13 aprile

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00lunedì 13 aprile 2009 12:22

Sant' Albertino da Montone Abate

13 aprile

Montone, 1250 (?) - Fonte Avellana, 13 aprile 1294

Martirologio Romano: Nel monastero di Fonte Avellana nelle Marche, beato Albertino, eremita e priore di una comunità di eremiti, che preferì la solitudine agli onori e cercò di riconciliare città tra loro nemiche.


Nato a Montone nell'Umbria verso la metà del sec. XIII, si fece monaco nell'eremo di Fonte Avellana. Eletto Priore, quasi contemporaneamente fu scelto dai suoi monaci quale Priore Generale della Congregazione Avellanita che servì con saggezza e santità di vita.
Fu uomo di pace. Intere popolazioni e comuni in discordia ritrovarono la fratellanza per la sua paziente e generosa mediazione.
Eletto vescovo di Osimo, vi rinunciò per umiltà e amore per la solitudine.
Morì a Fonte Avellana il 13 aprile 1294 dove il suo sepolcro è meta continua di pellegrinaggi che ne invocano l'intercessione.





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00lunedì 13 aprile 2009 12:24

San Caradoco Eremita nel Galles

13 aprile


Martirologio Romano: A Saint-David in Galles, san Carádoco, sacerdote ed eremita, che abbandonò la corte regia, dove era suonatore d’arpa, quando vide che i cani vi erano amati più degli uomini, e imparò dall’abate Teliavo a servire Dio.



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00lunedì 13 aprile 2009 12:29

Santi Carpo, Papilo, Agatonica e compagni Martiri

13 aprile

m. Pergamo (Asia), 170 o 250 circa

Emblema: Palma, Rogo

Martirologio Romano: A Pergamo nell’Asia, nell’odierna Turchia, santi martiri Carpo, vescovo di Tiatira, Pápilo, diacono, Agatoníca, sorella di Papilo, e molti altri, che per la loro beata professione di fede ricevettero la corona del martirio.


Gli “Acta” relativi ai santi martiri Carpo, Papilo, Agatonica e loro compagni sono sicuramente tra i più attendibili nella storia della cristianità, anche se purtroppo non è ben chiara la datazione della persecuzione di cui rimasero vittime, cioè sotto il regno di Marco Aurelio (161-180), piuttosto che sotto Decio (249-251). Carpo era vescovo di Gurdos in Lidia, mentre Papiro era diacono di Tiatira, nella medesima provincia, ed Agatonica sua sorella: furono portati davanti al governatore romano di Pergamo ed invitati a mangiare la carne che era stata offerta agli idoli.
Carpo però replicò: “Io sono un cristiano, venero Cristo, Figlio di Dio, che è venuto nel mondo negli ultimi tempi per la nostra salvezza […] ma a questi idoli non offro sacrificio”. Subiti ulteriori interrogatori fu infine condannato alla flagellazione.
Anche Papilo rispose in modo simile al governatore: “Fin dalla giovinezza servo il Signore e non ho mai offerto sacrifici agli idoli: sono cristiano e nient’altro puoi sentire da me all’infuori di questo, poiché non c’è parola più grande e più bella di questa che io possa dire”.
Dopo che anche Papiro fu torturato, venne nuovamente chiesto loro di consumare la carne utilizzata per i sacrifici pagani ed al loro rifiuto furono condannati a morire bruciati sul rogo. Ancora in punto di morte Carpo affermò: “Sii benedetto, o Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, che ti sei degnato di far partecipe della tua gloria anche me peccatore”.
Agatonica era una madre cristiana che patì la persecuzione nel medesimo periodo: a chi la esortava a salvare la propria vita per il bene dei suoi figli rispose: “Mio figlio ha Dio che può avere pietà di lui, perché è lui che provvede a tutte le creature”. Fu così destinata a subire la stessa sorte di suo fratello Papilo e del vescovo Carpo, con la medesima motivazione.
L’antichità del culto dei tre martiri è attestata dalla “Storia ecclesiastica” del celebre Eusebio di Cesarea e dal Breviario Siriano. Il Martyrologium Romanum accolse in seguito tale memoria ponendola al 13 aprile ed aggiungendovi dei presunti numerosi compagni di martirio.





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00lunedì 13 aprile 2009 12:30

Sant' Ermenegildo Martire

13 aprile - Comune

m. 585

Vissuto nel VI secolo, era figlio di Leovigildo, il primo re di Spagna visigoto e, come tutti i visigoti, era seguace di Ario. Il suo matrimonio con una cattolica provocò tensioni a corte e re esiliò Ermenegildo e sua moglie a Siviglia.. Qui, il giovane si convertì la cattolicesimo e tentò di sconfiggere il padre con l’aiuto dei Bizantini degli Svevi. Gettato in carcere a Tarragona, rifiutò di ricevere la Comunione dalle mani di un vescovo ariano e per questo fu giustiziato. Figura molto controversa, il giudizio su di lui è stato volte severo, a volte più o meno comprensivo. San Gregorio Magno, ad ogni modo, mette in rilievo il suo incontrovertibile martirio. E’ patrono della Spagna.

Patronato: Spagna

Etimologia: Ermenegildo = dono del dio Irmin, dal tedesco

Emblema: Palma

Martirologio Romano: A Tarragona in Spagna, sant’Ermenegildo, martire, che, figlio di Leovigildo re dei Visigoti seguace dell’eresia ariana, si convertì alla fede cattolica per opera del vescovo san Leandro; rinchiuso in carcere per essersi ribellato alla volontà del padre rifiutandosi di ricevere la comunione da un vescovo ariano nel giorno della solennità di Pasqua, per ordine del padre stesso morì sotto un colpo di scure.


Sant’Ermenegildo, patrono della Spagna, e suo fratello Reccaredo erano figli di Leovigildo, primo re dei Visigoti in terra spagnola, e di Teodosia, sua prima consorte. Si ignora la data esatta della sua nascita, collocabile comunque verso la metà del VI secolo. Sin dalla giovinezza fu educato nell’arianesimo, confessione eretica professata dai suoi padri.
I Visigoti, originari della Scandinavia, nel III secolo scesero sulle rive del Danubio e le coste settentrionali del Mar Nero, ove furono convertiti all’arianesimo da Ulfila (+383). Nato in Germania, nipote di prigionieri cristiani stanziati in Cappadocia, egli fu per oltre quarant’anni loro vescovo missionario, che li catechizzò con la traduzione gotica della Bibbia. Quando nel 376, incalzati dagli Unni, si stanziarono in Tracia come federati dell'impero, erano ormai completamente arianizzati. In quel tempo gli imperatori Costanzo e Valente tentavano di imporre l’erronea dottrina di Ario come religione di stato. Dai Goti di Ulfila l’arianesimo fu trasmesso come patrimonio nazionale a tutti i popoli germanici orientali che, nel V secolo, irruppero entro i confini dell’impero. Anche quando, sotto il regno San Teodosio I il Grande, venne adottata ufficialmente per legge dall’impero la fede nicena, la chiesa dell’arianesimo germanico continuò imperterrita a ritenere che il Figlio di Dio fosse solamente simile al Padre e non ugualmente eterno come Lui, a ripudiare la speculazione trinitaria e cristologica dei teologi greci, ad usare la lingua germanica nelle funzioni liturgiche, a riconoscere al sovrano il potere di nomina dei vescovi e di convocazione dei sinodi ed infine a considerare le chiese quali proprietà di chi aveva concesso il suolo per la loro edificazione. Nei Balcani i Visigoti giunsero presto ad un aspro conflitto con i loro protettori bizantini, il maltrattamento da parte dei funzionari imperiali provocò un sommossa e nel 378 l’imperatore Valente rimase sconfitto e ucciso nella battaglia di Adrianopoli. Gli sforzi compiuti dal suo successore Teodosio il Grande, come più tardi dal patriarca di Costantinopoli San Giovanni Crisostomo, per indurre i Visigoti ad accogliere la dottrina del concilio di Nicea, ebbero purtroppo scarso successo. Presso di loro l’arianesimo si mantenne così ancora per lungo tempo, quando ormai il popolo, dopo aver percorso e devastando la Grecia e l’Italia, si conquistò una nuova patria nella Gallia meridionale e nella Spagna nel 419.
Sorse così il primo regno germanico indipendente sul suolo dell’impero romano. Leovigildo, sovrano astuto, ariano convinto, trattò i suoi sudditi cattolici ancora col massimo rigore e talvolta anche con crudeltà, perché temeva che potessero minare l’assolutezza del suo potere. Dopo la morte di Teodosia, egli sposò Gosvinda, vedova di suo fratello Atanagildo e madre di Brunechilde, andata sposa al re di Austrasia Sigiberto. La loro figlia Ingunda, cattolica assai fervente, fu sposata nel 579 da Ermenegildo, che il padre aveva accuratamente allevato nella fede ariana arianesimo ed aveva poi associato con Reccaredo al governo del regno sin dal 573.
Politicamente Leovigildo fu soddisfatto di tale matrimonio, che costituiva un maggiore legame con i Franchi, del cui appoggio necessitava al fine di consolidare il suo potere in Spagna. Gosvinda, invece, acerrima ariana, prese a manifestare apertamente tutto il suo odio contro la nuora cattolica.
Pretendeva ad ogni costo che ella si facesse ribattezzare secondo il rito ariano, ma Ingunda rimase ferma nelle sue convinzioni e non ne volle minimamente sapere, neppure quando la suocera la afferrò per i capelli, la spogliò delle vesti e la immerse in una piscina. “Mi basta - le rispose fiera - di essere stata purificata una volta dal peccato originale, con un salutare battesimo e di avere confessato la Santissima Trinità una e senza ineguaglianza di persone: ecco ciò che dichiaro di credere di tutto cuore. Mai rinuncerò alla mia fede”. Ingunda non solo mantenne fermamente il suo proposito, ma si adoperò con tutto il suo cuore e con tutte le sue forze per convincere suo marito ad abbracciare la retta fede nicena.
Per porre termine ai frequenti litigi a corte, causati dall’appartenenza della nuora alla religione cattolica, Leovigildo pensò di allontanare Ermenegildo e mandarlo a Siviglia in Andalusia. Quel forzato trasferimento si rivelò invece provvidenziale per suo figlio, che incontrò proprio in tale città colui che sarebbe stato il suo catechista e che avrebbe coadiuvato Ingunda nell’opera della sua conversione: il vescovo San Leandro. Questi, nato a Cartagena da una famiglia greco-romana molto religiosa, aveva abbracciato sin da giovane la vita monastica prima a San Claudio di Leon, poi a Siviglia, ove la famiglia si era trasferita. La solida formazione ricevuta lo aveva reso capace di divenire l’artefice dell’avvenire del suo paese in campo culturale e religioso. Eletto metropolita di Siviglia nel 579, aprì una scuola per studi dogmatici, artistici e scientifici, molto frequentata ai suoi tempi. Di questo apprezzatissimo centro culturale furono allievi anche i due figli di Leovigildo, ma soltamente sull’erede al trono in un primo momento Leandro riuscì ad esercitare un benefico influsso, inducendolo infatti a ricevere il battesimo niceno.
Da quel momento Ermenegildo non poté che diventare il capo della fazione cattolica, con conseguente grande ira di suo padre che, mal consigliato da Gosvinda, non esitò a ricorrere ad ogni mezzo affinché l’arianesimo prevalesse, guadagnando alla sua causa persino qualche vescovo e condannando alla prigione ed all’esilio tutti coloro che, come Leandro, tennero testa alle sue violenze. Durante la lunga lotta tra padre e figlio, il santo vescovo fu mandato da Ermenegildo a Costantinopoli per implorare l’aiuto presso l’imperatore bizantino. Lo sventurato padre finì con l’assediare Siviglia dal 583 per quasi due anni finché il figlio, esaurita ogni risorsa, chiese aiuto ai bizantini in procinto di attaccare la Spagna. Il padre, credendo che suo figlio fosse fuggito, prese d’assalto la città. L’esercito imperiale, lasciatosi corrompere da Leovigildo, non gli prestò l’aiuto promesso, motivo per cui ad Ermenegildo non restò che rifugiarsi a Cordova, ove fu fatto prigioniero dal padre e quindi esiliato a Valenza. Lo fece poi trasferire in un carcere di Terragona, dove venne decapitato il 13 aprile 585 per essersi rifiutato di ricevere la comunione da un vescovo ariano.
Con la tragica scomparsa di Ermenegildo, le legazioni di Leandro a Costantinopoli mutarono in una vera e proprio condizione di esilio, durante la quale strinse amicizia con l’apocrisario della Santa Sede, San Gregorio Magno, che proprio su sua insistenza scrisse i “Moralia in Job”. L’esilio di Leandro non durò però a lungo, giacché Leovigildo morendo lo raccomandò alla benevolenza di Reccaredo, suo successore. Non appena poté fare ritorno a Siviglia, Leandro si dedicò alla conversione degli ariani, a cominciare dalla famiglia reale. Reccaredo, animato dalla gloriosa testimonianza di suo fratello, si convertì alla fede cattolica e favorì con ogni mezzo la conversione del suo popolo. Gosvinda invece non ne volle assolutamente sapere e si pose a capo di una rivolta ariana contro il sovrano, ma vedendosi presto sconfitta si tolse la vita. Reccaredo, riportate tre brillanti vittorie sui vescovi ariani sostenuti dal re burgundo Gontrano, convocò nel 589 il terzo Concilio di Toledo in cui consegnò la sua professione di fede ortodossa scritta nelle mani dei vescovi presenti e decretò il ritorno all’unità politico-religiosa dei popoli dei Goti e degli Svevi. L’anno successivo Leandro apprese che il suo amico Gregorio era stato eletto al sommo pontificato e gli mandò le sue felicitazioni, informandoli degli ultimi notevoli progressi della fede cattolica nella penisola iberica.
Figura molto controversa, il giudizio degli storici su Ermenegildo è stato volte severo, a volte più o meno comprensivo. San Gregorio Magno, ad ogni modo, mise in rilievo il suo incontrovertibile martirio subito in odio alla fede cattolica. Su intercessione del re Filippo II, nel 1585 il pontefice Sisto V concesse alla Spagna di poter celebrare la festa del santo sovrano nella data della morte, dopodichè Urbano VIII estese tale memoria alla Chiesa Universale ed ancora oggi la nuova edizione del Martyrologium Romanum riporta al 13 aprile il martire Sant’Ermenegildo.
E’ infine degno di nota, in quanto dedicato alla memoria del santo, l’Ordine Militare di Sant’Ermenegildo istituito dal re Ferdinando VII di Spagna il 28 novembre 1814 e destinato a ricompensare il servizio reso dai militari in Spagna e nelle Indie. L’Ordine si divide in tre classi: Cavalieri di Gran Croce, Cavalieri di seconda classe e Cavalieri di terza classe. La decorazione consiste in una croce patente d’oro, smaltata di bianco, sormontata dalla corona reale. Caricato in cuore uno scudetto d’azzurro con l’immagine di Sant’Ermenegildo. Lo scudetto risulta circondato dal motto “Premio a la constancia militare”; nel retro la cifra del sovrano. Il nastro dell’Ordine è di bianco al palo di rosso.
L’iconografia è solita rappresentare il santo con tutte le insegne tipiche dei martiri e dei sovrani: palma, ascia, scettro, corona. Celebri sono due sue raffigurazioni pittoriche: “Trionfo di Sant’Ermenegildo” di Francisco de Herrera, custodita presso il Museo del Prado, e “Sant’Ermenegildo in carcere” di Francisco Goya y Lucientes, presso il Museo Lazaro Galdiano in Madrid. Non mancano però anche icone orientali, in quanto il santo è talvolta venerato anche dalle Chiese Ortodosse.





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00lunedì 13 aprile 2009 12:31

Beati Francesco Dickenson e Miles Gerard Martiri

13 aprile

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+ Rochester, Inghilterra, 13 aprile 1590

I sacerdoti Francis Dickenson e Miles Gerard, martiri inglesi, furono beatificati nel 1929.

Martirologio Romano: A Rochester in Inghilterra, beati Francesco Dickenson e Milone Gerard, sacerdoti e martiri, che, tornati in patria dal Collegio Inglese di Reims per esercitarvi clandestinamente il ministero sacerdotale, sotto la regina Elisabetta I furono sospesi alla forca e sottoposti ad altre atroci torture.



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00lunedì 13 aprile 2009 12:31

Beato Giacomo (Jacopo) da Certaldo Religioso

13 aprile

m. 1292


Certaldo è celebre per essere la patria dello scrittore Giovanni Boccaccia, della Beata Giulia della Rena (i corpi di ambedue si conservano nella chiesa dei Santi Michele e Giacomo in pieno centro storico), e del Beato Giacomo (Jacopo). Quest'ultimo nacque dl cavaliere Albertino di Guido nel XIII secolo. La tradizione locale identifica il luogo della sua prima dimora appena fuori Certaldo tra il fiume Elsa e il torrente Casciano in una vecchia casa con torre chiamata Palagietto (a metà della torre fu posto per ricordo un busto in rilievo del Beato con in testa la mitria).
Si racconta che il Beato Giacomo fin da bambino manifestasse una chiara vocazione monastica, poco interessato alle cose del mondo preferiva appartarsi in solitudine per meditare e stare in compagnia di Gesù. Presto conobbe i monaci Benedettini Camaldolesi che dimoravano in un'abbazia vicino alla sua casa, quando poi i genitori decisero di trasferirsi stabilmente in un'altra abitazione a Volterra frequentemente il giovane Giacomo visitava l'abbazia camaldolese di S. Giusto non lontano dalla nuova casa. Desiderando diventare monaco ed ottenuto il permesso dal padre, nel 1230 L'Abate Martino lo rivestì dell'abito bianco camaldolese. Devotissimo alla Madonna e a S. Michele Arcangelo il giovane monaco fu per tutti modello di preghiera e mortificazione attraverso l'obbedienza ai superiori e la pratica costante dei suoi doveri quotidiani. Poiché amava molto Dio,faceva molte penitenze volontarie per dominare gli appetiti della carne e rimanere costantemente concentrato nel Signore che pregava fervidamente di voler accettare i suoi poveri sacrifici per la salvezza del suo prossimo: dormiva sulla nuda terra, digiunava, vegliava, sopportava il freddo e il fastidio del cilicio sulla pelle. Nove anni dopo essere diventato monaco fu nominato rettore di una parrocchia che dipendeva dal monastero, nel 1268 fu eletto abate della comunità, carica che accettò dopo molte insistenze e alla quale dopo alcuni anni rinunciò per tornare a occuparsi della parrocchia che tenne fino alla morte. L'esempio del Beato spinse due membri della sua famiglia a ritirarsi in un monastero come oblati, prima il padre Albertino poi il fratello Ingeramo, che morirono confortati e assistiti dal Beato Giacomo. Nel 1292 anche il Beato Giacomo morì e subito iniziò la sua venerazione da parte dei fedeli per i quali in seguito fu eretto un altare in suo onore nella chiesa del monastero.
I miracoli concessi da Dio per intercessione del Beato furono molti: già il giorno prima che il Beato morisse una donna di Volterra che aveva una cancrena alla mammella non potendo incontrare il Beato che era in fin di vita, si raccomandò ugualmente a lui che le apparve miracolosamente in abito da medico con un vasetto di unguento in mano con il quale le unse la parte malata guarendola completamente. Una donna volterrana che aveva subito una paralisi del braccio destro fu guarita dopo essere andata a posare il braccio sopra la tomba del Beato. Un certo Pietro di Volterra in viaggio con il fratello fu sorpreso da alcuni briganti che lo ferirono gravemente e uccisero il fratello. Quando arrivarono i soccorsi Pietro chiese di essere portato davanti alla tomba del Beato che dopo insistenti preghiere apparve in abito bianco e lo guarì. Un uomo di S. Gimignano dopo aver pregato il Beato Giacomo riacquistò l'udito che aveva perso da quattro anni e fece voto di recarsi ogni anno alla sua tomba come ringraziamento. Una donna indemoniata fu portata dai suoi parenti al sepolcro del Beato, fu liberata e tornò a casa benedicendo il Signore.
Oggi le reliquie del corpo del Beato Giacomo si possono venerare presso il Santuario Mariano di San Francesco a Volterra nell'altere della cappella della Santa Croce di proprietà dei conti Guidi parenti dello stesso Beato. Coloro che vorranno fare un pellegrinaggio presso le reliquie del Beato Giacomo, la cui festa si celebra il 13 aprile di ogni anno, non devono dimenticare, prima di ripartire verso casa, di venerare l'immagine miracolosa della Madonna dei Maremmani, detta Madonna di San Sebastiano, Patrona di Volterra, incoronata daDl Beato Pio IX Papa durante il suo viaggio in Toscana. Maria Santissima, Madre Dio e Madre nostra, e il Beato Giacomo da Certaldo ci ottengano la grazia di amare nostro Signore sopra ogni altra cosa per raggiungere la beatitudine eterna e portare la vera pace tra gli uomini.





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00lunedì 13 aprile 2009 12:32

Beato Giovanni Bernardo Rousseau (fratel Scubilione) Religioso lasalliano

13 aprile

Annay-la-Côte, Borgogna, Francia, 22 marzo 1797 – Sainte-Marie, Isola de La Réunion, 13 aprile 1867

Giovanni Bernardo Rousseau (fratel Scubilione), nacque il 22 marzo 1797 ad Annay-la-Côte nella Bretagna, dipartimento dell'Yonne (Francia), primogenito dei quattro figli di un tagliapietre. Istruito dal parroco, nonostante le difficoltà causate dalla Rivoluzione, venne indirizzato all'Istituto dei Fratelli delle Scuole Cristiane (Lasalliani), del quale condivideva l'ideale di dedicarsi all'educazione dei giovani. Dopo il noviziato a Parigi (nel 1822 aveva indossato l'abito religioso, prendendo il nome di fratel Scubilione), nel 1826 ottenne l'abilitazione all'insegnamento e fu mandato nella comunità di Poitiers. Nel 1827 emise i voti perpetui. Dopo aver insegnato a Chinon, nell'aprile 1833 accolse l'invito a recarsi nell'Isola di Réunion: parte degli abitanti era costituita da schiavi che lavoravano nelle piantagioni di caffè e canna da zucchero. Ad essi, nei 34 anni che trascorse a La Réunion, fratel Scubilione si dedicò con particolare attenzione. Si spostò nel tempo in varie località dell'isola aprendo scuole e curando la catechesi. Morì il 13 aprile 1867 a Sainte-Marie. Fu proclamato beato il 2 maggio 1989. (Avvenire)

Martirologio Romano: Nell’isola di Réunion nell’Oceano Indiano, beato Scubilione (Giovanni Bernardo) Rousseau, religioso dell’Istituto dei Fratelli delle Scuole Cristiane, che istruì instancabilmente i fanciulli e diede aiuto ai poveri e speranza agli schiavi.


Giovanni Bernardo Rousseau, nacque il 22 marzo 1797 ad Annay-la-Côte nella Bretagna, dipartimento dell’Yonne (Francia), primogenito dei quattro figli del tagliapietre Bernardo Rousseau e di Regina Pelletier; il neonato fu battezzato il giorno stesso della nascita in casa dei nonni e quasi di nascosto, perché le chiese erano chiuse a causa delle note vicende della Rivoluzione Francese.
La famiglia trasferitasi a Tharoiseau, sempre in Borgogna, era di modeste condizioni economiche, ma capace di educare i figli nella laboriosità e pietà religiosa.
Giovanni Rousseau ricevé la Prima Comunione, probabilmente anche la Cresima, intorno ai 10 anni, ciò costituì l’inizio di una vita cristiana più intensa; fu guidato spiritualmente dal parroco, l’abate Petitier, che l’aiutò nello studio, forse con l’intento di avviarlo al sacerdozio.
Ma il 19 aprile 1811, morì il parroco e Giovanni perse l’insegnante e l’opportunità di studiare, visto che a Tharoiseau non c’erano altri insegnanti e dall’inizio della Rivoluzione, non era stato più riorganizzato l’insegnamento.
Solo sette anni dopo, il 4 ottobre 1818, arrivò un nuovo parroco che riprese l’insegnamento a Giovanni, giunto a quasi 22 anni; quando poi fu riaperta una scuola a Tharoiseau, visto il gran numero di studenti, Giovanni Rousseau fu scelto come aiutante del maestro.
Impegnato in questo compito, continuò a coltivare una religiosità attiva e il desiderio di dedicarsi a Dio più completamente; il parroco visto l’età non più giovanissima, aveva 25 anni e la scarsa formazione ricevuta, preferì indirizzarlo all’Istituto dei Fratelli delle Scuole Cristiane, fondato nel 1683 da s. Giovanni Battista de La Salle (1651-1719), invitandolo a visitare la loro comunità di Auxerre, dove venne accolto con molta simpatia.
Dopo aver così conosciuto ed ammirato i Fratelli Lasalliani, visto che anche lui condivideva il loro ideale di dedicarsi completamente all’educazione dei giovani, unitamente alla preghiera, scelse di entrare a far parte della Congregazione.
Il 9 novembre 1822, Giovanni Bernardo Rousseau, partì per il Noviziato dei Fratelli delle Scuole Cristiane a Parigi; il 24 dicembre indossò l’abito religioso, prendendo il nome di fratel Scubilione (nome del santo monaco compagno di s. Paterno, vescovo di Avranches); nell’anno trascorso a Parigi, egli poté approfondire la pedagogia dei Fratelli e lo spirito religioso del santo Fondatore.
Per il secondo anno di noviziato, a partire dal 4 novembre 1823, fu mandato nella comunità di Alençon, dove si occupò anche della cucina e del giardino; il 15 settembre 1825 pronunciò i voti triennali che precedevano, secondo le regole di allora, quelli perpetui.
Nel 1826 conseguì l’abilitazione all’insegnamento e fu mandato nella comunità di Poitiers, con l’incarico di istruire i piccoli, realizzando così il suo sogno di apostolato nella scuola.
Visto le sue buone disposizioni e desiderando fratel Scubilione legarsi definitivamente all’Istituto Lasalliano, gli fu concesso di abbreviare il tempo dei tre anni dei voti temporanei e così il 27 settembre 1827, nel ritiro di Nantes, emise i voti perpetui di castità, povertà, obbedienza, stabilità nell’Istituto e dell’insegnare gratuitamente. Negli anni 1831 e 1832 insegnò a Chinon, alla prima classe della scuola, che contava più di 80 alunni.
Nell’aprile 1833 accolse con gioia l’invito a recarsi nell’Isola di Réunion, per evangelizzare quella popolazione, l’isola in quel tempo aveva il nome di Bourbon; e parte degli abitanti era costituita da schiavi che lavoravano nelle piantagioni di caffè e canna da zucchero.
Si imbarcò il 20 aprile 1833 insieme ad un gruppo di Fratelli, e dopo 85 giorni di navigazione, con un solo scalo all’Isola Maurizio, sbarcò nel porto di St.-Denis a La Réunion, il 15 luglio 1833; da allora vi rimase fino alla morte, senza mai allontanarsene.
L’isola vulcanica fa parte dell’arcipelago delle Mascarene ed è situata nell’Oceano Indiano, a 600 km ad est del Madagascar; fu scoperta nel 1505 dal portoghese Mascarenhas, da cui prese il nome di Mascarena, passato poi a designare l’arcipelago.
Occupata stabilmente dai francesi nel 1649, fu ribattezzata Bourbon in onore della Casa Reale di Francia; nel 1644 fu data in concessione alla Compagnia delle Indie, che ne iniziò la valorizzazione popolandola di schiavi e introducendo la coltivazione del caffè e successivamente quella della canna da zucchero.
Annessa alla Corona di Francia nel 1767, mutò poi il nome in “La Réunion” nel 1793, a ricordo della riunione dei Marsigliesi e delle Guardie Nazionali, il 10 agosto 1792, nei primi avvenimenti della Rivoluzione Francese.
Nel secolo XIX, prima con Napoleone, poi con gli inglesi e di nuovo con i francesi, il nome dell’isola divenne “Bonaparte” (1806), Bourbon (1810), La Réunion (1848), questi ultimi due cambiamenti avvennero nel periodo della permanenza di fratel Scubilione nell’isola (1833-1867). Dal 1946 forma un Dipartimento d’Oltremare della Francia, la religione è prevalentemente cattolica.
Nei 34 anni che trascorse a La Réunion, fratel Scubilione divise il suo tempo fra incarichi domestici e scolastici, ai quali aggiunse un apostolato paziente e proficuo, sollecitato dai bisogni spirituali di una popolazione estremamente povera e sottosviluppata, a forte maggioranza creola, cioè di discendenti dei coloni francesi e nativi del luogo.
Si spostò nel tempo in varie località dell’isola, a Saint-Benoit e a Saint-Paul (1833-1843); a Saint-Leu (1843-1850); alla Possession (1850-1855); a Saint-Denis (1855-1856); a Sainte-Marie (1856-1867), aprendo scuole e curando la catechesi di fanciulli e adulti, ricorrendo ad ingenui ma efficaci espedienti pedagogici.
Compose perfino un sommario nella lingua locale creola, adattandolo alla mentalità di quella gente di cultura limitata, nel contempo si dedicò all’assistenza dei più poveri e degli ammalati.
Però il campo prediletto dell’apostolato di fratel Scubilione fu l’assistenza agli schiavi, dando loro un’istruzione, organizzò per loro la scuola serale di catechismo, andando di porta in porta a chiedere ai padroni, di concedere agli schiavi un’ora di tempo la sera, per istruirli.
Quando il 20 dicembre 1848, la Francia ripristinò per l’isola l’antico nome di La Réunion e diede la libertà ai circa sessantamila schiavi delle piantagioni, i quali vivevano in condizioni miserevoli, fratel Scubilione profuse il suo impegno nel campo sociale, per sollevarli materialmente e spiritualmente, tanto da attivarsi fra l’altro, alla costituzione di una Società di Mutuo Soccorso.
A Sainte-Marie, a Saint-Leu, andava nelle campagne a cercare gli ex schiavi non ancora battezzati, per prepararli a ricevere il Battesimo; si calcola che ne trovò circa 600, tutti istruiti e poi battezzati.
Negli ultimi anni, oltre ad insegnare ai bambini, prese anche a condurre la vita domestica delle varie Case, curando il guardaroba e la cantina, e a La Possession ebbe anche la funzione di vicedirettore.
Il 14 dicembre 1856, arrivò nella cittadina di Sainte-Marie, dove lavorò, con il suo consueto impegno e zelo a favore di bambini e adulti, gli ultimi undici anni della sua vita; quando nel 1859 l’isola fu devastata dal colera, fratel Scubilione si prodigò senza sosta nel soccorrere gli ammalati.
Consumato dalle fatiche e gravemente malato, fratel Scubilione morì il 13 aprile 1867 a Sainte-Marie, dopo 34 anni di missione; i suoi funerali furono un trionfo per la partecipazione di una immensa folla.
Nel 1839 i suoi resti mortali, furono traslati dal cimitero di Sainte-Marie, nella Casa dei Fratelli delle Scuole Cristiane a Saint-Denis, la capitale dell’isola.
Il 30 maggio 1981 fu introdotto il processo di beatificazione; a seguito dell’approvazione, l’8 maggio 1987, di un miracolo attribuito alla sua intercessione, fratel Scubilione (Giovanni Bernardo Rousseau) fu proclamato Beato il 2 maggio 1989, da papa Giovanni Paolo II, a Saint-Denis nell’Isola de La Réunion, durante il suo 41° viaggio apostolico, che toccò oltre l’isola anche Madagascar, Zambia e Malawi.


Autore: Antonio Borrelli





Decisamente strano e inconsueto il nome, Scubilione, che gli avevano assegnato; ancora più impegnativo il cognome, Rousseau, che portava. Ma lui con il filosofo svizzero aveva ben poco da spartire, perché era semplicemente figlio di un umile tagliapietre della Borgogna. Contemporaneo della Rivoluzione francese, nasce nel 1797 e viene battezzato di nascosto nella casa del parroco, circondato dall’ acceso e sanguinoso clima della persecuzione religiosa. Mamma gli insegna a vivere da buon cristiano e il piccolo impara in fretta e bene; il parroco, oltre a fargli catechismo, gli insegna anche a leggere e scrivere. A 14 anni va a fare il pastore per aiutare la famiglia, anche se sente di essere chiamato ad altro; intanto frequenta la chiesa con assiduità, prega, ha una devozione particolare per la passione di Gesù. Anche se povero di nozioni e con uno scarso bagaglio culturale, è intelligente e ha un forte ascendente sui bambini e così il parroco gli chiede di fare l’aiutante del maestro nella rudimentale scuola elementare che è stata aperta di fianco alla chiesa parrocchiale. E’ qui che gli nasce in cuore il desiderio di dedicarsi interamente all’istruzione della gioventù, e così a 25 anni entra nel noviziato dei Lasalliani, a Parigi. Insieme all’abito religioso gli danno il nome strano e difficile dell’antico monaco Scubilione, mentre lui cerca di fare propria la spiritualità del fondatore e di avvicinarsi sempre più a Dio con la preghiera e la penitenza. E deve riuscire piuttosto bene in questo sforzo, se per strada o al mercato la gente lo chiama “il santo”, semplicemente osservando come si comporta, come prega, come si mette a disposizione degli altri. Secondo lo specifico carisma dei Fratelli delle Scuole Cristiane, si dedica all’insegnamento, anche se è molto timido ed ha coscienza dei suoi limiti culturali; ma dove non arriva con i suoi mezzi supplisce egregiamente la grazia di Dio. A 36 anni i superiori appagano il suo desiderio di andare in missione e lo mandano nell’isola La Reunion nell’Oceano Indiano. Fratel Scubilione raggiunge la sua destinazione dopo 84 giorni di navigazione, senza neppure passare prima a salutare la mamma. Qui resterà fino alla morte, continuando a fare catechismo ai bambini, girando da una scuola all’altra, bussando ad ogni porta per seminare un po’ di bene. L’isola, a quell’epoca, è caratterizzata ancora dal fenomeno della schiavitù, e Fratel Scubilione insegna catechismo agli schiavi, anche trecento per sera: spesso attirandosi le ire dei padroni, ma raccogliendo la simpatia ed il rispetto delle gente. La fama di santo, infatti, l’ha seguito anche quaggiù e il solo vederlo pregare è più eloquente di ogni predica. Il suo insegnamento è semplice, come semplice è la gente che deve istruire, e perché imparino a memoria le verità principali della fede gliele fa anche cantare, con versetti semplici e melodici, che gli schiavi possono intonare a squarciagola mentre sono nei campi a lavorare. Non si tira indietro e sfida anche il pericolo del colera per curare, consolare, confortare i moribondi. La gente lo osserva, lo ammira, lo ama. E lo piange come uno di famiglia, quando il 13 aprile 1867 muore breve malattia. Giovanni Bernardo Rousseau – Fratel Scubilione – è stato beatificato da Giovanni Paolo II° nel 1984.





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00lunedì 13 aprile 2009 12:32

Beati Giovanni Lockwood e Edoardo Catherick Martiri

13 aprile

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+ York, Inghilterra, 13 aprile 1642

Beatificati nel 1929.

Martirologio Romano: A York sempre in Inghilterra, beati Giovanni Lockwood e Edoardo Catherick, sacerdoti e martiri sotto il re Carlo I, il primo dei quali, di ottantasette anni e già due volte sfuggito alla condanna capitale per il suo sacerdozio, volle precedere sul patibolo il più giovane e affranto compagno, per incoraggiarlo al glorioso martirio.



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00lunedì 13 aprile 2009 12:33

Beata Ida di Boulogne Contessa

13 aprile

1046 - 13 aprile 1113

Nata nel 1046, sposò il conte di Boulogne, al quale diede tre figli diventati illustri: Goffredo di Buglione, comandante della prima Crociata e conquistatore di Gerusalemme, di cui fu il primo re cristiano, Eustachio III che succedette al padre come conte di Boulogne e Baldovino, a sua volta re di Gerusalemme dopo il fratello; ebbe anche varie figlie. Si era sposata a 17 anni, per obbedire ai genitori; il marito non ostacolò mai la sua attività religiosa e la sua carità. Volle allattare essa stessa i figli nella speranza che ricevessero col primo nutrimento la disposizione alla religione; e quando crebbero ne curò personalmente l’educazione. Disprezzava le vanità, il futile splendore mondano; mortificava il corpo sotto il ricco abito che portava per forza. Spargeva i suoi doni sui bisognosi d’ogni sorta: indigenti, malati, pellegrini, vedove, orfani. La sua delizia era occuparsi di loro. Ma altresì si occupava delle chiese da restaurare e salvare dalla distruzione. Morto il conte suo marito, poté disporre liberamente dei suoi beni e fondare diversi monasteri. Ebbe un direttore di coscienza eccezionale, sant’Anselmo, futuro arcivescovo di Canterbury, sotto la cui influenza favorì la riforma monastica nelle Fiandre. Non prese l’abito benedettino, come si è creduto, ma ottenne da sant’Ugo l’aggregazione spirituale a Cluny, così da potersi considerare oblata secolare dell’Ordine benedettino. Morì il 13 aprile 1113. Molti fatti gloriosi della prima Crociata furono attribuiti alle sue preghiere.

Martirologio Romano: Nel monastero di Santa Maria presso Wast nella regione di Boulogne in Francia, beata Ida, che, vedova di Eustachio conte di Boulogne, rifulse per la sua generosità verso i poveri e per lo zelo del decoro della casa di Dio.


Sposa di Eustachio II, conte di Boulogne, Ida fu madre di Eustachio III, di Goffredo di Buglione e di Baldovino, re di Gerusalemme. Grande benefattrice delle chiese e dei poveri, dopo la morte del marito fondò diversi monasteri: Saint-Wulmer a Boulogne per i Canonici Agostiniani, Saint-Michel-du-Wast per i monaci cluniacensi. Fece considerevoli donazioni alle abbazie di Saint-Bertin, Bouillon e Afflighem, favori la riforma di Cluny sotto l'influenza di s. Anselmo di Canterbury che con lei rimase in corrispondenza epistolare. Questo particolare sottolinea il ruolo che il santo arcivescovo ebbe nella riforma monastica nelle Fiandre.
Ida non prese l'abito benedettino, come si è creduto (Holweck, p. 500), ma ottenne da s. Ugo l'aggregazione spirituale a Cluny, cosi da potersi considerare oblata secolare dell'Ordine Benedettino. Morì il 13 apr. 1113 e fu sepolta nella chiesa di Wast (notiamo che molte notizie biografiche leggono, a torto, Saint-Waast, invece di Wast). Nel 1669 le sue reliquie vennero trasferite presso i Benedettini del S.mo Sacramento a Parigi, i quali le portarono con loro quando, nel 1808, si stabilirono a Bayeux, luogo in cui sono ancora custodite (una reliquia, tuttavia, venne lasciata a Wast).
La festa di Ida che si celebrava nell'antica diocesi di Boulogne, venne poi autorizzata nelle diocesi di Arras e di Bayeux, quando queste adottarono il rito romano. La commemorazione della santa si trova in molti calendari medievali al 13 apr. Pure in quel giorno si ricorda la beata Ida di Lovanio, di cui si ignora però la data della morte.
Per la santa madre di Goffredo di Buglione non si ha una rappresentazione iconografica ben caratterizzata, anche perché scarse sono le figurazioni che si hanno di lei. Tra queste, in genere assai tarde, è degna di nota la scultura lignea del settecentesco Georg Ueblherr nella chiesa austriaca di Engelszell che rappresenta la santa in adorazione del crocifisso.




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00lunedì 13 aprile 2009 12:33

Beata Ida di Lovanio Monaca a Val-des-Roses

13 aprile

Sec. XIII

Martirologio Romano: Nel monastero cistercense di Roosendaal nel Brabante, nell’odierna Olanda, beata Ida, vergine, che patì molto da parte del padre prima di entrare nella vita monastica e con l’austerità di vita imitò nel suo corpo la passione di Cristo.


Vissuta nel XIII secolo, era figlia di un ricco mercante di vini che viveva nella operosa e dotta città di Lovanio e che, preoccupato solo di ammassare ricchezze e di assaporare i beni terreni, si contrariò molto quando la figlia, a diciott’anni, gli disse che intendeva farsi monaca: non le diede il consenso e la fece soffrire molto. Ida, già nota per la sua condotta di vita e i fenomeni mistici che si raccontavano nei suoi riguardi, alla fine riuscì a convincere il duro genitore. Entrò nell’abbazia cistercense di Val-de-Roses presso Malines, si dedicò alla preghiera, alla contemplazione e ai lavori manuali, tra i quali prediligeva la trascrizione dei libri; ma non rifiutava mai le incombenze più umili, sempre disponibile al servizio delle consorelle. I fenomeni mistici continuarono, con ripetute estasi e le furono attribuiti diversi prodigi e numerose conversioni. Morì il 13 aprile di un anno intorno al 1290.


 

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00lunedì 13 aprile 2009 12:34

Madonna dell'Arco

Lunedì dell’Angelo (celebrazione mobile)



Fra i tanti Santuari che costellano il territorio italiano, dedicati alla Madonna e fra i tanti titoli che le sono stati attribuiti nei secoli, ve n’è uno che la venera sotto il titolo di Madonna dell’Arco.
Il Santuario omonimo e il culto popolare tributatole fa parte dei tre maggiori poli della devozione mariana in Campania: Madonna del Rosario di Pompei, Madonna di Montevergine e Madonna dell’Arco.
L’inizio del culto è legato ad un episodio avvenuto verso la metà del XV secolo; era un lunedì di Pasqua, il giorno della cosiddetta ‘Pasquetta’, cioè la famosa gita fuori porta di una volta e nei pressi di Pomigliano d’Arco, alcuni giovani stavano giocando in un campetto a “palla a maglio”, oggi diremmo a bocce; ai margini del campetto sorgeva un’edicola sulla quale era dipinta una immagine della Madonna con il Bambino Gesù, ma più propriamente era dipinta sotto un arco di acquedotto; da questi archi vengono i nomi di Madonna dell’Arco e Pomigliano d’Arco.
Nello svolgersi del gioco, la palla finiva contro un vecchio tiglio, i cui rami ricoprivano in parte il muro affrescato, il giocatore che aveva sbagliato il colpo, in pratica perse la gara; al colmo dell’ira il giovane riprese la palla e bestemmiando la scagliava violentemente contro l’immagine sacra, colpendola sulla guancia che prese a sanguinare.
La notizia del miracolo si diffuse nella zona, arrivando fino al conte di Sarno, un nobile del luogo, con il compito di ‘giustiziere’; dietro il furore del popolo, il conte imbastì un processo contro il giovane bestemmiatore, condannandolo all’impiccagione.
La sentenza fu subito eseguita e il giovane venne impiccato al tiglio vicino all’edicola, che però due ore dopo ancora con il corpo penzolante, rinsecchì sotto lo sguardo della folla sbigottita.
Questo episodio miracoloso suscitò il culto alla Madonna dell’Arco, che si sparse subito in tutta l’Italia Meridionale; folle di fedeli accorsero verso il luogo del prodigio, per cui fu necessario costruire con le offerte dei fedeli, una cappella per proteggere la sacra immagine dalle intemperie.
Un secolo dopo il 2 aprile 1589, avvenne un secondo episodio prodigioso, era anche questa volta un lunedì dopo Pasqua, ormai consacrato alla festa della Madonna dell’Arco e una donna certa Aurelia Del Prete, che dalla vicina S. Anastasia, oggi Comune a cui appartiene la zona di Madonna dell’Arco, si stava recando alla cappella per ringraziare la Madonna, sciogliendo così un voto fatto dal marito, guarito da una grave malattia agli occhi.
Mentre avanzava lentamente nella folla dei fedeli, le scappò di mano un porcellino che aveva acquistato alla fiera, nel cercare di prenderlo, sfuggente fra le gambe della gente, ebbe una reazione inconsulta, giunta davanti alla chiesetta, gettò a terra l’ex voto del marito, lo calpestò maledicendo la sacra immagine, chi l’aveva dipinta e chi la venerava.
La folla inorridì, il marito cercò invano di fermarla, minacciandole la caduta dei piedi, con i quali aveva profanato il voto alla Madonna; le sue parole furono profetiche, la sventurata cominciò ad avere dolori atroci ai piedi che si gonfiavano e annerivano a vista d’occhio.
Nella notte tra il 20 e 21 aprile 1590, notte di venerdì santo, ‘senza più dolore e senza una goccia di sangue’ si staccò di netto un piede e durante il giorno anche l’altro. I piedi furono esposti in una gabbietta di ferro e ancora oggi sono visibili nel Santuario, perché la grande risonanza dell’avvenimento, fece affluire una grande folla di pellegrini, devoti, curiosi, che volevano vederli; con loro arrivarono le offerte, si rese necessario costruire una grande chiesa, di cui fu nominato rettore s. Giovanni Leonardi da parte del papa Clemente VIII.
Il 1° maggio 1593 fu posta la prima pietra dell’attuale Santuario e già dall’anno seguente subentrarono a gestirlo e lo sono tuttora, i padri Domenicani. Il tempio sorse tutto intorno alla cappellina della Madonna, la quale fu anch’essa restaurata ed abbellita con marmi, nel 1621; l’immagine dopo questi lavori, fu in parte coperta da un marmo, per cui per tutto questo tempo e rimasta visibile solo la parte superiore dell’affresco, il mezzo busto della Madonna e del Bambino; recentissimi lavori hanno riportato alla luce e alla venerazione dei fedeli l’intera immagine.
Vari prodigi si sono ripetuti intorno alla sacra effige, che riprese a sanguinare nel 1638 per diversi giorni, nel 1675 la si vide circondata da stelle, fenomeno osservato anche dal papa Benedetto XIII.
Il Santuario raccoglie nelle sue sale e sulle pareti, migliaia di ex voto d’argento, ma soprattutto migliaia di tavolette votive dipinte, rappresentanti i miracoli ricevuti dagli offerenti, che costituiscono oltre la testimonianza della devozione, una interessantissima carrellata storica e di costume dei secoli trascorsi.
Il culto della Madonna dell’Arco è sostenuto da antica devozione popolare, propagata da Associazioni laicali, sparse in tutta la zona campana, ma soprattutto napoletana, i suoi componenti si chiamano ‘battenti’ o ‘fujenti’ cioè coloro che fuggono, corrono; le Compagnie di questi devoti sono dette ‘paranze’ e hanno un’organizzazione con sedi, presidenti, tesorieri, portabandiera e soci.
Hanno bandiere, labari, vestono di bianco, uomini, donne e bambini, con una fascia rossa e blu a tracolla, che li caratterizza. Organizzano pellegrinaggi, di solito il lunedì dell’Angelo, che partendo dai vari luoghi dove hanno sede, portano dei simulacri a spalla abbastanza grandi da impiegare trenta, quaranta uomini e sempre tutti a piedi e a volta di corsa, percorrono molti km per convergere al Santuario, molti sono a piedi nudi; lungo la strada si raccolgono offerte per il Santuario, cosa che fanno già da un paio di mesi prima, girando a gruppi con bandiere, banda musicale e vestiti devozionali per i rioni, quartieri e strade di città e paesi.
Ma se il Santuario con l’annesso grandioso convento dei Domenicani è il centro del culto, in molte strade ed angoli di Napoli e dei paesi campani, sono sorte cappelline, edicole, chiese dedicate alla Madonna dell’Arco, che ognuno si fa carico di custodire, accudire e abbellire, così da continuare la devozione tutto l’anno e vicino alla propria casa.





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00lunedì 13 aprile 2009 12:34

Beata Margherita da Città di Castello Domenicana

13 aprile

Metola, 1287 - Città di Castello, 1320

Nacque cieca, a Metola, presso Città di Castello (Pg). I genitori, dopo aver chiesto invano il miracolo della guarigione, abbandonarono la bimba, che alcune donne del popolo raccolsero e ospitarono a turno. Più tardi fu allontanata da un monastero, perché la sua vita suonava come severo rimprovero a religiose dissipate e tiepide. Allora Margherita si rivolse al Terz'Ordine della penitenza di s. Domenico ed abbracciò con generosità il programma di preghiera e di penitenza fino all'incontro definitivo con Cristo. Nutrì tenera devozione per la sacra Famiglia. Il suo corpo incorrotto si venera nella chiesa di s. Domenico a Città di Castello.

Martirologio Romano: A Città di Castello in Umbria, beata Margherita, vergine delle Suore della Penitenza di San Domenico, che, sebbene cieca e storpia fin dalla nascita e abbandonata dai suoi genitori, confidò sempre in cuore suo nel nome di Gesù.


Margherita nacque cieca e storpia. Appena l’intelligenza della bimba cominciò ad aprirsi, si vide però di quali tesori di grazia era stata arricchita. Ai genitori, benché nobili e ricchi, parve un peso troppo grave e umiliante questa figlioletta priva della vista e d’ogni bellezza, e cosi un giorno, dopo averla condotta alla vicina Città di Castello per implorare la guarigione da un santo Francescano li molto venerato, vedendo che le loro suppliche restavano senza risposta, l’abbandonarono in chiesa, e se ne tornarono a casa. Margherita non pianse, non si disperò, e con un atto eroico di completa fiducia in Dio, lo invocò, quale Padre degli orfani. Fu questo il principio di mirabili ascensioni che a poco a poco fecero risplendere intorno alla povera abbandonata, un’aureola di santità. Dopo prove e umiliazioni ricevette con giubilo l‘Abito del Terz’Ordine di San Domenico, raggiungendo nella sua breve vita di trentatré anni un grado di altissima perfezione, tutta conforme all’ideale dell’Ordine. La coraggiosa penitenza dette vigore al suo spirito per applicarsi ad una perseverante preghiera, che aprì a lei i tesori della celeste sapienza. Aveva imparato a memoria l’intero Salterio e ne spiegava i più reconditi sensi. Fece, senza rumore, un gran bene alle anime, e tutti ricercavano la sua santa compagnia. Fu devotissima del mistero dell’incarnazione, e dopo morte, avvenuta il 13 aprile 1320, le furono trovate nel cuore tre perle, sulle quali erano scolpite l’immagine di Gesù, della Madonna e di S. Giuseppe. Il suo corpo incorrotto si trova nella chiesa di San Domenico a Città di Castello. Papa Paolo V, nel 1609, concesse ai Domenicani di quella città la Messa e l’Ufficio propri. Il 6 aprile 1675 Papa Clemente X estese tale privilegio a tutto l’Ordine. Nel 1988 il locale Vescovo di Urbino e Città di Castello l’ha proclamata Patrona Diocesana dei non vedenti.





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00lunedì 13 aprile 2009 12:35

San Marice

13 aprile



Di lui si sa poco. Fu dichiarato protettore di Cannaiola di Trevi (in Umbria) il 13 Aprile 1647. Il corpo del Santo Martire fu traslato da Roma nella quarta domenica di maggio dell’anno 1648, sotto il pontificato di Innocenzo X. I resti del Santo si conservano in un urna collocata sotto una statua in pastiglia e legno che lo raffigura, situata all’interno della parrocchiale di Cannaiola, e più precisamente sul lato destro per chi entra in chiesa dalla porta maggiore. All’interno della parrocchiale, dedicata a San Michele Arcangelo, si trova anche il corpo del beato Pietro Bonilli.



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00lunedì 13 aprile 2009 12:35

San Martino I Papa e martire

13 aprile - Memoria Facoltativa

Todi, sec. V - Chersonea, Crimea, 16 settembre 655

(Papa dal 07/649 al 16/09/655)
Fu eletto Papa nel periodo delle ultime controversie cristologiche. Per la difesa della fede in Cristo vero uomo e vero Dio, fu esiliato dall'imperatore bizantino Costanzo II in Crimea (Akherson, Ucraina), dove morì fra molti stenti. (Mess. Rom.)

Etimologia: Martino = dedicato a Marte

Emblema: Palma

Martirologio Romano: San Martino I, papa e martire, che condannò nel Sinodo Lateranense l’eresia monotelita; quando poi l’esarca Calliopa per ordine dell’imperatore Costante II assalì la Basilica Lateranense, fu strappato dalla sua sede e condotto a Costantinopoli, dove giacque prigioniero sotto strettissima sorveglianza; fu infine relegato nel Chersoneso, dove, dopo circa due anni, giunse alla fine delle sue tribolazioni e alla corona eterna.


Originario di Todi e diacono della Chiesa romana, Martino fu eletto al soglio pontificio dopo la morte di papa Teodoro (13 maggio 649) e mostrò subito una mano molto rma nel reggere il timone della barca di Pietro. Non domandò né attese infatti il consenso alla sua elezione dell'imperatore bizantino Costante II che l'anno precedente aveva promulgato il Tipo, un documento in difesa della tesi eretica dei monoteliti. Per arginare la diffusione di questa eresia, tre mesi dopo la sua elezione, papa Martino indisse nella basilica lateranense un grande concilio, al quale furono invitati tutti i vescovi dell'Occidente.
La condanna di tutti gli scritti monoteliti, sancita nelle cinque solenni sessioni conciliari, provocò la rabbiosa reazione della corte bizantino. L'imperatore ordinò all'esarca di Ravenna, Olimpio, di recarsi a Roma per arrestare il papa. Olimpio volle assecondare oltre misura gli ordini imperiali e tentò di fare assassinare il papa dal suo scudiero, durante la celebrazione della Messa a S. Maria Maggiore. Nel momento di ricevere l'ostia consacrata dalle mani del pontefice, il vile sicario estrasse il pugnale, ma fu colpito da improvvisa cecità.
Probabilmente questo fatto convinse Olimpio a mutare atteggiamento e a riconciliarsi col santo pontefice e a progettare una lotta armata contro Costantinopoli. Nel 653, morto Olimpio di peste, l'imperatore poté compiere la sua vendetta, facendo arrestare il papa dal nuovo esarca di Ravenna, Teodoro Calliopa.
Martino, sotto l'accusa di essersi impossessato illegalmente dell'alta carica pontificia e di aver tramato con Olimpio contro Costantinopoli, venne tradotto via mare nella città del Bosforo. Il lungo viaggio, durato quindici mesi, fu l'inizio di un crudele martirio. Durante i numerosi scali, a nessuno dei tanti fedeli accorsi a incontrare il papa fu concesso di avvicinarlo. Al prigioniero non era data neppure l'acqua per lavarsi. Giunto il 17 settembre 654 a Costantinopoli, il papa, steso sul suo giaciglio sulla pubblica via, venne esposto per un giorno intero agli insulti del popolo, prima di venire rinchiuso per tre mesi in prigione. Poi iniziò il lungo ed estenuante processo, durante il quale furono tali le sevizie da far mormorare all'imputato: "Fate di me ciò che volete; qualunque morte mi sarà un beneficio".
Degradato pubblicamente, denudato ed esposto ai rigori del freddo, carico di catene, venne rinchiuso nella cella riservata ai condannati a morte. Il 26 marzo 655 fu fatto partire segretamente per l'esilio a Chersonea in Crimea. Patì la fame e languì nell'abbandono più assoluto per altri quattro mesi, finché la morte lo colse, fiaccato nel corpo ma non nella volontà, il 16 settembre 655.





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00lunedì 13 aprile 2009 12:36

San Marzio Abate in Alvernia

13 aprile



Secondo Gregorio di Tours, Marzio nacque in Alvernia tra il 440 e il 445. Nel 460 Si ritirò in cima a un monte chiamato Clermont e ivi visse da eremita. Alcuni discepoli vennero a unirsi a lui, e poiché il loro numero aumentava, nel 470 egli fondò un monastero, degno di nota per la sua osservanza. Ricevette poi l'ordinazione sacerdotale e godette del dono di compiere guarigioni miracolose. Alla sua morte, che avvenne nel 530, le spoglie furono sepolte con onore nell'oratorio del monastero dove avvennero molti miracoli ad attestare la sua santità.
Il monastero di Clermont divenne più tardi una dipendenza dell'abbazia di St-Allyre e sussistette sino alla fine del XVIII sec. Quanto a Marzio, di cui erroneamente piú tardi si disse che- era stato vescovo di Clermont, il suo culto fu conservato in Alvernia. Il Proprio di Clermont segnala la sua festa il 13 aprile.




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00lunedì 13 aprile 2009 12:36

Sant' Orso di Ravenna Vescovo

13 aprile

+ 13 aprile 425 ca.

Patronato: Pellicciai e conciatori

Etimologia: Bastone pastorale, Mitria

Martirologio Romano: A Ravenna, sant’Orso, vescovo, che trasferì la sede episcopale di Classe in questa città e dedicò la chiesa cattedrale nel giorno di Pasqua in onore della Santa Anástasis; nello stesso giorno qualche anno più tardi anche egli passò alla gloria della resurrezione.


Sant’Orso, vescovo di Classe, trasferì definitivamente la sede episcopale a Ravenna attorno al 402, quando l’imperatore Onorio per ragioni di sicurezza strategica pose nella medesima città la capitale dell’impero d’Occidente. Nel catalogo episcopale della Chiesa ravennate il nome di Orso precede immediatamente quello di Pier Crisologo, quindi presupponendo l’esattezza di tale fonte l’episcopato di Orso si collocherebbe all’inizio del V secolo. In Ravenna Orso edificò la “ecclesia catholica, cioè la cattedrale, detta poi in suo onore “basilica Ursiana”, dedicandola all’Anastasi di Nostro Signore nel giorno di Pasqua. Secondo Agnello, Orso morì dopo ventisei anni di episcopato il 13 aprile di un anno attorno al 425. La sua memoria era però celebrata in Ravenna il giorno di Pasqua, anniversario della dedicazione per sua mano della basilica Ursiana. Una tradizione vuole che Orso fosse di origini siciliane, fattore che spiegherebbe la disffusione del culto di santi siciliani in Ravenna sin dal V secolo.





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00lunedì 13 aprile 2009 12:37

San Sabas Reyes Salazar Martire Messicano

13 aprile

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Cocula, Jalisco (Guadalajara), 5 dicembre 1883 - Tototlán, (Messico), 13 aprile 1927

Padre Sabás Reyes Salazar nacque a Cocula, in Messico, il 5 dicembre 1883. Ordinato sacerdote nel dicembre 1911, divenne viceparroco a Tototlán. Si occupò della formazione dei giovani, sia nell'insegnamento della catechesi sia nelle scienze, arti e mestieri e soprattutto nella musica. Durante la guerra civile messicana, quando nel 1927 ci fu il periodo più pericoloso per i sacerdoti, gli venne consigliato di lasciare Tatotlán, ma lui rispose: «Mi hanno lasciato qui e qui attendo. Vediamo che cosa determina Iddio». Nella Settimana Santa dell'aprile 1927, giunsero nel paese le truppe federali, con i proprietari di terre, cercando il parroco ed i suoi assistenti. Trovarono solo padre Sabás e su di lui riversarono tutto l'odio generato dalla guerra; lo presero e lo legarono ad una colonna della parrocchia e lo torturarono per tre giorni; poi gli bruciarono le mani. Il 13 aprile, mercoledì santo, lo portarono nel cimitero, dove, padre Sabás gridò «Viva Cristo Re». E lì venne fucilato a 44 anni. (Avvenire)

Emblema: Palma

Martirologio Romano: Nel villaggio di Totoclán nella regione di Guadalajara in Messico, san Saba Reyes, sacerdote e martire, che morì durante la persecuzione messicana per Cristo Sacerdote e Re dell’universo.


Dopo le grandi persecuzioni contro la Chiesa nel periodo della Rivoluzione Francese, delle leggi anticlericali dei governi italiani e francesi della seconda metà dell’Ottocento, delle sanguinose persecuzioni contro i missionari e fedeli cattolici in Cina, negli anni a cavallo fra il XIX e XX secolo; della Rivoluzione Bolscevica in Russia del 1918 e prima di arrivare negli anni 1934-1939 alla grande carneficina della Guerra Civile Spagnola, si ebbe la persecuzione in Messico dal 1915 al 1929.
Dopo la dittatura di Porfirio Diaz (1876-1911) si ebbe un periodo di rivoluzioni e di guerre civili; in quest’arco di anni, le condizioni della Chiesa nel Messico furono estremamente difficili, specialmente dopo l’entrata in vigore, il 5 febbraio 1917, della nuova Costituzione anticlericale e antireligiosa.
Il clero cattolico fu oggetto di minacce, soprusi e vessazioni da parte dei governi massonici, che si spinsero fino alla più bruta violenza e all’assassinio; in fondo si perseguitarono i preti solo perché sacerdoti.
In un continuo succedersi di presidenti chiamati a guidare il Paese, alcuni uccisi, in preda a costanti conflitti interni, si giunse alla nomina di Plutarco Elias Calles nel 1924, questi lavorò per il risanamento economico, il rafforzamento del movimento operaio, favorì la distribuzione della terra ai contadini, ma inasprì anche la lotta contro la Chiesa, che in varie occasioni e situazioni si tramutò in una vera e propria persecuzione; i sacerdoti ed i laici cattolici vennero a scontrarsi con il più acerrimo ateismo.
Papa Giovanni Paolo II il 22 novembre 1992, beatificò nella Basilica di S. Pietro, 25 di questi perseguitati, che da sacerdoti, parroci o laici, donarono con il martirio la loro vita per la difesa della Fede e per l’affermazione della presenza della Chiesa Cattolica in Messico.
Il 21 maggio del 2000 lo stesso pontefice li ha canonizzati tutti i 25 in Piazza S. Pietro, indicando alla Chiesa Universale l’esempio della loro santità, operata in vita e coronata dal martirio finale.
Si riportano i 25 nomi, per ognuno esiste una scheda biografica:
Parroco Cristóbal Magallanes Jara - parroco Román Adame Rosales - parroco Rodrigo Aguilar Alemán - parroco Julio Alvarez Mendoza - parroco Luis Batis Sainz - sacerdote Agustín Caloca Cortés - parroco Mateo Correa Magallanes - sacerdote Atilano Cruz Alvarado - sacerdote Miguel de la Mora de la Mora - sacerdote Pedro Esqueda Ramírez - sacerdote Margarito Flores García - sacerdote José Isabel Flores Varela - sacerdote Pedro de Jesús Maldonado Lucero - sacerdote David Galván Bermudez - ragazzo Salvador Lara Puente - sacerdote Jesús Méndez Montoya - laico Manuel Morales - parroco Justino Orona Madrigal - sacerdote Sabás Reyes Salazar - parroco José María Robles Hurtado - ragazzo David Roldan Lara - sacerdote Toribio Romo Gonzáles - sacerdote Jenaro Sánchez Delgadillo - parroco David Uribe Velasco - viceparroco Tranquilino Ubiarco Robles. (La loro celebrazione collettiva è al 21 maggio).

Padre Sabás Reyes Salazar nacque a Cocula, Jalisco (diocesi di Guadalajara) il 5 dicembre 1883. Ordinato sacerdote nel dicembre 1911, divenne viceparroco a Tototlán, Jalisco (diocesi di San Juan de los Lagos) aveva una speciale devozione per la SS. Trinità; anima semplice e fervente invocava spesso le anime del Purgatorio.
Diede particolare cura alla formazione dei bambini e dei giovani, sia nell’insegnamento della catechesi, sia nelle scienze, arti e mestieri, soprattutto nella musica. Di carattere affabile, si dedicava al suo ministero, esigendo molto rispetto e sollecitudine, per tutto ciò che si riferiva al culto.
Quando nel 1927 si fu nel periodo più pericoloso per i sacerdoti, gli veniva consigliato di lasciare Tatotlán, ma lui replicava: “Mi hanno lasciato qui e qui attendo. Vediamo che cosa determina Iddio”. Nella Settimana Santa dell’aprile 1927, giunsero nel paese le truppe federali, con i proprietari di terre, cercando il parroco don Francisco Vizcarra ed i suoi assistenti.
Trovarono solo padre Sabás Royes Salazar e su di lui riversarono tutto l’odio generato in quella guerra civile; lo presero e lo legarono con forza ad una colonna del tempio parrocchiale e lo torturarono per tre giorni negandogli cibo ed acqua; poi con incredibile sadismo gli bruciarono le mani.
Il 13 aprile 1927, mercoledì santo, fu portato dentro il recinto del cimitero, dove, dopo che trovò la forza di gridare “Viva Cristo Re”, l’eroico vicario che non aveva voluto lasciare i suoi parrocchiani, venne fucilato; aveva 44 anni.





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