sulla testa della vite.
“Bene,” osservò un signore che era stato costretto ad accompagnare la moglie, “il buon Dio può mangiare dove gli angeli non osano andare.”
“Sta alludendo,” chiese educatamente Helva, “alle discussioni medievali sul numero di angeli che potevano stare su una capocchia di spillo, signore?”
“Stavo pensando a quello.”
“Se sostituisce ‘atomo’ ad ‘angelo’ il problema non è insolubile, dato il contenuto metallico dello spillo in questione.”
“E tu sei capace di calcolarlo?”
“Certamente.”
“E ti hanno insegnato anche il senso dell’umorismo mia cara?”
“Ci insegnano a sviluppare un senso delle proporzioni, signore, il che corrisponde alla stessa cosa.”
Il brav’uomo ridacchiò, con aria d’approvazione, e decise che valeva proprio la pena di avere fatto quella visita.
Il comitato d’inchiesta ebbe argomenti per meditare molti mesi sul risultato della visita alla Scuola del Laboratorio: ma anche Helva ne ebbe uno.
‘Cantare’, riferito a se stessa era qualcosa che comportava una ricerca. Naturalmente, aveva seguito un corso d’apprezzamento della musica, che comprendeva le più note opere classiche, come ‘Tristan und Isolde’, Candide ‘Oklahoma’ e ‘Le Nozze di Figaro’, oltre ai cantanti dell’era atomica, Birgit Nilsson, Bob Dylan e Geraldine Todd, più le progressioni ritmiche dei Venusiani, la cromatica vivida dei Cappellani, i concerti sonici degli Altairiani e le nenie Reticuliane. Ma il ‘canto’ per un ingusciato poneva considerevoli difficoltà tecniche. Gli ingusciati erano stati abituati a esaminare ogni aspetto di un problema o d’una situazione, prima di fare una diagnosi. Ben equilibrati tra ottimismo e senso pratico, tendevano a districare se stessi, le loro navi e i loro compagni dalle situazioni più bizzarre. Per Helva, quindi, il problema di non poter aprire la bocca per cantare non era preoccupante. Avrebbe escogitato un sistema, superando le proprie limitazioni, per poter cantare.
Affrontò il problema studiando i metodi di riproduzione dei suoni, umani e strumentali. La sua attrezzatura per produrre suoni era più strumentale che vocale: il controllo del respiro e l’esatta enunciazione dei suoni vocalici all’interno della cavità orale richiedevano un grande sviluppo ed una notevole pratica. Gli ingusciati in realtà non respiravano: l’ossigeno e gli altri gas non li traevano dall’atmosfera per mezzo del respiro; erano in soluzione entro i gusci. Dopo alcuni esperimenti, Helva scoprì che poteva manovrare la propria unità diaframmatica per sostenere il tono. Rilassando i muscoli della gola ed espandendo la cavità orale poteva dirigere i suoni vocalici in modo da riprodurli nel modo migliore con il microfono che aveva in gola. Confrontò i risultati ottenuti con le registrazioni dei cantanti moderni, e fu abbastanza soddisfatta, benché i suoi nastri avessero una qualità strana, armoniosa ma unica. Acquisire un repertorio attraverso la biblioteca del Laboratorio non era un problema per lei, abituata a ricordare tutto. Scopri di essere capace di cantare qualunque parte e qualunque canzone che la colpisse. Non le parve strano essere capace di cantare da soprano, mezzosoprano, tenore, baritono e basso, a suo piacere. Per lei, si trattava solo di regolare la riproduzione e il diaframma.
Se le autorità notarono quella strana vocazione, non ne discussero comunque con lei. Gli ingusciati venivano incoraggiati a farsi degli hobby, purché si dimostrassero efficienti nel loro lavoro.
Il giorno del suo sedicesimo compleanno, Helva fu diplomata e installata nella sua nave, XH-834. Il suo guscio di titanio fu chiuso dietro una barriera anche più indistruttibile nella colonna centrale del ricognitore. Le connessioni neurali, auditive, visive e sensoriali furono stabilite e sigillate. Le sue estensioni furono spostate, collegate o aumentate, e i collegamenti definitivi del cervello vennero fissati mentre Helva, sotto anestesia, non sentiva assolutamente nulla. Quando si svegliò, era diventata la nave. Il suo cervello controllava tutte le funzioni, dal calcolo della rotta alle operazioni di carico. Era in grado di badare a se stessa ed alla sua metà mobile, in qualunque situazione già registrata negli annali dei Mondi Centrali e in qualunque situazione che le fantasie più fertili avessero potuto ipotizzare.
Il suo primo vero volo (poiché lei e quelli come lei compivano voli simulati dall’età di otto anni) le dimostrò che era perfettamente padrona delle tecniche della sua professione. Era pronta per le sue grandi avventure e per l’arrivo del suo compagno mobile.
C’erano nove esploratori qualificati che si trovavano alla base per riscuotere la paga, il giorno in cui Helva si presentò per prendere servizio. C’erano parecchie missioni urgenti, ma da qualche tempo diversi capi dipartimento della Centrale tenevano d’occhio Helva, ed erano decisi a farla assegnare ciascuno alla propria sezione. Nessuno aveva mai presentato Helva ai suoi aspiranti compagni. Era sempre la nave che sceglieva il suo compagno. Se in quel momento ci fosse stata un’altra nave ‘a cervello’ alla base, Helva avrebbe potuto chiedere consiglio. Ma così, mentre alla Centrale continuavano le discussioni, Robert Tanner usci dagli alloggi dei piloti, venne sul campo e si accostò all’elegante guscio metallico di Helva.
“Salve, c’è qualcuno in casa?” Disse Tanner.

“Certo,” rispose Helva, attivando i visori esterni. “Sei tu il mio compagno?” chiese, speranzosa, riconoscendo la divisa del Servizio Esploratori.
“Non hai che da chiederlo,” rispose lui.
“Non è venuto nessuno. Credevo che non ci fossero compagni disponibili, e non avevo ricevuto direttive dalla Centrale.”
Helva sentiva che la propria voce aveva un tono d’autocommiserazione, ma si sentiva sola, lì sul campo buio. Aveva sempre avuto la compagnia di altri ingusciati, e negli ultimi tempi, di tecnici a dozzine. L’improvvisa solitudine aveva perduto il suo fascino e la immalinconiva.
“Non è il caso di prendersela: ci sono altri otto piloti che non vedono l’ora di essere invitati a salire a bordo, bellissima.”
Tanner era nella cabina centrale mentre diceva questo, e passava le dita, estatico, sul quadro dei comandi, sulla poltroncina antigravità, curiosava nelle cabine, nella cambusa, negli scompartimenti da carico.
“Se vuoi fare uno scherzo alla Centrale e un favore a noi, chiama gli alloggi, e faremo una festicciola per la scelta del compagno. Eh?”
Helva ridacchiò. Quell’uomo era completamente diverso dai suoi rari visitatori e dai vari tecnici del Laboratorio. Era così allegro, così sicuro di sé: la proposta della festicciola per la scelta del compagno le fece piacere. E poi non era contrario ai regolamenti.
“Cencom, qui è XH-834. Collegami con gli Alloggi dei Piloti.”
“Visuale?”
“Sì, grazie.”
Sullo schermo di Helva apparvero uomini che oziavano, annoiati.
‘Qui è XH-834. Gli esploratori non assegnati vogliono farmi la cortesia di salire a bordo?”
Otto figure galvanizzate entrarono in azione, afferrando indumenti, spegnendo macchine, liberandosi da lenzuola e asciugamani.
Helva tolse il collegamento mentre Tanner ridacchiava e sedeva per attendere gli altri.
Helva si sentì emozionata: più di una attrice al momento della prima. A differenza di un’attrice, non avrebbe avuto crisi isteriche e non avrebbe lanciato vasi e barattoli di cerone. Invece controllò le sue scorte di viveri e di bevande, e servì a Tanner la prima razione della sua cambusa.
Gli esploratori venivano chiamati abitualmente ‘bracci’, in contrasto con i ‘cervelli’ delle loro navi. Subivano un addestramento rigoroso come quello dei cervelli e solo l’uno per cento dei migliori allievi delle scuole dei Mondi Centrali veniva ammesso a quei corsi. Perciò gli otto giovani che salirono a bordo della nave di Helva erano uomini straordinariamente belli, intelligenti, ben coordinati ed adattati, ansiosi di bere un po’, Helva permettendo, e tutti disposti a parlar male degli altri pur di ottenere l’abbinamento con lei.
Quell’invasione umana sconvolse Helva: era un lusso che voleva godersi per quel breve tempo che poteva concedersi.
Esaminò i giovani: l’opportunismo di Tanner la divertiva ma non l’incantava; il biondo Nordsen sembrava troppo semplice; il bruno Al-atpay aveva una specie di ostinazione che non le piaceva; l’amarezza di Mir-Anhnin faceva pensare a tenebre interiori che lei non voleva sondare, anche se lui si sforzava di incantarla. Era uno strano corteggiamento, quello… e quello sarebbe stato soltanto il primo di molti matrimoni, per lei, poiché i ‘bracci’ si ritiravano dopo settantacinque anni di servizio, o anche prima, se non avevano fortuna. Ma i cervelli, con i corpi difesi da ogni deterioramento, erano indistruttibili. In teoria, quando un ingusciato aveva pagato l’altissimo debito per il mantenimento, l’adattamento chirurgico, l’istruzione e la manutenzione, era libero di cercarsi lavoro altrove. In pratica, gli ingusciati restavano in servizio fino a quando decidevano di autodistruggersi o morivano in servizio. Helva aveva parlato ad un ingusciato che aveva trecentoventidue anni. Era rimasta così impressionata che non aveva osato rivolgergli nessuna domanda personale.
Non si parlò della scelta fino a quando Tanner non incominciò a cantare una canzoncina spaziale che parlava delle disavventure dell’ardito, ma inetto, Bitty Brawn. Un tentativo di armonia finì in una cacofonìa, e Tanner agitò le braccia per ridurre il suo coro al silenzio.
“Abbiamo bisogno di un buon primo tenore. Jennan, tu come canti?”
“Da contralto,” rispose Jennan, gaiamente.
“Se un tenore è assolutamente necessario, lo farò io,” si offrì Helva.
“Mia cara ragazza!” protestò Tanner.
“Fammi sentire il tuo ‘do’ “, rise Jennan.
Nel silenzio che seguì il chiaro, altissimo ‘do’, Jennar osservò, tranquillamente:
“Caruso avrebbe dato tutto il resto delle sue note per cantare un do come questo.”
Non impiegarono molto a scoprire tutta l’estensione della voce di Helva.
“Tanner voleva solo un buon tenore, fece Jennan, scherzando.
“E la nostra dolce signora ci fornisce una compagnia intera. Quello che otterrà questa nave andrà ben lontano!”
“Fino alla Nebulosa Testa di Cavallo?” chiese Nordsen, ripetendo l’abituale battuta in uso alla Central.
“Fino alla Nebulosa Testa di Cavallo e ritorno: e faremo ottima musica,” disse Helva, ridacchiando.
“lnsieme,” disse Jennan. “Ma sarebbe meglio che tu cantassi e io, con la mia voce, me ne stessi ad ascoltare.”
“Immaginavo di dovere ascoltare io,” disse Helva.
Jennan eseguì un ampio, complicato inchino, rivolto verso la colonna centrale nella quale si trovava Helva. E la sua preferenza si cristallizzò in quel momento e per quella ragione particolare. Jennan era l’unico dei presenti che avesse rivolto le sue parole direttamente alla presenza fisica di lei, benché sapesse che lei poteva scorgere la sua immagine dovunque si trovasse, a bordo della nave.
Durante il loro abbinamento, Jennan non avrebbe mai mancato di volgere la testa nella direzione di Helva, dovunque si trovasse. In risposta a quella personalizzazione Helva, a partire da quel momento, parlò solo a Jennan e soltanto attraverso il suo microfono centrale, anche se quello non era il sistema più efficiente.
Helva non si accorse di essersi innamorata di Jennan, quella sera. Non aveva mai provato amore né affetto, ma solo rispetto e ammirazione, e quindi non poteva riconoscere la propria reazione al calore della personalità di lui.
Come ingusciata, si considerava irraggiungibile per le emozioni legate soprattutto ai desideri fisici.
“Bene, Helva, è stato un piacere conoscerti” disse improvvisamente Tanner, mentre lei e Jennan discutevano lo stile barocco di una canzone.
”Ci vediamo nello spazio prima o poi, fortunato d’un Jennan. Grazie per la festicciola, Helva.”
“Perché ve ne andate tutti cosi presto?” chiese Helva, e si accorse solo in quel momento che lei e Jennan avevano escluso gli altri dalla discussione.
“Ha vinto il migliore,” fece Tanner, ironicamente. “Farò bene a procurarmi una registrazione di canti d’amore. Potranno servirmi con la prossima nave, se mai ne arriverà una come te.”
Helva e Jennan guardarono gli altri andarsene… ed entrambi erano un po’ confusi.
“Forse Tanner è arrivato troppo presto alle conclusioni,” fece Jennan.
Helva lo guardò. Teneva le braccia incrociate sul petto, e il suo bicchiere era vuoto. Era bello, e tutti erano belli, ma i suoi occhi erano attenti e non guardinghi, la sua bocca sorrideva facilmente, la sua voce (che attraeva particolarmente Helva) era risonante e profonda, senza accenti sgradevoli.
“Comunque dormici sopra, Helva. Chiamami domani mattina, se avrai deciso così.”
Lei lo chiamò all’ora di colazione, dopo avere comunicato alla Centrale la sua scelta. Jennan portò la sua roba a bordo, ricevette l’ordine di missione per entrambi, inserì nel lettore di lei il suo fascicolo personale, e le diede le coordinate per la loro prima missione. XH 834 divenne ufficialmente JH 834.
La loro prima missione fu noiosa ma urgente (era il Servizio Medico, quello che s’era assicurato l’opera di Helva), bisognava portare un vaccino su un sistema lontano dove infuriava un’epidemia da spore. Dovevano arrivare a Spica al più presto possibile.
Dopo lo slancio iniziale ed eccitante alla velocità massima, Helva si rese conto che non avrebbe avuto molto da fare, in quel volo. Ma lei e il suo compagno avevano molto tempo per esplorare l’uno la personalità dell’altro. Jennan, naturalmente, sapeva ciò che Helva poteva fare, come nave e come compagna, e lei sapeva ciò che poteva aspettarsi da lui. Ma Helva era ansiosa di scoprire gli aspetti umani del suo compagno, che non potevano venir ridotti in una serie di simboli. E due personalità non si potevano conoscere per mezzo di un libro: occorreva un’esperienza diretta.
“Anche mio padre era un esploratore, lo hai saputo?” cominciò Jennan, il terzo giorno di volo.
”Naturalmente.”
“Ma è ingiusto. Tu sai tutta la storia della mia famiglia, e io non so niente della tua.”
“Non ne so niente neppure io,” disse Helva. “Solo quando ho letto della tua, mi è venuto in mente che anche io dovrei avere una storia della mia famiglia, negli archivi della Centrale.”
Jennan sbuffò.
“Psicologia ingusciata!”
Helva rise.
“Sì, e sono addirittura programmata contro questo genere di curiosità. E tu faresti bene a imitarmi.”
Jennan ordinò da bere, si lasciò cadere nella poltrona antigravità di fronte a lei, e cominciò a dondolarsi pigramente.
“Helva... un nome artificiale...”
“Con un suono scandinavo.”
“Tu non sei bionda,” disse Jennan, in tono sicuro.
“Beh, ci sono anche svedesi brune.”
“E turche bionde, ed è un harem limitato a una sola persona.”
“La tua donna velata, sicuro. Ma puoi sempre rastrellare le case d’appuntamenti. . .” Helva si stupi del tono tagliente della propria voce.
“Sai,” l’interruppe Jennan, immerso in un profondo pensiero, “mio padre mi dava l’impressione di essere sposato con la sua nave, Silvia, più dì quanto fosse sposato con mia madre. lo pensavo che Silvia era mia nonna. Aveva un numero basso, e doveva essere almeno la mia trisnonna. Le parlavo per ore ed ore.”
“Che numero aveva?” chiese Helva.
“Quattrocentoventidue. Credo che adesso sia TS. Ho conosciuto Tom Burgess,
il suo compagno.”
Il padre di Jennan era morto d’un morbo planetario, lo stesso per il quale la sua nave aveva usato il vaccino allo scopo di guarire gli indigeni.
“Tom mi disse che era ancora in gamba da matti, ma era diventata dura e acida. Prova a perdere la tua dolcezza, ragazza mia, e il mio fantasma tornerà ad infestarti!” minacciò Jennan.
Helva rise. Lui la sorprese: si alzò, si avvicinò al pannello della colonna e l’accarezzò con dita tenere e leggere.
“Mi chiedo che aspetto hai,” disse sottovoce. Helva era stata messa in guardia contro la naturale curiosità degli esploratori. Non sapeva nulla di se stessa, nessuno dei due ne avrebbe mai saputo nulla.
“Scegli la forma, il colore che vuoi, e avrai comunque indovinato,” ribatté, come le suggeriva la sua preparazione.
“Vergine di Ferro... mi piacciono le bionde con lunghe trecce,” e Jennan fece il gesto di intrecciare trecce immaginarie. “Poiché sei immolata nel titanio, ti chiamerò Brunilde, mia cara,” e si inchinò.
Con una risata, Helva attaccò l’aria di Brunilde proprio mentre Spica entrava in contatto.
“Che diavolo c’è da strillare? Chi siete? E se non appartenete al Servizio Medico dei Mondi Centrali, andatevene. Qui c’è un’epidemia. Non sono ammesse visite.”
‘E’ la mia nave che canta, siamo la JH ottocentotrentaquattro dei Mondi Centrali e abbiamo il vostro vaccino. Quali sono le coordinate per l’atterraggio?”
“La tua nave canta?”
“E’ la più grande cantante dello spazio. Volete sentire qualcosa di particolare?”

JH 834 consegnò il vaccino e ricevette immediatamente l’ordine di procedere fino a Leviticus IV. Quando ci arrivarono, Jennan scopri che la voce si era sparsa, e fu costretto a difendere l’onore di JH 834.
“Smetterò di cantare,” mormorò contrita Helva, mentre ordinava un impacco per il terzo occhio nero che Jennan aveva rimediato in una settimana.
“No,” disse Jennan, a denti stretti. “Anche se dovrò farmi fare gli occhi neri da qui alla Nebulosa Testa di Cavallo per impedire che ci prendano in giro, noi saremo la nave che canta.”
Quando la ‘nave che canta’ ebbe risolto il problema di una piccola ma pericolosa banda di spacciatori di droghe nella Piccola Nube di Magellano, il titolo diventò rispettoso. La Centrale era informata di tutto, e sulla scheda di JH 834 venne perforata la dicitura ‘interesse speciale’. Erano una coppia di prim’ordine che se la cavava benissimo.
E anche Jennan e Helva si consideravano una coppia di prim’ordine, dopo l’arresto degli spacciatori di droga.
“Le droghe sono la cosa che odio di più,” osservò Jennan mentre tornavano verso la Base Centrale. “La gente riesce ad andare all’inferno abbastanza in fretta, anche senza bisogno di quell’aiuto.”
“Ed è per questo che sei diventato Esploratore? Per dirigere il traffico?”
“Scommetto che la mia risposta ufficiale è nel tuo archivio.”
“Sì, in linguaggio troppo fiorito. ‘Continuare la tradizione della mia famiglia, che si onora di avere servito per quattro generazioni’, se posso citare le tue parole.”
Jennan gemette.
“Ero proprio molto giovane, quando l’ho scritto. E non avevo ancora finito il corso d’addestramento. E dopo, ero troppo orgoglioso per non...
“Come ti ho detto, andavo a trovare mio padre a bordo di Silvia, e pensavo che lei mi tenesse d’occhio come possibile sostituto di mio padre, perché mi imbottiva di propaganda. E attaccò… a sette anni, avevo già deciso di diventare esploratore.” Alzò le spalle, come per deprecare la decisione infantile, che s’era tradotta in realtà grazie ai decisi sforzi della giovinezza.
“Davvero? Il Grande Esploratore di JS quattrocentoventidue che arriva alta Nebulosa Testa di Cavallo?”
Jennan ignorò il sarcasmo di Helva.
“Con te, magari ce la farei. Ma la propaganda di Silvia non bastava a farmi sognare un’impresa di quel genere. lo ho in mente un contributo più modesto alla storia spaziale.”
“Tanto modesto?”
“No. Pratico. Si serve la patria anche facendo la guardia a un bidone di benzina eccetera.” E si posò la mano sul cuore, con aria drammatica.
“Cacciatore di gloria!” rise Helva.
“Senti chi parla! Quella che vuole andare alla Nebulosa Testa di Cavallo! Ma non sono avido, io. Ci sarà solo un eroe come mio padre, a Parsaea, ma io vorrei essere ricordato per qualche impresa. E’ quello che vogliono tutti.”
“Tuo padre è morto mentre lasciava Parsaea, se posso farti notare i fatti. Quindi non poteva sapere di essere stato un eroe: questo impedi che la colonia di Parsaea venisse abbandonata, e offri la possibilità di scoprire le qualità antiparalitiche di Parsaea. Ma lui non lo ha mai saputo.”
“lo lo so,” disse sottovoce Jennan.
Helva si pentì delle proprie parole. Sapeva benissimo che Jennan era profondamente attaccato al ricordo di suo padre. Nel suo fascicolo era scritto che lui aveva razionaIizzato la morte di suo padre solo grazie alla soluzione positiva del Caso Parsaea.
“La realtà non è umana, Helva: ma mio padre era umano, e lo sono anch’io. E in fondo lo sei anche tu. Controlla i tuoi quadranti, ottocentotrentaquattro. In mezzo a tutti i tuoi fili c’è un cuore, un cuore umano sottosviluppato, evidentemente.”
“Scusami, Jennan,” disse lei.
Jennan esitò un momento, tese le mani e accarezzò affettuosamente la colonna.
“Se ci toglieranno dal piccolo cabotaggio, ce la faremo ad andare alla Nebulosa, eh?”


Come accadeva spesso nel Servizio Esploratori, un’ora dopo ricevettero l’ordine di cambiare rotta: non per la Testa di Cavallo, ma verso un sistema colonizzato da poco, che aveva due pianeti abitabili, uno tropicale ed uno glaciale. Il sole, che si chiamava Ravel, era diventato instabile: Io spettro si espandeva rapidamente, con le linee di assorbimento che si spostavano verso il violetto, Il calore accresciuto della stella aveva già imposto l’evacuazione del mondo più interno, Daphnis. Lo schema dello spettro indicava che presto il sole avrebbe bruciato anche Chloe. Tutte le navi che si trovavano nelle vicinanze dovevano presentarsi al quartier generale di Chloe per portare in salvo i coloni rimasti.
JH 834 si presentò e fu mandata in una zona periferica di Chloe a raccogliere i coloni che non sembravano rendersi conto delta gravità della situazione. In effetti, per la prima volta nella sua storia Chloe aveva una temperatura superiore al punto di congelamento. Poiché molti dei coloni erano fanatici religiosi stabilitisi sul freddo Chloe per darsi ad una vita di meditazioni, lo scongelamento del pianeta veniva attribuito a cause diverse dalla follia del sole.
Jennan dovette perdere tanto tempo a discutere che lui e Helva partirono con notevole ritardo verso il quarto e ultimo insediamento.
Helva scavalcò la catena di picchi altissimi che circondava e proteggeva la valle dal calore, così come in precedenza l’aveva protetta dalle furiose tempeste di neve. Il sole violento con la sua corona fiammeggiante stava incominciando a illuminare la valle quando Helva atterrò.
“Faranno meglio a sbrigarsi a salire a bordo,” disse Helva. “Il quartier generale dice che non c’è tempo da perdere.”
“Tutte donne,” disse Jennan sorpreso, mentre si avviava verso di loro. “A meno che gli uomini, su Chloe, portino gonne di pelliccia.”
“Incantale pure, ma riduci all’essenziale la perdita di tempo. E accendi la radio personale.”
Jennan avanzò sorridendo, ma quando spiegò la sua missione fu accolto con incredulità. Gemette, fra sé e sé, mentre la matriarca ripeteva le solite spiegazioni sull’aumento della temperatura del sole.
“Reverenda madre, deve esserci stato un sovraccarico sul circuito delle preghiere, e il sole sta per scoppiare. Sono venuto a prendervi per portarvi tutte quante allo spazioporto di Rosary...”
“Quella Sodoma?” La brava donna rabbrividì sdegnata a quell’idea. “La ringraziamo per il suo avvertimento, ma non desideriamo lasciare il nostro chiostro. Dobbiamo proseguire le meditazioni del mattino che sono state interrotte...”
“E resteranno interrotte per sempre, quando il sole incomincerà ad arrostirvi. Dovete venire via subito,” disse Jennan, in tono fermo.
“Signora,” disse Helva, pensando che forse una voce femminile poteva avere più autorità in quel caso, del fascino molto maschile di Jennan.
“Chi ha parlato?” Gridò la monaca, sussultando nell’udire quella voce incorporea.
“lo, Helva, la nave. Sotto la mia protezione lei e le sue sorelle nella fede potranno stare al sicuro, e non verranno profanate dalla vicinanza di un maschio. Io vi veglierò tutte e vi porterò in un luogo che vi attende.”
La matriarca sbirciò cautamente oltre il portello aperto.
“Poiché solo i Mondi Centrali possono usare navi come questa, ammetto che lei non sta scherzando, giovanotto. Ma qui non siamo in pericolo.”
“A Rosary, la temperatura è quaranta gradi,” disse Helva. “E non appena i raggi del sole penetreranno in questa valle, anche qui faranno quaranta gradi, ed entro oggi saliranno a novanta. Vedo che il chiostro è fatto di legno e di muschio. Muschio secco. Verso mezzogiorno prenderà fuoco.”
La luce del sole cominciava a insinuarsi nella valle attraverso i picchi, e i raggi riscaldarono il gruppo irrequieto che stava dietro la matriarca. Parecchie donne slacciarono i colletti delle pesanti tuniche.
“Jennan,” disse Helva, sulla linea privata, “non abbiamo tempo da perdere.”
“Non posso abbandonarle, Helva. Molte di quelle ragazze non hanno passato i vent’anni.”
“E sono anche carine. Non mi meraviglia che la matriarca non voglia salire a bordo.”
“Helva.”
“Sia fatta la volontà del Signore,” disse decisa la matriarca e voltò le spalle ai salvatori.
“Morire bruciate?” gridò Jennan mentre lei ritornava in mezzo alle discepole mormoranti.
“Vogliono fare le martiri? Sì accomodino, Jennan,” fece Helva, in tono spassionato. “Noi dobbiamo andarcene, e subito.”
“Come posso andarmene, Helva?”
“Parsaea?” Fece Helva, mentre lui avanzava d’un passo, come per afferrare una delle donne. “Non puoi trascinarle tutte a bordo, e non abbiamo tempo di discutere. Sali, Jennan, o dovrò farti rapporto.”
“Moriranno tutte,” mormorò desolato Jennan, mentre si voltava per risalire.
“Non possiamo rischiare più di cosi,” disse Helva. “Avremo giusto il tempo di farcela. Il Laboratorio riferisce che l’evoluzione dello spettro ha subito un’accelerazione.”
Jennan era già nella camera stagna quando una delle donne più giovani si lanciò urlando per afferrare il portello che si chiudeva. Tutte le altre la seguirono. Nell’interno non c’era spazio sufficiente per tutte. Jennan porse le tute spaziali alle tre che avrebbero dovuto restare con lui nella camera stagna; e perse molto tempo prezioso per spiegare alla matriarca che doveva indossare la tuta perché la camera stagna non aveva impianti ad ossigeno né di raffreddamento.
“Ci resteremo,” disse Helva in tono cupo a Jennan, sulla linea privata. “Abbiamo perduto altri diciotto minuti, e sono troppo carica per raggiungere la velocità massima... ma devo raggiungerla1 se devo evitare l’ondata di calore.”
“Puoi decollare? Noi abbiamo addosso le tute.”
“Decollare? Sì,” disse lei. “Ma in quanto a correre...”
Jennan sentì che la nave si sollevava a fatica, quasi con torpore. Helva protrasse la spinta iniziale il più a lungo possibile, anche se la gravità schiacciava dolorosamente le sue passeggere... e due di esse morirono. Doveva salvarne il più possibile. L’unico che le stava a cuore era Jennan, tremava per lui. Priva d’aria e di raffreddamento, protetta da un solo strato di metallo, la camera stagna non sarebbe stata un ricettacolo sicuro per quei quattro nonostante le tute, erano tute normali, non fabbricate per sopportare il calore eccessivo al quale fra poco sarebbe stata esposta la nave..
Helva accelerò al massimo, ma l’incredibile ondata di calore emessa dal sole li raggiunse a metà strada.
Helva non badò alle grida, ai gemiti, alle suppliche e alle preghiere nella cabina. Ascoltava solo il respiro torturato di Jennan, la pulsazione difettosa del sistema di purificazione della sua tuta, il risucchio dell’impianto di raffreddamento sovraccarico. Ascoltò impotente, le urla isteriche delle sue tre compagne, prese da quel calore tremendo. Jennan cercò invano di calmarle, di spiegare che fra poco sarebbero state al sicuro, che dovevano sopportare quel calore ancora per un po’ ... Scatenate dal terrore e dalla sofferenza, le tre donne cercarono di colpirlo. Un braccio s’impigliò nei fili del generatore d’energia della tuta di lui: uno dei fili, indebolito dal calore e dal peso del braccio, si ruppe.
Nonostante tutti i poteri di cui disponeva, Helva non poté far nulla. Vide Jennan cercare di respirare, volgere disperatamente la testa verso di lei, e morire.
Solo il ferreo condizionamento impedì ad Helva di volgersi e di precipitarsi nel cuore del sole che esplodeva.
Stordita, raggiunse il convoglio dei profughi, e trasferì le passeggere ustionate e prostrate sul trasporto.
“Terrò a bordo il corpo del mio esploratore e procederò alla base più prossima per seppellirlo,” riferì cupamente alla Centrale.
“Ti forniremo la scorta,” fu la risposta.
“Non ho bisogno di scorta.”
“Ti forniremo la scorta, XH-834,” le risposero seccamente. Sentire che nella sua sigla non c’era più l’iniziale di Jennan la stordì al punto che non riuscì a protestare. Attese stordita accanto al trasporto, fino a quando i suoi schermi le mostrarono altre due navi-cervello che si avvicinavano; il piccolo corteo sfrecciò verso la Base Centrale.
“834? La nave che canta?”
“Non so più cantare.”
“Il tuo esploratore era Jennan.”
“Non voglio parlare.”
“lo sono la Quattrocentoventidue.”
“Silvia?”
“Silvia è morta molto tempo fa. lo sono la Quattrocentoventidue. Meglio nota come MS,” rispose seccamente la nave. “Il nostro compagno è AH-seicentoquaranta, ma Henry non ci ascolta. E’ meglio: lui non ti capirebbe, se volessi fuggire. Ma io posso fermarlo, se tentasse di fermarti”
“Fuggire?” Quella parola strappò Helva all’apatia.
“Certo. Sei giovane. Hai energia per anni. Altre navi sono fuggite. La Settecentotrentadue fuggì vent’anni fa, dopo aver perduto il suo esploratore in una missione ad una nana bianca. Da allora, nessuno l’ha più vista.”
“Non ho mai sentito parlare di...”
“Siamo condizionati contro queste cose, e non ne parlano certo a scuola, mia cara,” disse la Quattrocentoventidue.
“Rompere il condizionamento?” gridò Helva, pensando con desiderio al sole esplosivo che s’erano lasciato alle spalle.
“Non credo che sarebbe difficile per te, in questo momento,” disse la 422, con la voce ora priva di cinismo. “Le stelle sono là, e ti chiamano.”
“Sola?” Gridò Helva.
“Sola” confermò seccamente la 422.
Sola, nello spazio e nel tempo. Anche la Nebulosa Testa di Cavallo non sarebbe stata troppo lontana. Sola, con cento anni da vivere, con i suoi ricordi… e nient’altro.
“Ne valeva la pena a Parsaea?” chiese sottovoce.
“Parsaea?” ripetè la 422, stupita. “Con suo padre? Sì: eravamo a Parsaea, quando c’era bisogno di noi. Come te... e suo figlio… a Chloe. Quando c’era bisogno di voi.”
“Ma io ho bisogno di lui. Chi colmerà questo vuoto?” chiese Helva.

“Ottocentotrentaquattro” disse la 422, dopo un giorno di volo silenzioso “La Centrale vuole il tuo rapporto. C’è un sostituto che ti aspetta alla Base di Regulus. Cambiamo rotta.”
“<Un sostituto?> Non era quello di cui aveva bisogno… un sostituto che non avrebbe potuto riempire il vuoto lasciato da Jennan. Per un istinto atavico, Helva voleva un po’ di tempo per piangerlo.
“Oh, niente è impossibile, se sei una buona nave,” osservò filosofìcamente la 422. “E ne hai bisogno. Tanto prima, tanto meglio.”
“Li hai avvertiti che non sarei fuggita, vero?” fece Helva.
“Il momento è passato per te, come è passato per me, dopo Parsaea, e prima ancora dopo Glen Arthur e Betelgeuse.”
“Siamo condizionati per continuare, no? Non possiamo fuggire. Volevi mettermi alla prova.”
“Dovevo farlo. Ordini. Neppure il Servizio Psichiatrico sa perché succedono queste cose. La Centrale è preoccupata, figliola, e anche le navi tue sorelle. lo ho chiesto di scortarti. Non... non voglio perdervi tutti e due.”
Nella sua depressione, Helva provò un senso di gratitudine per il rude affetto di Silvia.
“Tutti abbiamo conosciuto questo dolore, Helva. Non è una consolazione... ma se non soffrissimo per la perdita dei nostri esploratori, saremmo soltanto macchine.”
Helva guardò la forma immobile di Jennan stesa davanti a lei nel suo sudario, e le parve di sentire l’eco della sua voce.
“Silvia! Non ho potuto aiutarlo!” gridò, disperata.
“Si, cara, lo so,” mormorò dolcemente la 422. Poi fu il silenzio.
Le tre navi procedettero, senza parlare, verso la grande Base di Regulus. Helva ruppe il silenzio solo per rispondere alle istruzioni per l’atterraggio ed alle condoglianze ufficiali.
Le tre navi si posarono simultaneamente accanto al luogo in cui i giganteschi alberi azzurri di Regulus facevano la guardia al piccolo cimitero dei Caduti in Servizio. Tutto il personale della base arrivò, si dispose da Helva fino al cimitero. La scorta d’onore entrò nella cabina, depose con reverenza il cadavere sulla bara a ruote, lo copri con la bandiera azzurra e stellata. Helva segui con lo sguardo il piccolo corteo che si allontanava.
Poi, quando fu pronunciata la semplice orazione funebre, e gli aerei si lanciarono in picchiata per rendere omaggio alla tomba ancora aperta, Helva ritrovò la voce per pronunciare il suo addio.
Dapprima appena udibili, le battute di un antico canto di requiem si fecero sempre più elevate e vibranti, fino a quando lo spazio stesso rimandò l’eco del canto.





[Modificato da auroraageno 09/09/2011 20:33]
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