2 luglio

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Stellina788
00venerdì 2 luglio 2010 11:50

San Bernardino Realino Sacerdote

2 luglio

Carpi, Modena, 1 dicembre1530 - Lecce, 2 luglio 1616

Diventa patrono di una città mentre era ancora in vita. Lecce, estate del 1616: il padre gesuita Bernardino Realino sta morendo, 42 anni dopo esservi arrivato. I reggitori del Municipio lo vanno allora a visitare in forma ufficiale. E gli fanno richiesta di voler essere il protettore della città. Lui, che tanto aveva fatto del bene a Lecce, acconsente. Nato in una famiglia illustre di Carpi, che per i suoi primi studi gli faceva venire i maestri a casa, fu poi mandato all'Accademia modenese. A 26 anni, si laurea in diritto civile e canonico. Sotto la protezione di Cristoforo Madruzzo, Bernardino si avvia sulla strada dei «pubblici uffici». A un certo punto, però, la sua carriera s'interrompe. Bernardino Realino frequenta i Gesuiti ed entra nella Compagnia. Nel 1567 è ordinato sacerdote e diventa il maestro dei novizi gesuiti. Sette anni dopo, a Lecce, crea un collegio al quale si dedicherà fino alla morte. Papa Pio XII lo proclamerà santo nel 1947. (Avvenire)

Patronato: Lecce

Etimologia: Bernardino = ardito come orso, dal tedesco

Martirologio Romano: A Lecce, san Bernardino Realino, sacerdote della Compagnia di Gesù, che rifulse per carità e bontà e, rigettati gli onori mondani, si dedicò alla cura pastorale dei prigionieri e degli infermi e al ministero della parola e della penitenza.

Diventa patrono di una città addirittura da vivo. Mai vista una cosa simile e con tanta solennità. Siamo a Lecce, nell’estate del 1616: il padre gesuita Bernardino Realino sta morendo, 42 anni dopo esservi arrivato. I reggitori del Municipio lo vanno allora a visitare “in corpo”, ossia tutti insieme, in forma ufficiale.
E gli fanno la sbalorditiva richiesta di voler essere il protettore della città di generazione in generazione, per sempre. Il moribondo acconsente, tranquillo e lieto. D’altra parte è già amico, consigliere, soccorritore dei cittadini – è già loro “patrono” – da più di quattro decenni. Anche se non è leccese, e nemmeno pugliese.
E’ emiliano, nato in una famiglia illustre di Carpi, che per i suoi primi studi gli faceva venire i maestri in casa, e poi l’ha mandato all’Accademia modenese, all’epoca uno dei più illustri centri culturali d’Italia. Negli studi lo attira tutto: la letteratura classica (ci è giunto un suo commento in latino a Catullo) e successivamente a Bologna la filosofia, poi ancora la medicina. Infine, all’età di 26 anni, si laurea in diritto civile e canonico.
Suo padre è un collaboratore del cardinale Cristoforo Madruzzo, che come vescovo di Trento è stato il “padrone di casa” del Concilio famoso, e uno dei protagonisti; e che dal 1556 è governatore di Milano per conto del re Filippo II di Spagna. Sotto la sua protezione, il dotto Bernardino si avvia per la strada dei “pubblici uffici”. Comincia facendo il podestà a Felizzano Monferrato, poi va ad Alessandria come “avvocato fiscale” (una sorta di procuratore della Repubblica). Dopo altri incarichi in Piemonte, passa al servizio del governo vicereale in Napoli, anch’essa città soggetta alla Spagna col suo regno.
Qui però la sua carriera s’interrompe. Bernardino Realino frequenta i Gesuiti da poco giunti in città e poi decide di essere uno di loro, abbandonando codici e carriera. Lo accoglie nel 1564 Alonso Salmeron, uno degli iniziatori della Compagnia di Gesù con Ignazio di Loyola.
Nel 1567 Bernardino è ordinato sacerdote e diventa il maestro dei novizi gesuiti. Sette anni dopo, a Lecce, crea un collegio al quale si dedicherà fino alla morte. Ma insieme si dedica alla gente di Lecce, ricchi e poveri, istruiti e ignoranti, tutti sbalorditi per la sua irriducibile pazienza nell’occuparsi di situazioni, necessità, miserie, a cui s’ingegna di provvedere con un dinamismo che ha del prodigioso: tant’è che gli si attribuiscono vari miracoli già da vivo.
Quando poi il male lo colpisce, è naturale per la municipalità fare quel passo inaudito e bellissimo, chiedendo a un morente aiuto e protezione anche oltre questa vita. E per Bernardino è naturalissimo rispondere di sì, con le estreme forze. Fatta questa promessa, si spegne a 86 anni. Papa Pio XII lo proclamerà santo nel 1947.



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00venerdì 2 luglio 2010 11:51

Beata Eugenia Joubert Suora francese

2 luglio

Yssingeaux (Le Puy), 11 febbraio 1876 - Liegi, 2 luglio 1904

Figlia dei viticoltori Pietro Joubert e Antonia Celle, nacque l'11 febbraio 1876 a Yssingeaux (Le Puy) in Francia, quarta di otto figli. A 19 anni nel 1895 volle farsi suora tra le religiose della Santa Famiglia del Sacro Cuore, a Le Darne. Fece il noviziato a St-Denis (1896), e la professione religiosa nel 1897, dedicandosi completamente all'apostolato ed all'insegnamento del catechismo ai ragazzi e fanciulle. A 26 anni, nel 1902 si ammalò gravemente, nonostante ciò, stette per un anno a Roma dall'aprile del 1903 al maggio del 1904. Al suo ritorno a Liegi fu costretta a letto e dopo circa un mese di malattia, si spense a Liegi, il 2 luglio 1904 a 28 anni, ripetendo tre volte il nome di Gesù. Il suo corpo riposa nella cappella delle suore della Santa Famiglia del Sacro Cuore a Dinant. Giovanni Paolo II l'ha beatificata il 20 novembre 1994. (Avvenire)

Martirologio Romano: A Liegi in Belgio, beata Eugenia Joubert, vergine della Congregazione della Sacra Famiglia del Cuore di Gesù, che si adoperò per trasmettere ai bambini la dottrina cristiana e, ammalatasi di tisi, seguì con amore Cristo sofferente.

Figlia degli agiati viticoltori Pietro Joubert e Antonia Celle, nacque l’11 febbraio 1876 a Yssingeaux (Le Puy) in Francia, quarta di otto figli.
Fino ai 16 anni seguì tutto un corso di studio ed educazione civile e religiosa; fino al 1887 dalle Orsoline di Monistral, dove ricevette anche la Prima Comunione; nel 1888 presso le suore di S. Giuseppe nella sua città Yssingeaux e poi dal 1889 al 1892 nel Collegio di S. Maria a Le Puy, condotto dalle suore di Notre Dame.
A 19 anni nel 1895, consigliata dal suo direttore spirituale Rubussier, volle farsi suora tra le religiose della S. Famiglia del Sacro Cuore, a Le Darne; fece il noviziato a St-Denis (1896); e la professione religiosa nel 1897, dedicandosi completamente all’apostolato ed all’insegnamento del catechismo ai ragazzi e fanciulle.
Fu in varie case del suo Istituto, in Francia e Belgio: Aubervilliers, Le Puy, St-Denis, Roma, Liegi.
A 26 anni, nel 1902 si ammalò gravemente, nonostante ciò, stette per un anno a Roma dall’aprile del 1903 al maggio del 1904; al suo ritorno a Liegi fu costretta a letto e dopo circa un mese di malattia, si spense a Liegi, il 2 luglio 1904 a 28 anni, ripetendo tre volte il nome di Gesù.
Il suo corpo riposa nella cappella delle suore della S. Famiglia del Sacro Cuore a Dinant. Nella prefazione di una sua biografia: “Un’epopea di fortezza”, il cardinale francese Lépicier ha scritto: “Nella sua corta carriera di religiosa, suor Eugenia ha messo meravigliosamente in pratica l’alleanza di una vita interiore perfetta e di un apostolato attivissimo tra i piccoli. Prevenuta fin dall’infanzia dalle grazie più elette, ella entra nella vita di perfezione come un gigante”.
Papa Giovanni Paolo II l’ha beatificata il 20 novembre 1994, sancendo così ufficialmente la santità della sua giovane vita, spesa totalmente al servizio di Dio e aderendo in pieno alla Sua volontà.



Stellina788
00venerdì 2 luglio 2010 11:52

Santi Liberato, Bonifacio, Servio, Rustico, Rogato, Settimo e Massimo Martiri

2 luglio

sec. IV

Fra i monasteri africani che l'Ordine considera di ispirazione fondamentalmente agostiniana, riveste una importanza particolare quello di Gafsa in Tunisia per il martirio dei suoi religiosi.In seguito all'editto emanato nel 484 dal re Unnerico che ordinava la consegna ai mori dei monasteri con i loro abitanti, i sette religiosi di quel monastero furono incarcerati e, dopo aver sopportato acerbe prove, vennero martirizzati a Cartagine, offrendo un grande esempio di fede e di unione fraterna.La loro celebrazione liturgica fu concessa all'Ordine il 6 giugno 1671

Patronato: S. Liberato di Cantalice (RI)

Emblema: Palma

Martirologio Romano: Commemorazione dei santi martiri Liberato, abate, Bonifacio, diacono, Servio e Rustico, suddiaconi, Rogato e Settimo, monaci, e il fanciullo Massimo: a Cartagine, nell’odierna Tunisia, durante la persecuzione dei Vandali, sotto il re ariano Unnerico, furono sottoposti a crudeli torture per aver confessato la fede cattolica e difeso l’unicità del battesimo; uccisi a colpi di remi sul capo mentre erano inchiodati a legni su cui si era tentato di bruciarli, conclusero il corso del loro ammirevole combattimento, ricevendo dal Signore la corona del martirio.


Santi Liberato, Bonifacio e Compagni, martiri.

Ricevuto il battesimo da s. Ambrogio, a Milano, nel 387 s. Agostino e ritorna in Africa per mettere in atto il suo proposito di vita monastica. “Ricevuta la grazia battesimale - è il suo biografo s. Possidio che racconta - decise di tornare con altri concittadini e amici suoi, postisi come lui al servizio di Dio, in Africa, alla propria casa e ai propri campi. Là giunto, dopo essersi liberato dei suoi beni, vi dimorò circa tre anni, e viveva per Dio insieme a chi si era unito a lui, nel digiuno, nella preghiera, nelle opere buone, nelle meditazioni, di notte e di giorno, della legge del Signore. Anche quando divenne vescovo, nel 395, e poi per tutta la vita, visse da monaco, pur assillato dalle tante occupazioni pastorali e propagò con ogni mezzo la vita religiosa in tutta l'Africa cristiana.
Alla sua morte, avvenuta nel 430, continua il biografo, “Agostino lasciò alla Chiesa monasteri maschili e femminili, pieni di servi e serve di Dio, con i loro superiori, insieme a biblioteche ben fornite di libri”.
Le invasioni dell'Africa romana prima da parte dei Vandali poi degli Arabi distrussero le fondazioni monastiche agostiniane.
Fra i monasteri africani che l'Ordine considera di ispirazione fondamentalmente agostiniana, riveste una importanza particolare quello di Gafsa in Tunisia per il martirio dei suoi religiosi: Bonifacio diacono, Liberato abate, Severo, Rustico, Rogato, Settimio e Massimo monaci.
In seguito all'editto emanato nel 484 dal re Unnerico che ordinava la consegna ai mori dei monasteri con i loro abitanti, i sette religiosi di quel monastero furono incarcerati e, dopo aver sopportato acerbe prove, vennero martirizzati a Cartagine, offrendo un grande esempio di fede e di unione fraterna. La loro celebrazione fu concessa all'Ordine il 6 giugno 1671e la memoria liturgica ricorre il 26 agosto.



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00venerdì 2 luglio 2010 11:53

San Lidano da Sezze Abate

2 luglio

Civita d’Antino (AQ), 1034 ca.– Sezze (LT), 1118

E' con san Carlo da Sezze il patrono della cittadina laziale in provincia di Latina. Nato ad Antena, oggi Civita d’Antino (L’Aquila) intorno al 1026, giunse a Sezze nel 1046 e vi edificò il monastero benedettino di Santa Cecilia, di cui divenne abate. Con i suoi monaci si dedicò alla bonifica del territorio paludoso del comprensorio monastico, che si estendeva tra la città e i territori del ducato di Sermoneta. San Lidano morì nel 1118. La sua opera fu distrutta da Federico II. In seguito Gregorio IX nel 1232 trasferì i restanti beni del monastero al convento Florense di Anagni. (Avvenire)

Martirologio Romano: A Sezze nel Lazio, san Lidano, abate e fondatore del monastero del luogo, che cercò di bonificare il terreno dei monaci dalla malsana palude circostante.

Il santo abate nacque nel terzo decennio dell’XI secolo a ‘Civitas Antena’, attuale Civita d’Antino, provincia de L’Aquila; a nove anni entrò a far parte del monastero di Montecassino.
Giunto nella maggiore età, una parte del suo patrimonio ereditato dalla famiglia, venne destinato, con il consenso dell’abate Richerio I (1038-1055) di Montecassino, alla costruzione di un monastero con annessa chiesa, alle falde del monte Antoniano, nel cuore delle paludi Pontine, diocesi di Sezze.
La zona conserva ancora il nome di Quarto S. Lidano, infatti egli visse per settantadue anni in questo monastero, di cui era divenuto abate.
Lidano morì nel 1118 e venne sepolto nella chiesa del suo cenobio, restò lì fino alla distruzione della chiesa, avvenuta durante la lotta tra l’imperatore Federico II (1194-1250) e il papato; le reliquie furono traslate nella cattedrale di Sezze, per volontà del vescovo Drusino.
Altri Atti ufficiali ci ricordano il culto tributatogli nella zona pontina; nel 1312 la più grande delle campane della cattedrale, tuttora esistente, venne dedicata a s. Lidano e nel 1473, il magistrato della città, s’impegnò con atto notarile ad offrire in onore del santo, un calice d’argento ogni due anni.
Papa Leone X (1475-1521) ne confermò il culto e disciplinò la festa stabilita dagli Statuti della città setina (Sezze); nel 1606 ci fu la ricognizione delle reliquie, con la costruzione di un nuovo altare, completato nel 1672, con una tribuna in legno dorato.
San Carlo da Sezze francescano del 1670, portava sempre con sé una reliquia del santo e con essa benedisse, l’ammalato papa Clemente IX.
Pio VI il 9 aprile 1791, concesse l’ufficio proprio e la solenne festività del 2 luglio. Un codice del secolo XIV, conservato nell’Archivio capitolare di Sezze, contiene la più antica immagine di Lidano con la narrazione della sua vita, egli è raffigurato con abiti monacali benedettini, con nelle mani il libro della Regola ed il pastorale di abate.

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00venerdì 2 luglio 2010 11:54

Santa Monegonda Venerata a Tours

2 luglio

Monegonda, santa di Tours del VI secolo, è conosciuta solo per una Vita molto concisa che costituisce il capitolo XIX della Vita dei Padri di Gregorio di Tours e un riassunto, molto suggestivo, che costituisce il capitolo 24 di In gloria dei Confessori. Ella fa parte di quel gruppo di personaggi che Gregorio dovette conoscere da vicino e dei quali egli narra la vita esemplare con scopi di edificazione nonché storici.


Monegonda a Chartres
Monegonda è originaria di Chartres. È sposata e madre di due figli che muoiono prematuramente. Inconsolabile nella società, ma timorosa che il suo dolore inconsolabile sia un’offesa a Dio, rifiuta i suoi abiti di lutto e si fa costruire una celletta nella quale si ritira in preghiera e digiuno. Il suo solo nutrimento è costituito da un pane d’orzo e da una miscela di ceneri che essa stessa brucia.
Un miracolo certifica rapidamente questo cambiamento. La serva (presso Gregorio di Tours tutti i santi di buon lignaggio, anche se rinunciano a tutto, conservano almeno uno schiavo o un servitore) la abbandona, stanca delle sue privazioni. Sprovvista d’acqua per impastare il suo pane, Monegonda si affida a Dio e, a seguito delle sue preghiere, si mette a nevicare ed ella può raccogliere la neve sul davanzale.
Ma è un altro miracolo che deciderà del suo destino. Mentre passeggia nel giardino che si trova accanto alla celletta, una vicina, che mentre metteva del frumento ad essiccare sul tetto della casa la guardava con curiosità indiscreta, divenne improvvisamente cieca. Monegonda è disperata: “Povera me, se per una piccola offesa fatta alla mia nullità, le persone vengono accecate!” Si mette a pregare e poi, toccando la donna e facendo il segno della croce, le rende la vista.
L’evento fa scalpore. Ella si chiude nella sua abitazione rifiutandosi di intercedere per un sordo che le hanno portato e che viene comunque guarito. Osannata dai suoi vicini, timorosa di soccombere alla vanità, abbandona casa, marito e famiglia e si porta a Tours, presso la tomba di San Martino.

Il miracolo di Avoine
Lungo la via si ferma ad Avoine (lat. Evena), dove è in corso la celebrazione della vigilia di San Medardo, del quale la chiesa possiede reliquie. Dopo una notte di preghiere, l’indomani nel corso della messa, vede avvicinarsi una ragazza, “gonfia a causa del veleno emesso da una pustola maligna” che si butta ai suoi piedi dicendole “Aiutami, perché una morte crudele cerca di strapparmi dalla vita”. Come sua abitudine, Monegonda si prosterna, supplica Dio, poi, alzandosi, fa un segno di croce. “Di seguito il tumore si apre in quattro, il pus cola fuori e la morte abbandona quella ragazza.”
Giova qui rimarcare la precisione quasi chirurgica con la quale Gregorio ci narra la guarigione.

Monegonda a Tours
Arrivata a Tours, rende grazie a Dio per aver potuto contemplare coi suoi occhi il sepolcro di San Martino, poi si installa lì vicino “in una celletta” per digiunare e pregare. Le guarigioni riprendono: la figlia di “una certa vedova” (sicuramente una persona famosa) è guarita dalla contrattura delle mani (un male molto citato nella letteratura agiografica dell’alto Medioevo).
Qui si verifica un fatto: il marito, avendo sentito parlare della reputazione della sua sposa, raduna amici e vicini per riportarla di forza a Chartres. Ella ritrova quindi la sua prima cella, e moltiplica digiuni e preghiere (sue armi preferite), poi, sentendosi pronta e implorato il soccorso di san Martino, riprende la strada di Tours. Il marito non insisterà più (evidentemente un miracolo da accreditare a san Martino). Si ha soprattutto l’impressione che Gregorio tenda a giustificare Monegonda, facendo appello al più incontestabile dei santi, del fatto che ella abbia completamente abbandonato marito e famiglia.
Monegonda si va circondando di un piccolo gruppo di donne che conduce, all’ombra della tomba di san Martino, un genere di vita monacale del quale Gregorio ci descrive qualche tratto: preghiera e accoglienza dei malati, nutrimento limitato al pane d’orzo, del vino misto all’acqua nei giorni di festa, stuoie di canne per letto…
I miracoli si susseguono: una ragazza coperta di piaghe che erano state “prodotte, come si dice talvolta, per fare [spurgare] il pus” guarisce quando Monegonda spalma le sue piaghe con la saliva; un giovane uomo, che soffre dei morsi di serpenti velenosi generatisi nel suo corpo dopo aver ingerito una bevanda “malefica”, può esserne liberato dopo che Monegonda gli avrà tastato lo stomaco per localizzare i rettili, posto una foglia di vite spalmata di saliva sul posto giusto e fatto il segno della croce; una cieca è guarita dalla cataratta mediante l’imposizione delle mani…
Quando Monegonda è sul punto di morire, le sue compagne la supplicano di benedire dell’olio e del sale che esse potranno dare ai malati che verranno a chiedere soccorso. Viene sepolta nella sua stessa celletta. Gregorio riporta tutta una serie di guarigioni ottenute sulla sua tomba con l’aiuto dell’olio e del sale miracolosi.

Monegonda e l’agiografia
Dal punto di vista della tipologia merovingia dei santi, Monegonda si inquadra (al femminile) nel modello dei santi intercessori. Tutti i suoi miracoli prevedono che prima di tutto ella preghi e implori Dio per colui che vuole beneficiare. Ed è questa vita esemplare, totalmente centrata sulla preghiera e l’astinenza, che dà efficacia alla sua intercessione. Dio e san Martino (non scordiamo che siamo a Tours), in considerazione dei suoi meriti, esaudiscono la preghiera che ella fa loro a vantaggio di terzi.
Senza appartenere all’aristocrazia, fatto che Gregorio non ha mancato di sottolineare, Monegonda viene da una famiglia agiata. “Chiamata” alla santità dopo un dramma personale, ella risponde con una vera conversione (sottolineata nel testo da tutta una serie di riferimenti scritturali la cui successione ha valore di analisi psicologica e un miracolo che ne costituisce, per così dire, il sigillo teologico). La conversione implica idealmente da una parte la rinuncia agli agi della vita mondana, dall’altra la rottura con la sua famiglia “naturale” a vantaggio di quella famiglia spirituale che è la Chiesa. Monegonda adempie alla prima condizione imponendosi l’austerità e l’umiltà (si abbassa perfino a lavorare con le sue mani almeno per impastare il pane), ma senza mai raggiungere gli eccessi della mortificazione. La seconda si rivela più problematica poiché, in un mondo dove, a meno di appartenere agli strati più alti dell’aristocrazia, la donna non gode che di una libertà limitata, ella necessita del sostegno speciale di san Martino per conseguire i suoi fini.
I miracoli di Monegonda, senza essere granché originali, si inscrivono in un sistema taumaturgico assai caratteristico del “pellegrinaggio di Tours”. Si possono comparare, ad esempio, con quelli compiuti dal taifalo [popolo simile ai tartari] Senoch, dalla personalità tuttavia assai diversa. Essi si produssero dopo la sua morte. Nell’agiografia merovingia, più che in ogni altra epoca, sono i miracoli post mortem che autenticano la santità del defunto. Ma a tours essi partecipano anche all’attività del pellegrinaggio martiniano, dove ogni santa tomba diventa una specie di collegamento della tomba centrale di san Martino.
Un miracolo curioso illustra questa complementarietà dei santi. Un cieco, pregando sulla tomba della santa, si addormenta. Ella gli appare in sogno e gli dice: “Mi reputo indegna di essere paragonata ai santi; tuttavia recupererai qui la vista da un occhio; corri poi ai piedi del beato Martino e prosternati davanti a lui con l’anima compunta. Egli ti renderà l’uso dell’altro occhio”. Le cose evidentemente funzionavano così. Monegonda testimonia nello stesso tempo della sua santità personale (anche se per umiltà si defila) e della sua posizione, tutto considerato subordinata, nella familia martiniana.

Monegonda nella storia
Monegonda dev’essere arrivata a Tours poco dopo il 561 (la presenza delle reliquie di san Medardo ad Avoine ci danno un termine post quem) in un’epoca in cui il vescovo Eufronio pareva aver vigorosamente rilanciato il pellegrinaggio martiniano e attirato nella sua città un buon numero di vocazioni religiose.
È a Luce Pietri, nella sua tesi su Tours, che va il merito di aver saputo precisare la figura storica della santa.
L’accoglienza dei malati e di ogni sorta di diseredati attirati dal più importante dei santuari taumaturgici della Gallia, ha certamente posto numerosi problemi alla chiesa di Tours. Si sa che Eufronio, e dopo di lui Gregorio, si sono attivamente preoccupati della registrazione dei poveri.
Che ne era dei malati e degli infermi? Luce Piatri non ha potuto trovare tracce esplicite a Tours di un edificio destinato ad accoglierli, uno xenodochio come ne esistevano in altre città. Questo ruolo sembra essere stato lì assicurato dai monasteri che, come quello istituito da Monegonda, quello più antico di san Venanzio, o quello quasi contemporaneo di san Senoch un po’ distante dalla città, sorgevano attorno alla basilica di san Martino.
Nell’opinione di Gregorio, ogni guarigione - ritorno all’ordine perturbato dal male o dal peccato - è più o meno un miracolo. La stilizzazione agiografica è dunque per natura ingannevole, poiché mette in vista il miracolo “istantaneo” e spettacolare a detrimento delle cure ripetute che avrebbero tuttavia dovuto essere la regola in queste istituzioni.
L’atmosfera satura della virtus martiniana, la messa in scena dell’intercessione, la preghiera e la gestualità che l’accompagna, hanno di certo dovuto avere la loro efficacia psicosomatica. Ma c’è anche in questi monasteri una reale tecnicità.
Quando Monegonda pratica la palpazione, quando usa compresse di saliva o di olio benedetto, massaggia le mani contratte, si tratta certamente di una attività medicale. Fra i miracoli post mortem che narra Gregorio, quello del cieco guarito a metà sopra citato lascia pensare che altre tecniche, ereditate dall’antichità, come l’incubatio nel santuario, avessero luogo nel ambito [delle chiese] di Tours.
Bisogna dunque vedere Monegonda come una donna pia che, in risposta all’appello del vescovo Eufronio, viene a Tours per fondare e dirigere in maniera esemplare uno di questi monasteri / ospedali indispensabili al buon funzionamento del pellegrinaggio. Tale funzione caritativa la integra nel dispositivo ecclesiastico e ne fa, in morte più ancora che in vita, un membro eminente della famiglia martiniana.
È interessante notare anche - fatto utile per una sociologia della santità - che, secondo Gregorio, la famiglia si glorifica dei miracoli di Monegonda ed è questa reputazione crescente che spinge suo marito a volerla recuperare. Pensava forse la famiglia di approfittare essa stesse del suo dono di guarigione? Un’altra domanda sorge appresso. Ha appreso Monegonda nella stessa Tours l’insieme delle sue tecniche di guarigione o ha portato ella alla chiesa di Eufronio un sapere acquisito nella vita laica? Il miracolo molto “professionale” della chiesa di Avoine ci obbliga a porre la domanda. Purtroppo non abbiamo modo di rispondere.

Il culto di Monegonda
Si concorda in genere che Monegonda sia morta prima del 573, poiché nulla indica nel testo che Gregorio l’abbia conosciuta personalmente, almeno non nelle sue funzioni episcopali; ma l’argomento non è necessariamente decisivo.
Comunque sia, oscuramente e senza dubbio modestamente, la sua fondazione è sopravvissuta ben a lungo dopo la fine del suo olio benedetto: appare citata per l’ultima volta nel 1031 in un diploma di Roberto il Pio. In data sconosciuta il suo corpo è stato trasferito al monastero di Saint-Pierre-le-Puellier ove è rimasto sino alla profanazione della tomba fatta dai protestanti nel 1562.
(NOTA: secondo J. Vieillard-Troiekouroff, passim, che si basa su una nota di dom Ruinart nella sua edizione di Gregorio di Tours (1699), le reliquie di Monegonda che le religiose avevano avuto tempo di nascondere, erano nuovamente venerate nel monastero nel 1657).
Immediatamente dopo la morte, la sua tomba, divenuta martyrium, è ricoperta da una palla, alla quale Gregorio fa allusione, probabilmente circondata da un cancello, e naturalmente accessibile ai fedeli. È probabile che Gregorio stesso abbia istituito delle veglie in suo onore. In ogni caso, il suo nome appare alla data del 2 luglio nelle aggiunte gallicane al martirologio gerolamino e questa data non può essere che di origine tourense. Va notato che il martirologio romano le accorda (per merito certamente di Gregorio) l’attributo di confessore, molto raro per una donna.
Nella sua diocesi d’origine, è menzionata, e niente di più, nella liturgia di Chartres, ma la chiesa parrocchiale di Orphin, ora nel dipartimento degli Yvelines, le è dedicata.



Stellina788
00venerdì 2 luglio 2010 11:55

Beato Pietro di Lussemburgo Vescovo di Metz

2 luglio

Ligny-en-Barrois (Nancy) Francia, 20 luglio 1369 - Villeneuve-les-Avignon, 2 luglio 1387

Martirologio Romano: A Villeneuve presso Avignone in Francia, transito del beato Pietro di Lussemburgo, vescovo di Metz, sempre dedito alle penitenze e alla preghiera.


La vicenda terrena del giovane Pietro (visse solo 18 anni), s’inserisce nel contesto religioso, politico, morale, che distinse il potere pontificio nella fine del XIV secolo.
Era il sesto figlio di Guido di Lussemburgo, conte di Ligny e di Mahaut di Châtillon e nacque il 20 luglio 1359 a Ligny-en-Barrois vicino Nancy in Francia. A due anni divenne orfano del padre ed a quattro anni della madre, per cui venne educato dalla zia Giovanna di Châtillon, a Saint-Pol.
Nel 1377 a soli otto anni si trasferì a Parigi, dove divenne allievo ed amico del famoso Pietro d’Ailly, suo insegnante al Collegio di Navarra.
A questo punto tocchiamo l’argomento, che la nostra mentalità moderna non può comprendere, ma che a quell’epoca era cosa abbastanza usuale; Pietro di Lussemburgo a soli nove anni nel 1378, venne nominato canonico di Parigi dall’antipapa Clemente VII (cardinale Roberto di Ginevra, che fu eletto papa dal 1378 al 1394, dai cardinali francesi riuniti a Fondi) e che iniziò lo Scisma d’Occidente, contrapponendosi al papa Urbano VI (1378-1389), che aveva definitivamente spostato la sede pontificia da Avignone a Roma.
Lo stesso Clemente VII lo nominò nel 1382 canonico di Cambrai e arcidiacono di Dreux e di Bruxelles e appena quattordicenne lo nominò vescovo di Metz il 10 febbraio 1384, e il successivo 15 aprile lo promosse cardinale.
Ma nella lotta fra il papa Urbano VI e l’antipapa Clemente VII, la città di Metz era una sede ambita da ambo le parti, per cui il re Venceslao IV di Boemia (1361-1419) che appoggiava il papa, aveva nominato vescovo Thilmann Vuss.
Pietro aiutato dall’intervento dei soldati del proprio fratello Valeran, prese possesso della sede episcopale, ma nel settembre del 1384, si dovette allontanare per andare a Ligny, ad assistere il fratello Roberto morente, e il nemico ne approfittò avanzando fino a Metz; di nuovo fu necessario l’intervento del fratello Valerian; ma costui pur non volendo, produsse devastazioni nel territorio attorno a Metz, così Pietro non ritenne più opportuno rimanere come vescovo, rinunciando alla carica nel 1385 e si ritirò a Ligny e poi a Parigi.
Ma l’antipapa Clemente VII, il 23 settembre 1386 lo chiamò alla sua corte di Avignone; qui il giovane nobile
non poté sottrarsi alle responsabilità politiche, che l’appartenenza alla sua aristocratica famiglia comportava, nonostante la giovane età.
Pietro, più che nei suoi scritti ascetici, si dimostrò austero nel proprio modo di vivere, anche alla corte papale. In questo periodo avignonese, si adoperò con successo per la divulgazione in tutto il mondo, della festa della Presentazione di Maria Vergine; essendosi ammalato fu impedito nel realizzare il suo progetto di recarsi dai re d’Inghilterra e di Francia, per indurli a stendere un trattato di pace.
A causa della grave malattia che lo colpì, nel marzo del 1387 si trasferì a Villeneuve-les-Avignon, dove morì il 2 luglio 1387 a diciotto anni e secondo il suo desiderio fu sepolto nel cimitero dei poveri di S. Michele di Avignone. Subito dopo la sua prematura morte, il popolo lo venerò come santo e taumaturgo, moltiplicando le sue raffigurazioni in miniature, dipinti, affreschi; con i segni che lo distinsero: tratti di adolescente, abito vescovile a volte cardinalizio, in atteggiamento di profonda preghiera.
Avignone nel 1432, lo dichiarò suo patrono, nonostante che il processo di beatificazione fosse interrotto per quattro volte (1389, 1390, 1433, 1435) e concluso solo nel 1527. Le diocesi di Avignone, Metz, Parigi, Verdun e Lussemburgo lo celebrano il 2 luglio.
L’antipapa Clemente VII, che tanto l’aveva apprezzato e protetto in vita, nel 1395 fondò sulla sua tomba un convento per i Celestini. Quasi tutte le sue reliquie furono disperse durante la Rivoluzione Francese (1792), i resti si venerano a St-Didier in Avignone.



Stellina788
00venerdì 2 luglio 2010 11:55

Santi Processo e Martiniano Martiri

2 luglio

Martirologio Romano: A Roma nel cimitero di Damaso al secondo miglio della via Aurelia, santi Processo e Martiniano, martiri.

Il Martirologio Geronimiano li commemora tre volte: al 31 magg., al 1° e al 2 lugl. indicando il loro sepolcro al II miglio della via Aurelia. L'ultima data è il vero dies natalis, che è anche attestato dai Sacramentari Gregoriano e Gelasiano di S. Gallo e dal Calendario marmoreo di Napoli. In loro onore fu edificata una chiesa, non lungi dall'attuale basilica di S. Pancrazio, efficiente e visitata dai pellegrini nel sec. VII come attestano gli Itinerari. Questa chiesa, secondo una notizia del Praedestinatus (PL, LIII, col. 616), alla fine del sec. IV fu occupata da un prete montanista con lo specioso pretesto che i due santi sarebbero stati di origine frigia e quindi appartenenti a quel­la setta; l'intruso però fu cacciato da un decreto imperiale e la chiesa ritornò ai cattolici, ed in essa il papa Gregorio Magno recitò un'omelia nel­l'anniversario della festa dei martiri (PL, LXXVI, coll. 1232-38). Il discorso del pontefice non dà notizie sui due santi, ma, dopo aver accennato che presso i loro sepolcri accorrevano molti malati, riferisce un episodio accaduto al tempo dei Goti e secondo il quale una donna avrebbe visto i due santi apparirle sub peregrino habitu, vestiti come monaci. Questo particolare è in forte contrasto con le fonti letterarie, che presentano i martiri come militari e custodi degli apostoli Pietro e Paolo nel carcere Mamertino e da loro convertiti. Natu­ralmente neanche le fonti letterarie sono di inec­cepibile valore storico, ma le accennate diver­genze suscitano dei problemi sulla consistenza del­la tradizione romana a proposito della esistenza e della cronologia dei martiri, come sulla mutua dipendenza delle stesse fonti letterarie.
Questi problemi sono stati studiati da Pio Franchi de' Cavalieri, ma tutte le sue conclusioni non sembrano inoppugnabili. Secondo il dotto agiografo, già nel sec. V fu composta una passio molto generica senza precise notizie crono­logiche (più o meno simile al cap. II dell'attuale redazione) in cui si narrava il loro martirio e la loro sepoltura sulla via Aurelia; poco dopo, al­l'inizio del sec. VI, fu composta una nuova passio (BHL, II, p. 1011, n. 6947) nella quale i due santi erano presentati come carcerieri degli apo­stoli e da loro convertiti e battezzati (attuale cap. I). Queste notizie deriverebbero dalla falsa interpretazione delle scene scolpite sul sarcofago che custodiva le spoglie dei martiri, o di un altro lì vicino, nelle quali erano rappresentati episodi del ciclo di s. Pietro e precisamente: 1) Mosè-Pietro che fa scaturire le acque dalla rupe da cui bevono due soldati ebrei; 2) Pietro col bastone tra due guardie; 3) Pietro in colloquio con Gesù Cristo. Infine l'episodio dei due carcerieri fu preso e di­vulgato anche dall'apocrifo Martirio di Pietro dello pseudo-Lino.
La genesi della leggenda, delineata da Franchi de' Cavalieri, ha molte probabilità di verosimi­glianza almeno in linea di massima; invece è da rivedere, forse, la questione dell'interdipendenza tra la Passio e il Martirio, dal momento che que­st'ultimo è attribuito al sec. IV. Comunque, quale che sia il giusto giudizio sulla dipendenza delle fonti, si può con certezza affermare che dei santi P. e M. niente si conosce di sicuro, né sulla loro identità, né sul tempo del loro martirio; ma ciò non pregiudica affatto la loro esistenza storica e il culto loro tributato fin dall'antichità e attestato da documenti degni di fede.



Stellina788
00venerdì 2 luglio 2010 11:56

San Swithun di Winchester Vescovo

2 luglio

Wessex, Inghilterra, 800 c. - 2 luglio 862

Emblema: Bastone pastorale

Martirologio Romano: A Winchester in Inghilterra, san Swithun, vescovo, che fu insigne per l’austerità e l’amore per i poveri e fondò numerose chiese, che visitava andando sempre a piedi.

A causa della trascuratezza dei suoi contemporanei, non si hanno notizie di un certo rilievo sulla sua vita, né delle sue parole, né delle sue conversazioni, che fossero state riportate per le future generazioni.
Swithun visse nel IX secolo, fu cappellano reale del re Egberto di Wessex e tutore del figlio del re, principe Ethelwulf, che governò poi dall’839 all’858.
E su richiesta del re Ethelwulf, divenne vescovo di Winchester, allora capitale dell’Inghilterra; fu consacrato da Ceolnoth arcivescovo di Canterbury il 30 ottobre 852.
Governò la diocesi dieci anni, perché morì il 2 luglio 862; il re Ethelwold, il 15 luglio 971, fece trasferire le reliquie nella cattedrale, coincise con questo avvenimento la caduta di un’abbondantissima pioggia, tale che fu ritenuta segno della potenza del santo vescovo, evidentemente si era in periodo di prolungata siccità.
Da quel giorno si dice che se piove nel giorno di s. Swithun (15 luglio) pioverà anche per i seguenti 40 giorni. Da noi si dice la stessa cosa per s. Barbara e per s. Caterina d’Alessandria.
Era invocato per ottenere la pioggia, il suo culto che prese sviluppo dal secolo X, si estese per la fama di essere un santo guaritore, sia nell’isola di Wight, sia in Francia.
Nel 1093 il suo corpo fu di nuovo trasferito dalla vecchia alla nuova cattedrale di Winchester; la sua festa celebrata il 2 luglio per tutto il Medioevo, fu poi man mano sostituita al 15 luglio, giorno della prima traslazione.



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