1 maggio

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00sabato 1 maggio 2010 08:53

San Giuseppe Lavoratore

1 maggio - Memoria Facoltativa

Nel Vangelo Gesù è chiamato 'il figlio del carpentiere'. In modo eminente in questa memoria di san Giuseppe si riconosce la dignità del lavoro umano, come dovere e perfezionamento dell'uomo, esercizio benefico del suo dominio sul creato, servizio della comunità, prolungamento dell'opera del Creatore, contributo al piano della salvezza (cfr Conc. Vat. II, 'Gaudium et spes", 34). Pio XII (1955) istituì questa memoria liturgica nel contesto della festa dei lavoratori, universalmente celebrata il 1° maggio. (Mess. Rom.)

Patronato: Padri, Carpentieri, Lavoratori, Moribondi, Economi, Procuratori Legali

Etimologia: Giuseppe = aggiunto (in famiglia), dall'ebraico

Martirologio Romano: San Giuseppe lavoratore, che, falegname di Nazareth, provvide con il suo lavoro alle necessità di Maria e Gesù e iniziò il Figlio di Dio al lavoro tra gli uomini. Perciò, nel giorno in cui in molte parti della terra si celebra la festa del lavoro, i lavoratori cristiani lo venerano come esempio e patrono.

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Sotto la sua protezione si sono posti Ordini e Congregazioni religiose, associazioni e pie unioni, sacerdoti e laici, dotti e ignoranti. Forse non tutti sanno che Papa Giovanni XXIII, di recente fatto Beato, nel salire al soglio pontificio aveva accarezzato l’idea di farsi chiamare Giuseppe, tanta era la devozione che lo legava al santo falegname di Nazareth. Nessun pontefice aveva mai scelto questo nome, che in verità non appartiene alla tradizione della Chiesa, ma il “papa buono” si sarebbe fatto chiamare volentieri Giuseppe I, se fosse stato possibile, proprio in virtù della profonda venerazione che nutriva per questo grande Santo. Grande, eppure ancor oggi piuttosto sconosciuto. Il nascondimento, nel corso della sua intera vita come dopo la sua morte, sembra quasi essere la “cifra”, il segno distintivo di san Giuseppe. Come giustamente ha osservato Vittorio Messori, “lo starsene celato ed emergere solo pian piano con il tempo sembra far parte dello straordinario ruolo che gli è stato attribuito nella storia della salvezza”. Il Nuovo Testamento non attribuisce a san Giuseppe neppure una parola. Quando comincia la vita pubblica di Gesù, egli è probabilmente già scomparso (alle nozze di Cana, infatti, non è menzionato), ma noi non sappiamo né dove nè quando sia morto; non conosciamo la sua tomba, mentre ci è nota quella di Abramo che è più vecchia di secoli. Il Vangelo gli conferisce l’appellativo di Giusto. Nel linguaggio biblico è detto “giusto” chi ama lo spirito e la lettera della Legge, come espressione della volontà di Dio. Giuseppe discende dalla casa di David, di lui sappiamo che era un artigiano che lavorava il legno. Non era affatto vecchio, come la tradizione agiografica e certa iconografia ce lo presentano, secondo il cliché del “buon vecchio Giuseppe” che prese in sposa la Vergine di Nazareth per fare da padre putativo al Figlio di Dio. Al contrario, egli era un uomo nel fiore degli anni, dal cuore generoso e ricco di fede, indubbiamente innamorato di Maria. Con lei si fidanzò secondo gli usi e i costumi del suo tempo. Il fidanzamento per gli ebrei equivaleva al matrimonio, durava un anno e non dava luogo a coabitazione né a vita coniugale tra i due; alla fine si teneva la festa durante la quale s’introduceva la fidanzata in casa del fidanzato ed iniziava così la vita coniugale. Se nel frattempo veniva concepito un figlio, lo sposo copriva del suo nome il neonato; se la sposa era ritenuta colpevole di infedeltà poteva essere denunciata al tribunale locale. La procedura da rispettare era a dir poco infamante: la morte all’adultera era comminata mediante la lapidazione. Ora appunto nel Vangelo di Matteo leggiamo che “Maria, essendo promessa sposa a Giuseppe, si trovò incinta per virtù dello Spirito Santo, prima di essere venuti ad abitare insieme. Giuseppe, suo sposo, che era un uomo giusto e non voleva esporla all’infamia, pensò di rimandarla in segreto”(Mt 18-19). Mentre era ancora incerto sul da farsi, ecco l’Angelo del Signore a rassicurarlo: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Ella partorirà un figlio, e tu lo chiamerai Gesù; egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati” (Mt 1,20-21). Giuseppe può accettare o no il progetto di Dio. In ogni vocazione che si rispetti, al mistero della chiamata fa sempre da contrappunto l’esercizio della libertà, giacché il Signore non violenta mai l’intimità delle sue creature né mai interferisce sul loro libero arbitrio. Giuseppe allora può accettare o no. Per amore di Maria accetta, nelle Scritture leggiamo che “fece come l’Angelo del Signore gli aveva ordinato, e prese sua moglie con sé”(Mt 1, 24). Egli ubbidì prontamente all’Angelo e in questo modo disse il suo sì all’opera della Redenzione. Perciò quando noi guardiamo al sì di Maria dobbiamo anche pensare al sì di Giuseppe al progetto di Dio. Forzando ogni prudenza terrena, e andando al di là delle convenzioni sociali e dei costumi del suo tempo, egli seppe far vincere l’amore, mostrandosi accogliente verso il mistero dell’Incarnazione del Verbo. Nella schiera dei suoi fedeli il primo in ordine di tempo oltre che di grandezza è lui: san Giuseppe è senz’ombra di dubbio il primo devoto di Maria. Una volta conosciuta la sua missione, si consacrò a lei con tutte le sue forze. Fu sposo, custode, discepolo, guida e sostegno: tutto di Maria. (…) Quello di Maria e Giuseppe fu un vero matrimonio? E’ la domanda che affiora più frequentemente sulle labbra sia di dotti che di semplici fedeli. Sappiamo che la loro fu una convivenza matrimoniale vissuta nella verginità (cfr. Mt 1, 18-25), ossia un matrimonio verginale, ma un matrimonio comunque vissuto nella comunione più piena e più vera: “una comunione di vita al di là dell’eros, una sponsalità implicante un amore profondo ma non orientato al sesso e alla generazione” (S. De Fiores). Se Maria vive di fede, Giuseppe non le è da meno. Se Maria è modello di umiltà, in questa umiltà si specchia anche quella del suo sposo. Maria amava il silenzio, Giuseppe anche: tra loro due esisteva, né poteva essere diversamente, una comunione sponsale che era vera comunione dei cuori, cementata da profonde affinità spirituali. “La coppia di Maria e Giuseppe costituisce il vertice – ha detto Giovanni Paolo II –, dal quale la santità si espande su tutta la terra” (Redemptoris Custos, n. 7). La coniugalità di Maria e Giuseppe, in cui è adombrata la prima “chiesa domestica” della storia, anticipa per così dire la condizione finale del Regno (cfr. Lc 20, 34-36 ; Mt 22, 30), divenendo in questo modo, già sulla terra, prefigurazione del Paradiso, dove Dio sarà tutto in tutti, e dove solo l’eterno esisterà, solo la dimensione verticale dell’esistenza, mentre l’umano sarà trasfigurato e assorbito nel divino. “Qualunque grazia si domanda a S. Giuseppe verrà certamente concessa, chi vuol credere faccia la prova affinché si persuada”, sosteneva S. Teresa d’Avila. “Io presi per mio avvocato e patrono il glorioso s. Giuseppe e mi raccomandai a lui con fervore. Questo mio padre e protettore mi aiutò nelle necessità in cui mi trovavo e in molte altre più gravi, in cui era in gioco il mio onore e la salute dell’anima. Ho visto che il suo aiuto fu sempre più grande di quello che avrei potuto sperare...”( cfr. cap. VI dell’Autobiografia). Difficile dubitarne, se pensiamo che fra tutti i santi l’umile falegname di Nazareth è quello più vicino a Gesù e Maria: lo fu sulla terra, a maggior ragione lo è in cielo. Perché di Gesù è stato il padre, sia pure adottivo, di Maria è stato lo sposo. Sono davvero senza numero le grazie che si ottengono da Dio, ricorrendo a san Giuseppe. Patrono universale della Chiesa per volere di Papa Pio IX, è conosciuto anche come patrono dei lavoratori nonché dei moribondi e delle anime purganti, ma il suo patrocinio si estende a tutte le necessità, sovviene a tutte le richieste. Giovanni Paolo II ha confessato di pregarlo ogni giorno. Additandolo alla devozione del popolo cristiano, in suo onore nel 1989 scrisse l’Esortazione apostolica Redemptoris Custos, aggiungendo il proprio nome a una lunga lista di devoti suoi predecessori: il beato Pio IX, S. Pio X, Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI.





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00sabato 1 maggio 2010 08:54

Sant' Agostino Schoeffler Sacerdote e martire

1 maggio

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Mittelbonn, Francia, 22 novembre 1822 - Sơn-Tâi, Vietnam, 1 maggio 1851

Etimologia: Agostino = piccolo venerabile, dal latino

Martirologio Romano: Presso la rocca di Sơn-Tâi nel Tonchino, ora Viet Nam, sant’Agostino Schoeffler, sacerdote della Società per le Missioni Estere di Parigi e martire, che, gettato in carcere dopo aver esercitato per tre anni il suo ministero, su ordine dell’imperatore Tự Đức, nel campo di Năm Mẫu ottenne con la decapitazione la grazia del martirio, che ogni giorno aveva chiesto a Dio.


Di tutti i cristiani e missionari martirizzati nel Tonchino e nella Cocincina (Vietnam), Leone XIII ne beatificò 77 il 7-5-1900; S. Pio X 8 il 15-4-1906 e 34 l'11-4-1909; Pio XII 25 il 29-4-1951. Di costoro 117 furono canonizzati da Giovanni Paolo II nel 1988. Non sappiamo con certezza quando il cristianesimo fu introdotto in quei paesi la cui evangelizzazione regolare e sistematica fu iniziata nel 1627 dal P. Alessandro de Rodhes SJ. Con l'aiuto di un confratello in 3 anni egli riuscì a battezzare circa 3.000 infedeli. Per istigazione di un bonzo fu esiliato dal re, ma nel 1631 altri gesuiti riuscirono a entrare occultamente nel regno e, con l'aiuto di alcuni missionari di altri Ordini religiosi, in meno di trent'anni a convertire alla fede 200.000 pagani.
Primo Vicario Apostolico del Tonchino (Vietnam) fu Mons. Francesco Pallu, e primo vicario Apostolico della Cocincina Mons. Pietro de La Motte Lambert. Per provvedere di missionari quelle terre pagane essi si adoperarono per fondare a Parigi il seminario delle Missioni estere. Sono molti i martiri che vi furono formati e che i papi canonizzarono. Tra loro figura anche il P. Agostino Schoefner. Egli nacque il 22-11-1822 a Mittelbonn in Lorena (Francia), e compì gli studi ecclesiastici nel seminario diocesano di Nancy durante i quali volle iscriversi al Terz'Ordine Domenicano. Non senza opposizione dei parenti, nel 1846 passò in quello delle Missioni estere di Parigi per assecondare la sua vocazione missionaria.
Per quanto fosse disposto a recarsi in qualsiasi terra di missione, non nascose la sua preferenza per il Tonchino (Vietnam) in cui infuriava la persecuzione scatenata dal re Minh-Manh (1820-1840) e continuata da suo figlio, il re Thiéu-Tri (1840-1847). Nelle lettere che di lui ancora si conservano appare manifesto con quanto ardore bramasse di dare la vita per la fede. In una di esse si legge: "II buon Dio mi accorderà la grazia del martirio; gliela domando ogni giorno". E in un'altra: "Soffro molto, ma ai piedi della croce... Che cosa può esserci di più dolce?".
Il 1-8-1847 il santo lasciò Parigi per Anversa. Raggiunse Hong-Kong dopo cinque mesi di navigazione. Il suo campo di lavoro fu la cristianità di La-Fou che raggiunse dopo essere riuscito a superare la frontiera settentrionale del Tonchino tra pericoli di ogni genere. Trascorse i primi mesi in quel paese studiando la lingua e cercando di adattarsi agli usi e costumi degli indigeni. Poté in seguito darsi con tutto l'ardore giovanile al sacro ministero. Nel 1849 fu di grande aiuto a Mons. Retord, ordinario del luogo, nella visita pastorale che fece a Ke-Bang. In seguito fu trasferito al distretto di Xu-Doai dove, disseminati per montagne e foreste, 16.000 cristiani attendevano ansiosi l'opera di un missionario.
Nonostante la malferma salute raccolse tra loro abbondanti frutti di vita spirituale, tanto che il suo nome presso quei cristiani restò in benedizione.
Il desiderio del martirio cresceva nel santo di mano in mano che, prendendosi cura delle anime, capiva che non c'è amore più grande di colui che da la vita per i fratelli. La pubblicazione dell'editto di persecuzione contro i cristiani del re Tu-Dùc (1847-1883), secondogenito di Thiéu-Tri, ravvivò le sue speranze. I mandarini erano incitati a far catturare i missionari europei perché erano ritenuti "come falsari, seduttori, barbari, tonti, sciocchi, vili..." e, per conseguire più facilmente lo scopo, venivano offerte trecento once d'argento a chi ne avesse denunciato uno. Lo stesso re il 13-2-1851 fece spedire a tutti i mandarini una circolare segreta in cui prescriveva che i missionari europei fossero annegati con una pietra al collo, e i sacerdoti annamiti segati vivi.
In quel tempo la cristianità di Bau-Nò, nel Tonchino occidentale, era infestata da bande di briganti e di ribelli. Per opporsi alle loro scorrerie, i mandarini del distretto avevano costituito una milizia di volontari i quali, facendo finta di dare la caccia ai briganti, taglieggiavano i poveri cittadini. Il 1-3-1851 la strada tortuosa che dalle colline scendeva verso il villaggio era infestata da guardie. Pareva che attendessero al varco qualche squadra di briganti, invece, ad un segnale convenuto, essi sbucarono fuori dai cespugli per arrestare prima un sacerdote indigeno che camminava discorrendo con due giovani, quindi P. Agostino, che lo seguiva a poca distanza con allievi e catechisti. Nel mettere le mani addosso al bianco che li guardava maestoso e tranquillo, le guardie furono prese da timore e riverenza. Allora il comandante gridò loro: "Che fate? Date mano alle verghe e battete". Il missionario, che era stato tradito da una delle guide, lo interruppe, dicendo: "E perché? Io non ho mosso un passo per resistere alla vostra violenza". Dopo che fu legato, mentre le guardie si disponevano alla partenza, il loro capo si rivolse ai prigionieri e disse: "Potrei consegnarvi ai mandarini; datemi una verga d'oro, cento verghe d'argento e vi lascerò tutti liberi".
Alla mente di P. Agostino balenò immediatamente un generoso disegno. Difatti gli rispose: "Ebbene, se volete una così grande somma per il nostro riscatto, lasciate che questi miei discepoli vadano a cercarla; io resterò in ostaggio".
Il pagano, accecato dalla cupidigia dell'oro, rilasciò il sacerdote indigeno con gli allievi e i catechisti, ma il denaro pattuito non riuscì ad averlo perché non fu potuto trovare. Il missionario, lieto di aver salvato gli altri con il suo sacrificio, si lasciò condurre a Son-Tay non senza aver prima assicurato i fedeli che nessuno da parte sua sarebbe stato denunciato o compromesso. A Son-Tay, dopo le solite domande, il mandarino chiese al prigioniero: "Quando eravate ancora in Europa, sapevate che la vostra religione era proibita nel regno?". "Si che lo sapevo, ma volli venirvi appunto per questo", "Ditemi i luoghi in cui siete stato affinchè possa fare il mio rapporto e rimandarvi in Europa". "Mi trovo nel regno da quattro anni; sono stato in molti luoghi di cui non ricordo il nome e vado in tutti i villaggi in cui sono desiderato dagli abitanti". I mandarini, presi da insolito rispetto per il giovane sacerdote, non insistettero. Il giorno dopo provarono a indurlo all'apostasia, ma il martire fu così risoluto nel rifiuto che i giudici, considerando inutile ogni ulteriore insistenza, chiusero gli atti e ne inviarono il rapporto alla capitale.
Tra l'altro la sentenza diceva: "Il signor Agostino è un europeo che ha avuto l'audacia di venire, malgrado il divieto che ne fanno le leggi, a percorrere le contrade di questo regno per predicarvi la religione, sedurre e ingannare il popolo: della qual cosa fu pienamente convinto nell'esame della sua causa. Secondo il decreto del re, ad Agostino si deve tagliare la testa e gettarla nelle acque del mare o dei fiumi a esempio e ritegno del popolo".
Il capitano delle guardie riuscì ad ottenere dal mandarino che, il missionario, fosse tolto dal carcere duro e detenuto nella casa del direttore delle prigioni. Il santo poté riavere anche il denaro che gli era stato sequestrato al momento dell'arresto, e con esso provvide al suo sostentamento. Così il martire trascorreva nella meditazione e nella preghiera giorni tranquilli. Pur essendo strettamente vigilato, qualche catechista poté introdursi fino a lui e consegnargli le lettere che gli scrivevano altri missionari e gli amici d'Europa. Il sacerdote Phuong riuscì ad avvicinarlo, travestito da mercante di occhiali, confessarlo e dargli la comunione. Il santo era tanto acceso di zelo che neppure in carcere tralasciò di esercitare l'apostolato, parlando della bellezza della fede ai soldati di guardia ed esortandoli ad abbracciarla. Diceva loro: "Io mi ricorderò di voi dopo la mia morte, ma se desiderate essere felici, cercate un villaggio abitato da cristiani e convertitevi".
Il 1-5-1851 fu condotto al luogo del supplizio scortato da un buon nerbo di soldati. Giulivo in volto, camminava con passo sicuro, salmeggiando. Appena vi giunse s'inginocchio per terra, baciò il crocifisso, si sbottonò la veste e presentò il collo al carnefice dicendo: "Sbrigatevi a fare il vostro dovere". La testa del martire fu gettata nel fiume dove non fu più possibile ripescarla. Il corpo, che era stato seppellito nel luogo stesso dell'esecuzione capitale, il giorno dopo fu trasportato di nascosto nella vicina città di Bach-Loc dove un fervente cristiano gli diede onorata sepoltura presso la propria casa. Leone XIII beatificò il martire il 7-5-1900 e Giovanni Paolo II lo canonizzò nel 1988 con altri 116 testimoni della fede nel Vietnam.





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00sabato 1 maggio 2010 08:54

Beato Aldebrando Vescovo di Fossombrone

1 maggio

Sorrivoli ? (Cesena), 1164 – Fossombrone (Pesaro), 30 aprile 1247 ca.

Se ne conosce la vita grazie a una leggenda composta verso il 1300. Nato nel 1164 in Romagna nei pressi di Cesena si formò presso la canonica di Porto a Ravenna. Dal 1222 al 1228 fu prevosto della Cattedrale di Rimini, ma poiché in una predica aveva rivendicato certi beni del Capitolo della Cattedrale, occupati dal Comune di Rimini, il popolo sobillato dai «patarini» locali, insorse contro di lui. Durante la fuga dalla città s'imbatté nei nunzi del Capitolo della diocesi di Fossombrone (Pesaro) che andavano a Rimini, proprio per presentargli la nomina a loro vescovo. Accettato l'incarico nel 1228 divenne vescovo di Fossombrone, dove iniziò la costruzione di una nuova cattedrale: alla sua morte solo la copertura rimase a metà. Morì il 30 aprile forse del 1247 e fu sepolto il 1° maggio nella «sua» cattedrale. Qualche decennio più tardi il suo corpo venne traslato nella nuova cattedrale, la chiesa di San Maurenzo. (Avvenire)

Etimologia: Aldebrando = esperto con la spada, dall'antico alto tedesco

Martirologio Romano: A Fossombrone nelle Marche, beato Aldebrando, vescovo, insigne per austerità di vita e spirito apostolico.


La vita di s. Aldebrando è narrata in una leggenda composta verso il 1300 e pubblicata la prima volta nel 1647. L’indicazione del luogo di origine di Aldebrando è abbastanza precisa, anche se è ancora controversa la traduzione dal latino, lingua con la quale era composta la leggenda.
Egli nacque nel 1164 in Romagna nei pressi di Cesena, alcuni dicono a Sorrivoli nella diocesi di Cesena e altri dicono non dentro i confini del Comune e diocesi di Cesena, ma bensì nella zona Sarsina-Galeata, che occupa le alte valli del Savio e del Bidente.
Ad ogni modo Aldebrando si formò presso la canonica di Porto a Ravenna, e ciò è attestato nel 1199; successivamente fu eletto prevosto della Cattedrale di Rimini e in quest’Ufficio rimase dal 1222 al 1228.
Ma avendo in una predica, rivendicato con foga oratoria, certi beni del Capitolo della Cattedrale, occupati dal Comune di Rimini, il popolo sobillato dai ‘patarini’ locali, insorse contro di lui, che fu costretto a fuggire dalla città; (i patarini erano i membri di un movimento di emancipazione delle classi popolari, dai vincoli feudali ed ecclesiastici).
Lungo la strada, diciamo per l’esilio, s’imbatté nei nunzi del Capitolo della diocesi di Fossombrone (Pesaro) che andavano a Rimini, proprio per presentargli la nomina a loro vescovo.
Aldebrando non ebbe difficoltà ad accettare e quindi nel 1228 divenne vescovo di Fossombrone; una volta entrato nella carica, iniziò la costruzione di una nuova cattedrale, più vasta della precedente e riuscì quasi a completarla prima della sua morte, solo la copertura rimase a metà.
Il santo vescovo visse fra gli ottanta e gli ottantacinque anni, e morì il 30 aprile 1247 ca.; fu sepolto il 1° maggio nella cattedrale da lui fatta costruire.
Alla fine dello stesso XIII secolo, la chiesa Cattedrale fu trasferita nella Chiesa di S. Maurenzo e anche il corpo di s. Aldebrando vi fu traslato; diventò così contitolare della cattedrale e compatrono della città; le sue reliquie sono poste in un’urna sotto l’altare maggiore della cattedrale. La sua festa si celebra in città e nella diocesi il 1° maggio e in alcune parrocchie la domenica seguente.
Anche nel paese di Sorrivoli, nella diocesi di Cesena, ritenuto come detto, da alcuni studiosi come luogo della sua nascita, è stata edificata una chiesa parrocchiale, che prima della distruzione bellica del 1944, era intitolata a S. Lorenzo e che dal 1950 è stata intitolata appunto a s. Aldebrando.





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00sabato 1 maggio 2010 08:55

Sant' Amatore di Auxerre Vescovo

1 maggio

Emblema: Bastone pastorale

Martirologio Romano: Ad Auxerre in Francia, sant’Amatore, vescovo, che si adoperò per estirpare dalla sua città le superstizioni pagane e vi istituì il culto dei santi martiri.


Secondo la sua Vita, contenuta in un manoscrittodel sec. IX ma forse scritta nel sec. VII da un certo monaco Stefano Africano in forma romanzata, nacque ad Auxerre nel 344 e fu educato da Valeriano, vescovo della città. Benché sposato per volere dei genitori con la nobile e ricca Marta della città di Langres, visse con lei in perfetta castità e divenne diacono; compì alcuni miracoli e cacciò i demoni che abitavano delle rovine nei dintorni della città. Alla morte di Elladio, successore di Valeriano, fu eletto vescovo e compì il suo ministero con fermezza, estirpando dalla sua diocesi le ultime tracce di paganesimo e vincendo miracolosamente la resistenza di un certo Rutilio a cedere i suoi terreni per la costruzione della nuova cattedrale, dedicata a s. Stefano protomartire; compì anche un viaggio ad Antiochia per riportarne le reliquie dei ss. Ciro e Giulitta. Secondo la leggenda consiglio a farsi diacono e pOi elesse suo successore Germano, potente signore della regione e forse governatore della città, a lui profondamente avverso (Costanzio di Lione dice invece che Germano, ancora laico, alla morte di Amatore, fu acclamato vescovo dal popolo). Amatore morì, dopo un episcopato durato trenta anni, il 1° maggio 418, data ricavabile mediante calcoli complicati, e fu sepolto accanto alla sposa Marta nell'oratorio di Mont-Artre.
Il suo culto si diffuse rapidamente anche in Catalogna, dove Carlo Magno mandò una sua reliquia. L'antica chiesa, eretta sul suo sepolcro nel VI sec., fu distrutta durante la Rivoluzione e le sue reliquie furono disperse.
Amatore era invocato soprattutto come guaritore dei pazzi e degli epilettici, che venivano fatti coricare sul suo sepolcro.




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00sabato 1 maggio 2010 08:56

Sant' Andeolo Martire

1 maggio

Martirologio Romano: Nel territorio di Viviers in Francia, sant’Andéolo, martire.



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00sabato 1 maggio 2010 08:58

Sant' Arigio Vescovo

1 maggio

m. 604

Martirologio Romano: A Gap in Provenza, in francia, sant’Arigio, vescovo, celebre per la sua pazienza nelle avversità, per lo zelo contro i simoniaci e per la carità verso i monaci romani mandati in Inghilterra.




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00sabato 1 maggio 2010 09:00

Sant' Asaf (o Asaph) Vescovo

1 maggio

+ 610 circa

Martirologio Romano: A Llanelwy in Galles, sant’Asafo, abate e vescovo della sede poi insignita del suo nome.


Superficiali e frammentarie sono le notizie certe su Sant’Asaf, il cui nome fu in seguito scelto per ribattezzare la città di Llanelwy. Non ci è pervenuta nessuna vita antica del santo, ma è però citato in quella di San Kentigern. Quando questi la sciò la Scozia, designò Asaf quale abate del suo monastero nel Galles settentrionale. Secondo fonti successive, in tale luogo si celebrava alternativamente la liturgia onde lodare Dio continuamente. La principale zona che godette dell’impegno pastorale di Asaf fu il Flintshire. Alla partenza di Cyndeyrn per la Cumbria, verso il 590, divenne il nuovo vescovo. Morì verso l’anno 610. Alla sua memoria furono dedicate numerose chiese e fontane e nel dì della sua festa la sua città organizzava una fiera. Le fonti che accertano tali notizie consistono in calendari tardo medioevali. Il suo culto dal Galles si estese anche alla Scozia, per i suoi legami di amicizia con San Kentigern. Il Martyrologium Romanum commemora Sant’Asaf, vescovo, il 1° maggio.





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00sabato 1 maggio 2010 09:01

San Brioco Vescovo e abate

1 maggio

m. 500 circa

Martirologio Romano: In Bretagna, in Francia san Brióco, vescovo e abate, che, nato in Galles, fondò un monastero sulla costa bretone, a cui fu poi concessa la dignità di sede episcopale.



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00sabato 1 maggio 2010 09:02

Beato Clemente (Klymentij) Septyckyj Sacerdote e martire

1 maggio

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Prylbychi, Ucraina, 17 novembre 1869 - Vladimir, Russia, 1° maggio 1951

Martirologio Romano: Nella città di Vladimir in Russia, beato Clemente Šeptyckyj, sacerdote e martire, che fu priore del monastero studita della cittadina di Univ e, nel tempo in cui vigeva un regime ostile a Dio, perseverando nella fede meritò di raggiungere la dimora celeste.


Klymentij Septyckyj, fratello minore del metropolita Andrei Septyckyj, nacque il 17 novembre 1869 nel villaggio di Prylbychi, nella provincia di Lviv (Leopoli). Nel 1911 entrò nell’Ordine dei Monaci Studiti Ucraini, rinunciando così ad una promettente carriera nel mondo secolare, e successivamente si trasferì ad Innsbruck per la formazione teologica. Fu ordinato sacerdote il 28 agosto 1915. Per molti anni fu poi igumeno della Lavra di Univ e dal 1944 ne divenne archimandrita.
Durante la seconda guerra mondiale, con la benedizione del metropolita Andrej, nascose in monastero numerosi ebrei per sottrarli alla Gestapo. Il 5 giugno 1947 un decreto del Consiglio del Ministero della Sicurezza di Stato a Kiev lo condannò ad otto anni di deportazione nei campi di lavoro. Morì martire per la fede il 1° maggio 1951 nella prigione russa a regime duro di Vladimir.
Klymentij Septyckyj fu beatificato da Giovanni Paolo II il 27 giugno 2001, insieme con altre 24 vittime del regime sovietico di nazionalità ucraina.





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00sabato 1 maggio 2010 09:05

San Geremia Profeta

1 maggio

Anatot, Gerusalemme, 650 a.C. - Egitto, 587 ca. a.C.

Geremia, uno dei quattro grandi profeti d'Israele. Nacque verso il 650 a.C. presso Gerusalemme; visse e predicò nel regno di Giuda tra il 622 fino oltre il 587 a.C.

Etimologia: Geremia = esaltazione del Signore, dall'ebraico

Martirologio Romano: Commemorazione di san Geremia, profeta, che, al tempo di Ioiakím e Sedecía, re di Giuda, preannunciando la distruzione della Città Santa e la deportazione del popolo, patì molte persecuzioni; per questo la Chiesa ha visto in lui la figura del Cristo sofferente. Predisse, inoltre, il compimento della nuova ed eterna Alleanza in Gesù Cristo, per mezzo del quale il Padre onnipotente avrebbe scritto nel profondo del cuore dei figli di Israele la sua legge, perché egli fosse il loro Dio ed essi suo popolo.


Geremia è uno dei quattro grandi profeti d’Israele, figlio di Helkia della tribù di Beniamino, nacque verso il 650 a.C. nel villaggio di Anatot presso Gerusalemme; visse e predicò nel regno di Giuda tra il 622 fino oltre il 587 a.C.
Appartenente alla stirpe dei sacerdoti del tempio di Gerusalemme, iniziò il suo ministero profetico sotto il regno di Giosia. Uomo mite e timido, fu chiamato contro la sua volontà e la sua natura di uomo sensibile, ad una missione profetica durissima, cioè quella di essere l’annunciatore e il testimone della rovina di Gerusalemme e del regno davidico di Giuda.
In quegli anni scompariva definitivamente l’impero Assiro e si riaffermava la potenza di Babilonia, specie con il re Nabucodonosor, che fece pesare la sua autorità in Palestina; Geremia fu sempre contrario ad un’alleanza del popolo d’Israele con l’Egitto, consigliando sottomissione alla potenza babilonese e gli avvenimenti gli diedero ragione.
Infatti Nabucodonosor per reprimere le continue ribellioni ed i tentativi di alleanza con l’Egitto, fece tre spedizioni contro il regno di Giuda, che si conclusero come una sciagura nel 586 a.C., con la distruzione del Tempio, con lo spodestamento della dinastia davidica regnante, con la deportazione degli israeliti più influenti, dando inizio così alla cosiddetta “cattività babilonese”.
Geremia che aveva profetizzato più volte questi avvenimenti, si trovò al centro di tutto questo dramma; dotato di un’esperienza mistica e profetica eccezionale, Geremia incitò i suoi concittadini ad una religione sincera e ad una vera intimità con Dio.
Fu sua opinione che i peccati del regno di Giuda fossero da attribuire al carattere nazionalistico e conservatore delle istituzioni religiose e annunziò che in breve tempo, la legge della responsabilità collettiva avrebbe ceduto il posto a quella della responsabilità individuale.
Purtroppo il risultato della sua missione profetica si poté vedere solo dopo la sua morte. Durante la sua vita, avvenne la cosiddetta “scoperta” del Deteuronomio che influenzò lo stile e le idee del suo libro.
Il libro di Geremia è il 30° della Bibbia e il più lungo dell’Antico Testamento, consta di 52 capitoli, ad esso va aggiunto il libro delle ‘Lamentazioni’, il 31°, tradizionalmente attribuito allo stesso Geremia, ma lo stile e certe caratteristiche, fanno pensare ad un autore successivo, che riassume il messaggio profetico di Geremia, seguendo così il suo influsso.
Collegato per continuità, viene il libro di Baruc, suo fedele segretario, il quale scriverà pagine biografiche sull’amara sorte del suo maestro, inviato da Dio ad annunziare la fine ad un popolo che si cullava nelle illusioni nazionalistiche, che praticava una religiosità arida, che era governato da indegni sovrani.
Particolarmente interessante è l’aspetto autobiografico dell’opera, il profeta vi rivela la sua anima, le sue incertezze, i suoi desideri, la sua adesione ad un’ingrata missione divina che gli costa sacrificio ed amarezza indicibili.
Certi oracoli del profeta sono violenti, spesso rivelano la sua sofferenza e la contraddizione della sua missione che è di giudizio e di condanna, mentre egli vorrebbe che fosse di conversione e di salvezza.
Viene perseguitato, incarcerato e malmenato, come traditore e disfattista, a motivo del suo messaggio profetico, che non aderiva ai progetti dei governanti, ma egli resta sempre fedele al suo dire. Forse appunto per questo la figura del profeta Geremia, è nella Bibbia quella che più si avvicina alla persona del Messia sofferente e perseguitato.
Il libro di Geremia fu scritto in parte almeno due volte; è giunto fino a noi in una forma notevolmente diversa nell’antica versione greca, rispetto all’originale ebraico che si possiede; esso si può dividere in quattro grandi parti: oracoli contro il regno di Giuda e Gerusalemme, cap. 1-25; oracoli contro le nazioni pagane; oracoli di salvezza e un futuro di speranza; la via dolorosa del profeta; più un’appendice sul crollo di Gerusalemme.
Il punto più alto del libro di Geremia è la profezia del cap. 31 v. 31-34, sulla nuova alleanza di salvezza, fondata sui valori interiori: “Ecco, verranno giorni - dice il Signore - nei quali con la casa di Israele e con la casa di Giuda, io concluderò una alleanza nuova. Non come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dal paese d’Egitto, una alleanza che essi hanno violato, benché io fossi loro Signore. Parola del Signore. Questa sarà l’alleanza che io concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo.
Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo: Riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato”.
Questa sarà l’eredità spirituale più preziosa di Geremia e che sarà raccolta dal cristianesimo.
In una delle ultime fasi dei tristi eventi che colpirono Israele, il profeta fu catturato dai suoi denigratori e portato in Egitto (dopo l’anno 586) dove morì; un’antica tradizione cristiana, afferma che Geremia sarebbe stato lapidato in Egitto dagli ebrei, esasperati dai suoi rimproveri.

Nell’uso comune, il nome Geremia è indicativo di una persona piagnucolosa, che si lamenta in continuazione.





scri30
00sabato 1 maggio 2010 09:06

Santi Giovanni de Zorroza e Giovanni de Huete Mercedari, martiri

1 maggio

XV secolo

Inviati a redimere schiavi dal Maestro Generale Beato Antonio Morell, i Santi Giovanni de Zorroza e Giovanni de Huete, operavano nel regno moro di Granada. Nel 1482 i mori, esasperati per la conquista di Alhama da parte dei Re cattolici, presero questi due religiosi mercedari mentre animavano la fede dei cristiani schiavi a Baza. Rinchiusi in carcere per vari giorni gli fecero soffrire ogni sorta di pene ed ingiustizie, portati poi sula strada per essere esposti al disprezzo della gente, furono consegnati ad alcuni ragazzi che li uccisero a sassate e con una morte gloriosa si unirono al coro dei martiri di Cristo.
L’Ordine li festeggia l’1 maggio.




scri30
00sabato 1 maggio 2010 09:07

Santi Gistaldo e Gundebado

1 maggio

+ La Beauce d’Orléans, Francia, 523


Gistaldo (Giselades, Giselahad, Gisgald, Siglad) e Gundebado (Gundebaldo), figli del re Sigismondo di Borgogna, furono catturati insieme col padre e la madre nel 523 e consegnati ai Franchi, che li gettarono in una cisterna a La Beauce d’Orléans. Venerati come martiri, le loro spoglie furono traslate nell’anno stesso (523) a St. Maurice nel Vallese.
Nel sec. XII le reliquie dei due fratelli furono collocate in un’apposita urna d’argento che ancora oggi si conserva nella chiesa dell’abbazia di St. Maurice. Sembra che non abbiano avuto mai una festa propria, mentre quella del loro padre si festeggiava il 1°, il 4, il 7, l’11 o il 30 aprile.




scri30
00sabato 1 maggio 2010 09:09

1 maggio

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Santi Orenzio e Pazienza Sposi e martiri 1 maggio

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San Torquato Vescovo di Guadix 1 maggio MR

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Beato Vivaldo Eremita 1 maggio MR



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