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LA NAVE CHE CANTAVA - romanzo di fantascienza - di Anne McCaffrey

Ultimo Aggiornamento: 09/09/2011 20:33
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07/09/2011 18:51

LA NAVE CHE PIANGEVA - 2







Con occhi che non vedevano ciò che guardavano, Helva assistette al rompersi delle file del personale della Base di Regulus, dopo il funerale di Jennan. Mai più, giurò, mai più sarebbe stata la nave che cantava. Quella parte di lei era morta con Jennan.
lmpassibile, seguì con lo sguardo le figure che tornavano a gruppi verso gli alloggiamenti… alcune, passando, alzarono lo sguardo verso di lei. Ma lei non interpretò quegli guardi. Non aveva nessun posto dove andare, e non voleva allontanarsi dalla tomba del suo compagno.
‘Non può finire così,’ pensò sopraffatta dall’angoscia.
‘Ma come posso continuare, adesso?’
“XH-Ottocentotrentaquattro, Theoda di Medea chiede permesso di entrare,” disse una voce, alla base del suo ascensore.
“Permesso accordato,” disse automaticamente Helva. Era così assorta nel suo dolore che quando l’ascensore depose nella camera stagna la sottile figura femminile, Helva aveva dimenticato di averle accordato il permesso. La donna avanzò verso la colonna centrale, dove Helva stava racchiusa nel suo guscio. In mano stringeva una bobina di ordini.
“Bene, inseriscila” scattò Helva, vedendo che la donna non si muoveva.
“Dove? lo non sono un esploratore. Il nastro spiega la missione, ma...”
“Nel quadrante nord-ovest dei pannello principale: c’è una fenditura azzurra. Se non conosci gli ordini e se sei autorizzata ad ascoltarli, premi il pulsante giallo. Accomodati, prego.”
Spassionatamente, senza pensare che avrebbe potuto essere più gentile con Theoda, Helva la guardò inserire il nastro e poi sedere nella poltroncina del pilota, mentre il nastro cominciava a svolgersi.
“XH-Ottocentotrentaquattro, procedi in compagnia della fìsioterapista Theoda di Medea fino a NDE, Sistema Lyra Secondo, Annigoni Quarto, e fornisci tutto l’aiuto possibile al programma di rieducazione dei superstiti dell’epidemia spazìale di Van Gogh. Urgenza! Urgenza!”
Helva fece scattare il segnale di stop e chiamò il Controllo della Centrale.
“La fisioterapista Theoda è il mio sostituto?”
“No, XH-Ottoceritotrentaquattro, Theoda non fa parte del Servizio, il tuo sostituto è stato trattenuto. Procedere con urgenza, ripeto urgenza, verso Annigoni.”
“Chiedo permesso per decollo immediato.”
La procedura abituale del decollo si svolse senza che Helva se ne rendesse conto. Non voleva lasciare Regulus, ma aveva ricevuto gli ordini, e aveva sentito ripetere l’imperioso comando ‘Urgenza’.
“Campo sgombro per decollo. Procedere.
E... XH-Ottocentotrentaquattro...”
“Sì?”
“Buona fortuna.”
“Ricevuto,” disse Helva, ignorando quell’addio non ufficiale. Spiegò a Theoda come doveva allacciare le cinture di sicurezza. Poi si sollevò, inquadrando nello schermo posteriore il piccolo cimitero.

Ben presto si accorse di accelerare al massimo, perché voleva finire in fretta quella missione e ritornare alla base di Regulus, da Jennan... Regolò severamente l’accelerazione perché non danneggiasse Theoda, poi le disse che poteva alzarsi dalla poltroncina.
Theoda si liberò, poi si guardò intorno, incerta.
“Mi hanno mandata qui in fretta e furia, e ho già viaggiato ventiquattro ore,” disse, guardandosi l’uniforme gualcita e macchiata.
“Gli alloggi sono a poppa rispetto alla colonna centrale.” Con un sussulto, Helva si rese conto che Theoda avrebbe abitato lo spazio lasciato vuoto da Jennan. Istintivamente, guardò nella cabina: qualcuno aveva portato via gli effetti personali di Jennan. Non le restava alcun ricordo della sua breve felicità. La sua disperazione aumentò… era ingiusto. E doveva sopportare anche quella femmina buona a nulla...
Theoda entrò nella cabina, gettò la borsa sulla cuccetta. Helva, educatamente, smise di guardare. Cercò di dirsi che il rumore familiare della doccia era causato da Jennan… ma le abitudini della sua nuova passeggera erano completamente diverse.
Perduta nel suo dolore, si accorse solo lentamente del silenzio che regnava a bordo: guardò, discretamente, e vide Theoda distesa sulla cuccetta, nel sonno pesante dello sfinimento. Sembrava più vecchia di quanto le fosse sembrata a prima vista e Helva si rese conto che la sua goffaggine era dovuta alla stanchezza. Il viso era segnato dal dolore, oltre che dall’esaurimento. E gli occhi chiusi erano cerchiati di nero, la bocca era incurvata agli angoli dalla familiarità con il dolore. Le lunghe dita si agitavano nel riflesso di un sogno inquietante. Helva si accorse delle cicatrici su quelle mani, insolite in un’epoca in cui il lavoro manuale più pesante consisteva nel premere pulsanti.
Poi tornò a pensare a Jennan, e la disperazione la riprese.
“Per quanto ho dormito?” La voce di Theoda spezzò la meditazione di Helva; poi la donna entrò nella cabina di prua. “Quanto durerà ancora questo viaggio?”
“Hai dormito diciotto ore. Secondo il nastro, ce ne vogliono quarantanove per raggiungere l’orbita Annigoni.”
“Oh! C’è una dispensa?”
“Primo scompartimento a destra.”
“Ehm... hai bisogno di qualcosa?” chiese Theoda, avviandosi.
“Non ho bisogno di nulla per cento anni,” disse Helva, freddamente.
“Scusami. So molto poco di voi navi,” disse Theoda. “Non ho mai avuto un trattamento preferenziale, prima d’ora” e sorrise, timidamente.
“Sei di Medea?” chiese Helva, con riluttante cortesia.
“Si, di Medea,” rispose Theoda. Posò sul tavolo le razioni, con violenza non necessaria: la sua reazione faceva pensare ad un conflitto interiore, ma Helva, sul momento, non ricordava nulla a proposito di Medea e concluse che il conflitto di Theoda doveva essere personale.
“Naturalmente, ho già visto navi di questo tipo. Noi di Medea abbiamo motivo di esservi grati... ma non ero mai stata a bordo di una di voi.” Theoda parlava nervosamente, mentre frugava con lo sguardo fra le provviste e le rimetteva in ordine. “Ti piace il tuo lavoro? Deve dare molte soddisfazioni.”
Quelle parole innocenti caddero come scintille ardenti sul dolore di Helva che cominciò rapidamente a parlare, per impedire all’altra di dire ancora qualcosa del genere. “Non lo faccio da molto tempo,” disse. “Come fisioterapista dovresti sapere qual è la nostra origine.”
“Oh, sì, certo. Un difetto di nascita.” Theoda era imbarazzata come se avesse detto qualcosa di volgare. “Mi sembra orribile: tu non avevi altra scelta.”
Helva si senti improvvisamente superiore.
“All’inizio, forse no. Ma adesso sarebbe molto difficile rinunciare a volare nello spazio e accontentarmi di camminare.”
Theoda arrossi al tono sprezzante dell’ultima parola.
“Questo lo lascio fare al mio compagno,” disse Helva, rabbrividendo al pensiero di Jennan
“Ho sentito dire che c’è anche una nave che canta,” disse Theoda.
“Si, l’ho sentito dire anch’io” fece Helva. Tutto le ricordava la perdita di Jennan.
“Per quanto vivete?”
“Per quanto tempo vogliamo”
“Cioé... Voglio dire, chi è la nave più vecchia?”
“Uno della serie Duecento è ancora in servizio.”
“Allora tu non sei vecchia, se sei una Ottocento.”
“No.”
“lo sono vecchia, invece,” disse Theoda, fissando la scatoletta di viveri ormai vuota che teneva in mano. “E credo di essere ormai alla fine.” Ma nella sua voce non c’era rimpianto, e neppure rassegnazione.
Helva si rese conto che anche quella donna soffriva.
“Quante ore mancano all’arrivo?”
“Quarantasette”
“Devo studiare” disse Theoda, bruscamente, frugando nel bagaglio per trovare il visore e le bobine.
“Di che si tratta?” chiese Helva.
“Van Gogh di Lyra Secondo è stato colpito da un’epidemia simile a quella che colpì Medea centoventicinque anni fa,” spiegò Theoda.
Helva comprese perché Theoda aveva visto le navi del Servizio. Controllò il viso della donna e scorse le minuscole rughe che tradivano l’età avanzata. Theoda viveva senza dubbio su Medea, all’epoca dell’epidemia, il morbo aveva colpito una zona densamente popolata, e s’era diffuso con violenza terribile, in pochi giorni, su tutti i pianeti, causando un numero altissimo di morti. Alcuni, inspiegabilmente non erano neppure stati colpiti, il morbo si diffondeva attraverso l’aria: le spore colpivano gli animali, oltre agli esseri umani.
Poi, di colpo, l’epidemia era cessata: Medea era rimasta decimata nel giro di una settimana, e i superstiti (quelli curiosamente immuni e quelli che erano riusciti a superare la febbre ed i dolori) avevano impiegato tutte le loro energie per cercare di scoprire la causa del morbo e una possibile cura.
Tra i suoi ricordi, Helva trovò altre sette epidemie diverse ma egualmente inspiegabili, alcune delle quali erano state trattate con un certo successo. La peggiore aveva colpito il pianeta Clematis, e aveva eliminato il 93 per cento degli esseri umani prima che arrivassero gli aiuti. Clematis era stata posta in quarantena perpetua.
“Così, tu hai un’esperienza acquisita nell’epidemia di Medea, che potrebbe aiutare la gente di Van Gogh?” chiese Helva.
“Infatti,” disse Theoda, con un brivido. Prese con aria decisa il visore, ed Helva capì che non era il caso di discutere. Theoda soffriva ancora, per un ricordo doloroso del passato, eppure era vecchia, ed Helva non riusciva a immaginare un futuro in cui il ricordo di Jennan non avrebbe arrecato dolore a lei...
Annigoni comparve sullo schermo mentre il cronometro della nave indicava 67 ore dalla partenza ed Helva dovette subito rispondere alla chiamata di un monitore in orbita.
“Hai a bordo la fisioterapista Theoda?” Le chiesero, appena si fu identificata.
“Sì.”
“Dovresti atterrare il più possibile vicino alla città-ospedale di Erfar. Ma non ci sono spazioporti nei dintorni: abbiamo preparato un prato. Sei in grado di controllare i tuoi tubi di scarico?”
Helva confermò, seccamente. Le diedero le coordinate, e non le fu difficile posarsi sul piccolo prato. Una strada bianca, polverosa, conduceva ad un complesso di palazzi bianchi, lontani mezzo chilometro. Un veicolo spuntò da quella direzione.
“Theoda,” disse Helva, mentre attendevano che il veicolo arrivasse, “sotto il pannello dei comandi, in uno scomparto, c’è un pulsante grigio. Fissalo alla tuta, e potrai restare in comunicazione con me. Se riuscirai a far girare la parte superiore del bottone in senso orario, possiamo stabilire un contatto nei due sensi. Mi farebbe piacere essere informata dei problemi che affronterai.”
“Ma certamente.”
“E se farai ruotare la metà inferiore del pulsante, potrò anche vedere.”
“Bene,” mormorò Theoda, mentre osservava il pulsante prima di fissarselo alla tunica.
Quando la macchina si fermò, Theoda entrò nell’ascensore.
“Oh, Helva, grazie per il viaggio. E scusami, se non sono stata di molta compagnia.”
“Non lo sono stata neppure io. Buona fortuna.”
Mentre Theoda scendeva, Helva pensò che era una menzogna: si erano fatte compagnia, invece, ciascuna chiusa nella propria infelicità. Lei non aveva pensato che il dolore era un ospite molto frequente, nell’universo, e che la sua incapacità di aiutare Jennan non era stata un’eccezione. Tutte le navi sue sorelle avevano avuto esperienze di quel genere ed erano ancora in servizio.
“Nessuna di loro ha mai amato il suo compagno come io ho amato Jennan,” si disse, tristemente.
“Chiedo il permesso di salire a bordo,” disse una voce rude, al citofono dell’ascensore.
“Identificazione?”
“Ufficiale Medico Onro, distaccato alla Base di Regulus. Ho bisogno di usare il suo raggio.”
“Permesso accordato,” disse Helva, dopo avere controllato rapidamente lo schedario degli ufficiali medici e dopo aver trovato il nome di Onro.
Onro entrò nella camera stagna e, dopo un rapido saluto rivolto alla colonna, si lasciò cadere sulla poltroncina del pilota e premette il pulsante che attivava il raggio.
“Non avrebbe mica un caffé?” gracchiò, girando la poItroncina e lanciandosi verso la cambusa.
“Si serva pure,” mormorò Helva, che non era pronta a quell’energia, dopo i giorni trascorsi in compagnia di Theoda.
Onro si lanciò nel corridoio, apri la cambusa, rovesciando in giro i barattoli.
“Il caffé dovrebbe essere ancora nel solito posto, sul terzo scaffale nell’armadio di destra,” osservò Helva, in tono asciutto. “Mi scusi: un barattolo è appena caduto sul pavimento”.
Onro lo riprese, ma batté la testa contro lo sportello. Helva si aspettava una serie di invettive, ma l’uomo non disse nulla. Richiuse con cura la cambusa, staccò il sigillo del riscaldatore e ritornò nella cabina centrale, sedette di nuovo, rimase ad osservare il quadrante del raggio che si scaldava lentamente. E intanto inghiottiva il caffè fumante. Lentamente, si scongelò.
“Siamo abitudinari, eh, XH? Sognavo un caffè da diciotto giorni e da diciotto notti. Quel surrogato che ci rifilano mi fa dormire. Il caffè non è potente come la benzedrina, ma in compenso non fa male. Eh, eccoli. Questi maledetti raggi ci mettono sempre più tempo.
“Base Centrale Regulus.”
“Qui XH-834 a rapporto,” annunciò Onro.
“Chi?” Esclamò una voce.
“Parla Onro.”
“Si, signore, non avevo riconosciuto la sua voce.”
“Credeva che Helva avesse il raffreddore?”
“No, signore.., non era questo che pensavo.”
“Bene, inserisca questi dati nel calcolatore, e lo faccia lavorare, io sono troppo stanco. E controlli anche i miei dati. Non ho dormito molto in questi ultimi tempi.” E si girò verso Helva. “Bella fortuna ho avuto, eh? E’ la mia prima licenza dopo tre anni galattici, e appena arrivo a casa mi trovo alle prese con l’epidemia.” E tornò a voltarsi verso l’apparecchio. “Ecco qua,” e dettò rapidamente i dati. “Adesso c’è un verbale per i controlli.”
“Morbo non identificabile su scala Orson come virus conosciuto o affine a quelli conosciuti. Pazienti visitati e in perfetta salute possono presentare i sintomi entro dieci ore: completa deteriorazione del controllo muscolare, febbre altissima, fortissimi dolori alla colonna vertebrale entro tre giorni. Morte causata da: 1) emorragia cerebrale 2) collasso cardiocircolatorio 3) collasso polmonare; 4) soffocamento; oppure, quando l’assistenza medica arriva in ritardo; 5) inazione. Tutti i superstiti incapaci di qualunque coordinazione muscolare. Nessuna lesione cerebrale... ma sono come morti.”
“Menomazione dell’intelletto?” chiese il Controllo Centrale.
“Impossibile accertarlo: si può sperare solo che l’intelletto non sia stato leso.”
Helva pensò che le vittime dell’epidemia non erano state derubate del loro corpo dalla malattia, come lei lo era stata dai suoi difetti di nascita.
“Resta in attesa del rapporto?” chiese il Controllo Centrale.
“Ci vorrà molto?”
“Perché non dorme un po’?” suggerì gentilmente Helva. “Di solito, i rapporti arrivano quasi subito,” aggiunse mentre inviava di nascosto un segnale alla Centrale.
“Non ci vorrà molto, Ufficiale Medico Onro,” disse la Centrale, obbedendo al messaggio di Helva.
“Così si farà venire un crampo, Onro,” disse Helva, quando vide l’uomo sistemarsi sulla poltrona del pilota. “Si sdrai sul letto del pilota. La chiamerò io appena arriverà il rapporto.”
“Mi raccomando, o le stacco il pannello di sicurezza” scattò Onro, mentre si avviava barcollando verso la cuccetta.
“Certo.” Helva lo guardò crollare e addormentarsi immediatamente.
Subito Theoda stabilì il contatto con lei, auditivo e visivo. Theoda era china su di un letto, e massaggiava un corpo immobile di donna. Muscoli flaccidi, mancanza di riflessi, occhi aperti, bocca semiaperta, il collo si mosse appena, quando la paziente emise una specie di gorgoglio incoerente.
“Le estremità sono prive di sensibilità,” disse la voce d’una persona fuoricampo. “C’è qualche reazione al dolore al torso e alla faccia, ma non ne siamo del tutto sicuri. La paziente, se anche ci capisce, non può comunicarcelo.”
Helva notò, augurandosi che lo notasse anche Theoda, un lieve movimento delle palpebre socchiuse, un agitarsi appena percettibile delle narici.
“Theoda” disse sottovoce. Theoda si raddrizzò sorpresa.
“Helva?”
“Sì. Nel mio campo limitato di visione, ho visto un lieve movimento delle palpebre e delle narici. Se la paralisi è totale come mi ha detto l’Ufficiale Medico Onro, quei movimenti sono probabilmente gli unici che la paziente può controllare. Prega uno dei presenti di osservare l’occhio destro, un altro l’occhio sinistro, e tu osserva le narici. Stabilisci uno schema di risposte e spiegalo alla paziente... così potrai vedere se ti capisce.”
“E’ la nave?” chiese irritato qualcuno fuori campo.
“Si, è la XH-834 che mi ha portata qui”
“Oh,” fu la risposta. “Quella che canta. Credevo che fosse JG-834.”
“Proviamo a seguire il suggerimento di Helva,” disse Theoda, con fermezza. “La sua vista è molto più acuta della nostra, e la sua capacità di concentrazione è superiore.”
Poi si rivolse alla paziente e disse, con voce chiara: “Se può sentirmi, abbassi la palpebra destra.”
Per un secondo interminabile, nulla si mosse: poi la palpebra destra si abbassò, appena percettibilmente.
“Per dimostrare che non è stato un movimento involontario, cerchi di dilatare due volte le narici.”
Lentamente, Helva captò il movimento delle narici: e cosa anche più importante, notò minuscole gocce di sudore sul labbro superiore e sulla fronte della paziente. Subito lo riferì a Theoda.
“Deve essere uno sforzo terribile, per una mente prigioniera,” disse Theoda, con infinita compassione. Posò le dita sulla fronte sudata. “Ora si riposi, mia cara. La lasceremo tranquilla, ma adesso abbiamo una speranza.”
Solo Helva notò che Theoda aveva incurvato disperata le spalle, prima di avviarsi verso il letto vicino.
Helva l’accompagnò per tutto il giro, dal reparto donne al reparto uomini fino al reparto pediatria e alla nursery. Il morbo aveva colpito anche bambini di poche settimane.
“C’è da sperare che i tessuti di organismi così giovani siano stati lesi meno gravemente, e possano rigenerarsi” disse una delle guide di Theoda, con un gesto che indicava le culle dei cinquanta piccini raccolti in quella sala.
Theoda si chinò, sollevò un bimbo di tre mesi, biondo e roseo. La carne era soda, il colorito bruno: gli pizzicò i muscoli pettorali, con forza. Il piccino spalancò gli occhi e la bocca, emise una specie di gemito. Theoda se lo strinse al petto, cullandolo come per scusarsi. Helva comprese ciò che aveva fatto Theoda.
Scoppiò una discussione, quando Theoda tornò a deporre il piccino nella culla, cominciò a muovergli le braccia e le gambe imitando i movimenti che stanno alla base della locomozione indipendente.
“Lo faremo con tutti i bambini e con tutti gli adulti, per un’ora ogni mattina e un’ora ogni pomeriggio. Se sarà necessario, arruoleremo come terapisti tutti gli adulti e tutti gli adolescenti di Annigoni. Se dobbiamo ristabilire il contatto fra l’intelletto e i nervi, dobbiamo ricominciare dall’inizio delle funzioni cerebrali. Dobbiamo affrettarci. Questi poveri prigionieri hanno atteso anche troppo di uscire dai loro inferni.”
“Ma... su cosa fonda le sue conclusioni, fisioterapista? Lei ha ammesso che l’epidemia di Medea era piuttosto diversa da questa...”
“Non posso dire nulla, sul momento. Ma l’esperienza mi dice che ho ragione.”
“Esperienza? Vuol dire intuizione, forse,” continuò impettito l’uomo. “E noi non possiamo, per la sua intuizione, arruolare a forza i cittadini…”
“Non ha visto il sudore sul viso di quella donna? Lo sforzo che le è costato abbassare una palpebra?” ribatté sdegnata Theoda. “Crede che i nostri sforzi sarebbero eccessivi, in confronto?”
“Non deve dire così!” rispose qualcuno, piccato. “Annigoni ha dato ospitalità ai superstiti senza preoccuparsi dei pericoli d’infezione...”
“Sciocchezze,” disse Theoda. “Le vostre navi si sono posate su Van Gogh solo quando siete stati sicuri che il pericolo di contagio era passato. E adesso non c’è nessun pericolo. Ritornerò alla nave e mi metterò in contatto con il Controllo Centrale. Mi farò dare l’autorizzazione necessaria.” Girò su se stessa, voltandosi in modo che Helva poté vedere le infermiere in rispettosa attesa. “Ma se c’è qualcuna, tra voi, che ama i bambini, e si fida dell’intuito femminile, faccia come dico, anche senza autorizzazione. Non c’è niente da perdere tutto da guadagnare.”
Theoda usci precipitosamente dall’ospedale, senza ascoltare le proteste dei funzionari. Risalì in macchina e si fece riportare alla nave. Il suo tono terribile azzittì il pilota; le sue dita si agitavano, nervose... Poi toccò il pulsante, e interruppe bruscamente il contatto.
Helva accese gli schermi esterni e inquadrò la macchina che correva verso di lei. Theoda arrivò e scese, ma non entrò nell’ascensore. Helva riuscì a vedere che stava camminando avanti e indietro. Onro continuava a dormire. Helva aspettava.
“Chiedo il permesso di salire a bordo,” disse finalmente Theoda, a bassa voce.
“Permesso accordato.”
Theoda entrò nella cabina centrale, incespicando. Si lasciò cadere nella poltrona del pilota, si appoggiò al pannello e nascose la faccia fra le mani.
“Hai visto, Helva?” mormorò. “Hai visto? Quella gente è così da sei settimane! Muovere una palpebra, per loro, è come sollevare una tonnellata. Quanti potranno uscirne sani di mente?”
“Hanno una nuova speranza, Theoda. E non dimenticare che, se stabilisci l’integrità dell’intelletto, possono fare a meno dei corpi. Non è poi tanto orribile, sai,” ricordò Helva alla terapista.
Theoda alzò la testa, si voltò a guardare sbalordita il pannello che nascondeva il corpo di Helva.
“Naturalmente. E tu sei un ottimo esempio.” Poi scosse il capo. “No, Helva. Una cosa è crescere così, ma esserci costretti...”
“I più giovani non rimarrebbero traumatizzati. E ci sono molti vantaggi. Per esempio, hai visto come sono riuscita a seguire la tua visita...”
“Ma dopo avere camminato, toccato, odorato, riso, pianto...”
“Avere pianto...” ansimò Helva. “Potere piangere. Oh, sì!” Una stretta insopportabile le serrò la mente.
“Helva... io... all’ospedale... voglio dire, ho saputo che tu... Mi dispiace, ma ero così assorta nel mio problema che non mi sono resa conto che la nave che cantava eri tu e che avevi...”
“E io non ho ricordato che su Medea il virus non si limitava a isolare l’intelletto dal corpo: lo distruggeva, lasciando solo un guscio vuoto...” Theoda distolse lo sguardo.
“Quel bambino. Quel povero bambino.”
“Controllo Centrale a XH-834. Mi ricevi?”
Theoda, scossa da quella voce, sussultò.
“XH-834, ti ricevo.”
“Preparati a registrare il rapporto del calcolatore richiesto dall’ufficiale medico Onro.”
Helva attivò il registratore.
“Verbale?” chiese Theoda, con un sussurro.
“Verbale,” disse Helva al Controllo.
“Non risulta correlazione fra età, statura fisica, condizioni di salute, gruppo etnico, gruppo sanguigno, struttura di tessuti, dieta, ubicazione, anamnesi. Morbo epidemico imprevedibile. Nessuna correlazione fra muscoli, ossa, tessuti, sangue, saliva, orina, midollo nelle autopsie. Operazione, negativo. Cure mediche, negativo. Possibile terapia.”
“Ecco!” gridò Theoda, trionfante, balzando in piedi. “Terapia è l’unico positivo.”
“E’ solo possibile.”
“Ma è l’unico fattore positivo! E sono sicura che è la ristrutturazione.”
“Ristrutturazione?”
“Si. E’ una terapia bizzarra, e non sempre dà risultati, ma in questo caso è perché l’intelletto rifiuta di reagire, per la disperazione,” scattò Theoda, in tono sicuro. “Essere prigionieri, incapaci persino di comunicare... è orribile, non è vero? Oh, cosa sto dicendo?” disse, volgendosi inorridita verso Helva.
“Hai ragione,” la rassicurò Helva, divertita. “Sarebbe intollerabile, per me, non poter più controllare elettronicamente le mie sinapsi. Impazzirei, pensando di avere navigato fra le stelle, parlato a distanza di anni-luce.”
Theoda ricominciò a camminare avanti e indietro. “Ma speri davvero di convincere quegli scettici a reclutare i collaboratori necessari sulla base del rapporto del calcolatore?” le chiese Helva.
“La terapia era l’unico fattore positivo,” insistette Theoda, ostinata.
“Era solo possibile. Non intendo contraddirti: volevo indicarti quale sarà la loro reazione” aggiunse, quando vide Theoda che stava per protestare. “Io sono convinta: loro no, e non sarebbe la prima volta che i buoni samaritani preferiscono dormire sugli allori, convinti di avere fatto tutto il possibile.”
Theoda strinse le labbra.
“Sono certa che si può salvare quella gente... Almeno in parte.”
“Perché? Voglio dire, perché sei certa che la ristrutturazione servirà?”
“E’ una vecchia tecnica, usata per correggere difetti prenatali e gravi lesioni cerebrali e neurali. Mi sono laureata in storia della fisioterapia. Molti dei problemi di un tempo non esistono più, ma ogni tanto si ripresenta una delle malattie antiche. Come l’epidemia di poliomielite su Evarts. E le vecchie tecniche si rivelano utili.
“Questo morbo, per esempio, è come il virus di Rathje: solo il virus originale attaccava, sporadicamente, e la guarigione era lenta, ma sicura. Forse perché la terapia veniva intrapresa appena cessavano i sintomi dolorosi. E credo che la paralisi non fosse totale: ma il virus si è modificato, con i secoli, ed è diventato più virulento. Comunque, è impossibile negarne la somiglianza. Ho portato i nastri, Helva,” disse Theoda, ringiovanita dall’entusiasmo “La ristrutturazione Doman-Delacato otteneva ottimi risultati sulle vittime del virus di Rathje.”
“E’ addirittura possibile che le spore della malattia siano passate dalla Terra agli altri pianeti,” fece Theoda, fermandosi di colpo. “Hai qualche particolare sugli schemi a spirale delle galassie?”
“Atteniamoci agli aspetti medici e fisiologici, Theoda,” rise Helva.
Theoda si massaggiò il volto con le mani come per scacciarne la stanchezza.
“Mi basterebbe un bambino: una prova è più che sufficiente.”
“Quanto ci vorrebbe? Quale età è la più indicata? Perché proprio un bambino? Perché non quella poveretta che ha mosso la palpebra?”
“Alla nascita, l’azione riflessa è governata dal midollo. A quindici settimane, la parte centrale del cervello comincia a funzionare, e il bambino impara a trascinarsi sulle mani e sulle ginocchia. A sessanta settimane, comincia a funzionare la corteccia, che controlla la deambulazione, la favella, la vista, l’udito, il tatto, i movimenti delle mani.”
“A un anno sarebbe troppo piccolo, il bambino... Non parlano in modo comprensibile,” mormorò Helva, che ricordava senza fatica il suo primo compleanno: ma lei, a quell’età, sapeva già ‘parlare’ e ‘camminare’.
“L’età migliore è cinque anni,” disse un’altra voce. Theoda ansimò, quando vide Onro, che teneva in mano un contenitore di caffè caldo. “Perché è l’età di mio figlio. Io sono l’Ufficiale Medico Onro. Sono stato io che l’ho mandata a chiamare, fisioterapista Theoda, perché ho sentito dire che lei non si arrende mai.” Il suo volto era duro, deciso. Neppure io mi arrenderò fino a quando mio figlio non ritornerà a camminare, a ridere e a parlare. Non mi resta che lui. Bel modo di passare una vacanza.” Onro rise amaramente, e sorseggiò il caffè fumante.
“Lei è di Van Gogh?” chiese Theoda.
“Si: e uno degli immuni.”
“Ha sentito quello che ho detto? E’ d’accordo?”
“Ho sentito. Non sono favorevole né contrario. Tenterò tutto quello che può sembrare anche lontanamente possibile. La sua idea è ragionevole, e il calcolatore dice che l’unico fattore positivo è la terapia. Le porterò mio figlio.”
Quando arrivò al portello si voltò e agitò il pugno in direzione di Helva.
“Mi ha drogato, maga placcata d’argento!”
“L’analisi è inesatta, ma accetto l’insulto,” disse Helva, mentre l’uomo spariva nell’ascensore.
Theoda prese il visore e tornò a studiare il film della tecnica che intendeva usare.
“Adoperavano ormoni steroidi come coadiuvanti,” mormorò. “Tu nei hai?”
“Il rapporto non indicava medicinali,” le ricordò Helva. “Ma puoi dire a Onro che ti procuri il necessario dal sintetizzatore dell’ospedale. Lui è un Ufficiale Superiore.”
“Si, sì, mi servirà.” Theoda riprese a riflettere. “Perché usavano.., oh, sì, certo. Non avevano conglomerati, vero?”
Helva osservò Theoda che seguiva il film, controllava, prendeva appunti, mormorava fra sé, e s’interrompeva a guardare nel vuoto, assorta.
Quando Theoda ebbe riesaminato i propri appunti per la quarta volta, Helva insistette perché mangiasse qualcosa. Theoda aveva appena finito un piatto di stufato quando Onro ritornò reggendo fra le braccia il corpo inerte d’un bambino dai capelli rossi. Il volto rude di Onro era impassibile, quasi rigido nell’assenza d’espressione, mentre posava delicatamente il bambino sulla cuccetta. Helva notò la caratteristica comune delle vittime, gli occhi semichiusi. Come se le palpebre fossero troppo pesanti per tenerle aperte.
Theoda s’inginocchiò accanto alla cuccetta, girò il volto del bambino, in modo da poterlo fissare negli occhi.
“Piccolo, io so che puoi sentirmi. Adesso cercheremo di insegnare al tuo corpo a ricordare quello che può fare. E fra non molto tu potrai ritornare a correre e a saltare per i campi.”
Senza badare alla protesta gutturale di Onro, Theoda distese il bambino sul pavimento, a faccia in giù, gli prese un braccio e una gamba e accennò a Onro di imìtarla.
“Adesso ti riporteremo al tempo in cui eri un bambino piccolo, quando cercavi di strisciare per la prima volta. Ti faremo strisciare sulla pancia, come una biscia.”
Continuò a ripetere pazientemente le istruzioni, per un quarto d’ora, calcolò Helva. Poi attesero un’ora, e ricominciarono. Passò un’altra ora e Theoda, sempre paziente, recitò le istruzioni per insegnare al corpo del bambino i movimenti della deambulazione. Un’altra ora, e ripeté le istruzioni. Poi tornò a insegnargli come doveva strisciare, e tornò a ripetere e a ripetere. Theoda e Onro si alternavano, dormicchiando quando potevano farlo. Helva, senza farsi notare, chiuse il portello, escluse dai propri collegamenti l’audio della cabina e ignorò le insistenti richieste dell’ospedale: volevano che li facesse parlare con Theoda o con Onro. Dopo ventiquattro ore, Theoda alternò gli schemi, e incominciò una terapia muscolare fondamentale sul corpo inerte, spostando con pazienza inesauribile gli arti per fare loro assumere le varie posizioni.
Dopo ventisette ore Onro, esausto e disperato, cadde in un sonno profondo. Theoda, sempre più grigia in volto, continuò, ripetendo per esteso le istruzioni come aveva fatto la prima volta.
Helva ignorò la folla che s’era raccolta attorno a lei. Non ascoltò nè richieste, nè suppliche, nè minacce.
“Theoda,” disse sottovoce, dopo trenta ore, “hai notato anche tu che i muscoli del collo tendono a torcersi?”
“Si. E questo bambino stava così male che hanno dovuto praticargli la tracheotomia. Guarda la cicatrice,” e indicò il minuscolo segno. “E ho notato anche che le palpebre descrivono un arco più ampio, adesso. Il bambino capisce che lo stiamo aiutando. Vedi... apre gli occhi: di pochissimo, ma è sufficiente. Lo sapevo! Avevo ragione! Avevo ragione!”
“Non ti resta molto tempo,” disse Helva. “Le autorità di Annigoni hanno chiamato una Nave del Servizio, che atterrerà vicino a me fra mezz’ora. Sarò costretta ad aprire per evitare danni alla nave.., sono stata condizionata ad evitarli, lo sai.”
Theoda alzò la testa, sconvolta.
“Che cosa?”
“Guarda il mio schermo.” Helva accese lo schermo sul pannello dei comandi, perché Theoda vedesse la ressa di persone e di veicoli raccolta attorno alla nave. “Si sono fatti insistenti.”
“Non me ne ero accorta.”
“Avevi bisogno di tranquillità,” rispose Helva. “Ma a quanto ne sanno loro, l’ufficiale medico Onro, suo figlio e la fisioterapista sono prigionieri a bordo; e sospettano che la mia recente... sospettano che io sia impazzita.”
“Ma non hai spiegato che praticavamo una terapia...”
“Naturalmente.”
“E’ ridicolo!”
“Pensa alla terapia. Non devi perdere un minuto.”
“Prima devo nutrirlo.”
Theoda inserì con cura l’ago della soluzione concentrata nella minuscola vena del bambino.
“Deve essere un piccino tanto caro, Helva, a giudicare dalla faccia,” disse.
“Probabilmente un diavoletto, con tutte quelle lentiggni,” sbuffò Helva.
“Di solito sono i più buoni, in fondo,” ribatté Theoda, in tono fermo.
Helva guardò il piccolo e decise che aveva ragione lei: un bambino con i capelli rossi e le lentiggini doveva essere una vera peste!
Theoda ricominciò la sua terapia, con pazienza inesauribile. Poi un tonfo la fece trasalire, fece cadere dalla poitroncina il medico addormentato. Helva, che stava osservando l’esterno, s’era aspettata quel colpo. Onro si rialzò, quasi ignaro del luogo in cui si trovava.
”Cosa succede?”
Un secondo tonfo.
”Cosa diavolo succede? Chi bussa?”
”Mezzo pianeta” osservò asciutta Helva, e attivò i contatti audio e video con l’esterno. Poi abbassò immediatamente il volume assordante.
”Va bene, va bene,” dichiarò a voce alta, soverchiando i ruggiti rabbiosi della folla.
”CHiEDO PERMESSO Dl ENTRARE, XH-834” urlò qualcuno all’esterno. Helva attivò l’ascensore e apri il portello. Onro corse all’apertura e urlò, indignato.
”Che cosa diavolo succede? Andatevene tutti quanti! Cos’è questa storia? Non si può neanche dormire in pace, e questo è l’unico posto tranquillo di tutto lo sporco pianeta!”
L’ascensore aveva sollevato fino alla sua altezza l’esploratore della nave chiamata di rinforzo e il funzionario che aveva accompagnato Theoda nella visita all’ospedale.
”Dottor Onro, eravamo preoccupati per lei, soprattutto da quando ci siamo accorti che suo figlio era sparito.”
”Amministratore Carif, pensava che la fisioterapista avesse rapito me e mio figlio e ci tenesse come ostaggi a bordo d’una nave impazzita? Che razza di idea! Ehi, idiota, che cosa sta facendo?” urlò, mentre il pilota cercava di avvicinarsi al pannello della colonna di Helva.
”Eseguo gli ordini del Controllo Centrale.”
”Scaldi quel maledetto raggio, invece, e dica al Controllo Centrale di farsi gli affaracci suoi. Se non fosse per Helva, e per la tranquillità che ci ha assicurato, non avremmo neppure potuto incominciare.
Si avviò verso il punto in cui suo figlio giaceva sul pavimento, assistito da Theoda che continuava a praticargli la terapia.
”Non so quanti potremo salvarne, in questo modo, ma funziona. E lei, giovanotto, informi quelli del Controllo Centrale, dopo averli mandati all’inferno a nome mio, che dovranno accordare a Theoda l’autorità di reclutare, se è necessano, l’intera popolazione del pianeta, per realizzare il suo programma di recupero.”
Poi s’inginocchiò accanto al figlio.
”Su, ragazzo mio, prova a trascinarti.”
”Ma quel bambino prenderà il raffreddore, in questa corrente!” esclamò il funzionario.
Fuori, una donna supplicò Helva di abbassare l’ascensore per farla salire a bordo, ma Helva I’ignorò: guardava il sudore che incominciava a coprire il volto del bambino. Nessun movimento muscolare, neppure il più lieve.
”Prova, figliolo. Prova. Prova!” supplicò Onro.
”La tua mente ricorda quello che una volta il tuo corpo poteva fare: braccia sinistro avanti, ginocchio destro alzato,” disse Theoda, con una calma gentile che nascondeva perfettamente la sua tensione.
Helva notò i muscoli della gola del bambino che si muovevano convulsamente: ma sapeva che i presenti si aspettavano qualcosa di più drammatico.
”Avanti, tesoruccio di mamma,” mormorò con voce strascicata e insultante.
Prima che i due intrusi potessero voltarsi per protestare, il bambino aveva spostato di qualche centimetro il gomito, sul pavimento; e il ginocchio destro, leggermente flesso dalla mano di Theoda, scivolò indietro, mentre la gola lavorava dsperatamente, emettendo un gemito strozzato. Con un urlo di gioia, Onro abbracciò il figlio.
”Ha visto! Ha visto! Theoda aveva ragione.”
”Ho visto che il bambino ha compiuto un movimento volontario, si,” ammise Carif. “Ma un esempio isolato...” e allargò le braccia.
”Uno è sufficiente. Non avevamo tempo,” disse Onro. “Lo dirò a quelli là fuori. Loro dovranno aiutarci.”
Reggendo in braccio il bambino, urlò a tutti quello che era successo: si scatenarono grida e applausi. Poi il gruppo raccolto alla base dell’ascensore indicò la donna che aveva chiesto di entrare.
”Non vi sento,” gridò Onro; erano in troppi a gridare. Helva fece calare l’ascensore, e la donna entrò. E subito urlò a Onro:
”Alla nursery, abbiamo fatto quello che ci aveva detto la fisioterapista Theoda. I bambini presentano qualche miglioramento. Non molto, non molto... e vogliamo sapere se abbiamo sbagliato. Ma quattro piccini riescono già a piangere,” balbettò, correndo verso Theoda, appoggiata esausta contro una porta. “Non avrei mai pensato che sentire piangere un bambino mi avrebbe resa così felice. Ma certuni piangono, altri emettono dei suoni, e una piccina ha addirittura mosso una mano, mentre la cambiavamo. Oh, abbiamo fatto come ha detto lei!”
Theoda guardò trionfante Carif, e lui annuì.
”E adesso, Carif,” fece energicamente Onro, entrando nell’ascensore, con il figlio stretto fra le braccia, “dobbiamo organizzarci. Non è necessario mobilitare tutti gli abitanti del pianeta. Chiameremo quelli del Servizio Giovanile di Avalon. Loro ci sanno fare.”
”La ringrazio di avermi creduto,” disse Theoda all’infermiera.
”Una delle bambine è figlia di mia sorella,” disse la donna, con le lacrime agli occhi. “E’ l’unica rimasta viva in tutto il suo paese.”
L’ascensore risalì, e il pilota e l’infermiera vi entrarono. Theoda incominciò a raccogliere la sua roba.
”La parte più facile è finita, Helva. Adesso ci vorrà molta, molra pazienza. Anche il figlio di Onro ha molta strada da fare, prima di ritornare normale.”
”Ma almeno c’è speranza.”
”C’è sempre speranza, finché c’è vita.”
”Hai perduto tuo figlio, vero?” chiese Helva.
”Sì. E mia figlia, mio marito, tutta la mia famiglia. Io ero l’unica immune.” Il viso di Theoda si contorse. “Nonostante la mia abilità, nonostante la mia esperienza, non ho potuto salvarli.”
Theoda chiuse gli occhi, presa dal dolore del ricordo.
Helva spense il proprio visore: il ricordo di Jennan che guardava verso di lei mentre moriva la sopraffece.
“Non so perché ci si riesce ad adattare,” disse stancamente Theoda. Penso sia l’istinto di sopravvivenza che costringe a continuare. Ho pensato che se avessi potuto imparare la mia professione così bene da non dovere mai più vedere qualcuno morire per la mia inefficienza, allora la morte dei miei cari mi sarebbe stata perdonata.”
“Ma non eri stata tu a scatenare l’epidemia,” disse Helva.
“Oh, lo so... Ma non riesco ancora a perdonare me stessa.”
Helva rifletté sulle parole di Theoda, che avevano uno strano valore anestetico.
“Grazie, Theoda,” disse finalmente, tornando a guardare la fisioterapista. “Perché piangi?” chiese, sbalordita, vedendo la donna che piangeva, accosciata sulla cuccetta.
“Per te. Perché tu non puoi, vero? Hai perduto il tuo Jennan e non ti hanno neppure permesso di riposare. Ti hanno ordinato di portarmi qui e...”
Helva fissò Theoda, sconvolta: incredula perché qualcuno capiva il suo dolore, sbalordita perché Theoda, nel momento del suo trionfo, soffriva per lei. Di colpo, si rese conto che lei, Helva, era l’oggetto di quella pietà.
“In nome dell’Onnipotente, Helva, si svegli!” urlò Onro, dall’esterno. Helva si affrettò a mandargli l’ascensore.
“Perché sta piangendo?” gridò lui, appena entrato, mentre toglieva dalle mani inerti di Theoda la grossa borsa. Poi si diresse verso la cambusa. “Oh, non stia a spiegarmelo: avrà una buona ragione per farlo. Ma tutto il pianeta aspetta le sue istruzioni...” Arraffò tutti i barattoli di caffè che riuscì a trovare e li cacciò nella borsa. “Le prometto che potrà piangere quanto vorrà, quando mi avrà insegnato la terapia. E le presterò la mia spalla per piangerci sopra, anche.”
“Può piangere sulla mia spalla quando vorrà,” s’intromise Helva, in toni un po’ incerti.
Onro si fermò per guardare Helva.
“Sragiona anche lei?” disse, un po’ irritato. “Lei non ha le spalle.”
“Non sragiona affatto,” disse decisa Theoda, mentre Onro la spingeva verso l’ascensore.
“Venga, Theoda, venga.”
“Grazie, amica mia,” mormorò Theoda, voltandosi verso Helva. Poi si girò, mentre Onro avviava l’ascensore.
“No, no, Theoda, sono io che debbo ringraziare te,” esclamò Helva. E aggiunse, sottovoce: “Avevo bisogno di quelle lacrime.”
Mentre la macchina correva verso l’ospedale, Helva vide Theoda che agitava un braccio per salutarla, e capi che Theoda aveva compreso tutto. Poi una nuvola di polvere avvolse la macchina, mentre Helva segnalava alla base di Regulus che la missione era compiuta e comunicava la data del suo rientro.
Poi, come una Fenice che si risolleva dalla ceneri amare del suo lutto, Helva si alzò sulla scia fiammeggiante dei tubi di scarico verso le stelle. Ormai stava guarendo.






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