24 dicembre

Versione Completa   Stampa   Cerca   Utenti   Iscriviti     Condividi : FacebookTwitter
Stellina788
00venerdì 17 dicembre 2010 10:42

Beate 6 Monache Mercedarie di Merriz

24 dicembre

Mercedarie nel grande convento di clausura di Vera Cruz in Berriz (Spagna) le Beate: Maria Anna Prieto, Anna de Arrano, Orsola de Larisgoizia, Maria Maguna, Margherita da Sarria e Maria dell’Assunzione, furono insigni monache per la preghiera, la mortificazione, l’umiltà e la contemplazione. Colme di meriti e opere sante migrarono onorevolmente al Signore eterno Sposo. L’Ordine le festeggia il 24 dicembre.




Stellina788
00venerdì 17 dicembre 2010 10:43

Sant' Adele di Pfalzel Abbadessa benedettina

24 dicembre

sec. VIII - m. 730

Fondatrice e prima abbadessa del monastero benedettino di Pfalzel (Treviri), che aveva la stessa regola dei monasteri di Ohren e di Nivelles; nonna ed educatrice di san Gregorio di Utrecht. Morì intorno al 730.Santa Adele di Pfalzel è legata al nome di un altro grande apostolo della Germania, l'inglese san Bonifacio che predicò il vangelo in Frisia, nella prima metà del secolo VIII. Durante uno dei suoi frequenti viaggi dalla Frisia alla Renania l'instancabile missionario fu ospite del monastero di cui era badessa Adele. La tradizione vuole che questa santa, rimasta vedova, entrasse nel monastero da lei stessa fondato, portandosi dietro il nipotino Gregorio. Durante la sosta nel monastero Bonifacio parlò così bene delle verità evangeliche che il ragazzo, ammirato, volle seguirlo. Divenne uno dei più zelanti discepoli del grande missionario. È uno degli episodi senza dubbio più significativi di questa santa il cui ricordo si confonde con quello più vivido di S. Irmina, accomunate dalla santità se non dalla parentela.La memoria di sant'Adele è ricordata il 18 e, per lo più, il 24 dicembre, insieme con quella di santa Irmina. Ha culto locale e popolare. (Avvenire)

Etimologia: Adele = figlia nobile, dall'antico tedesco

Ascolta da RadioMaria:
  

Fondatrice e prima abbadessa del monastero benedettino di Pfalzel (Treviri), che aveva la stessa regola dei monasteri di Ohren e di Nivelles; nonna ed educatrice di s. Gregorio di Utrecht. Morì ca. il 730. E' da identificare con l'abbadessa Adola, destinataria d'una lettera dell'abbadessa Elfled di Streaneshalch e con Adula, «religiosa matrona nobilis», che era a Nivelles il 17 marzo 691 e il cui figlioletto fu ivi salvato dall'annegamento. Poco sicura è invece l'identificazione di Adele con Attala, figlia di s. Irmina, come anche non è dimostrato che Adele fosse figlia di Dagoberto II e sorella di s. Irmina; infine, non genuino è il «testamentum Adulae». Mabillon sembra nutrire qualche riserva sulla santità di Adele, che peraltro ha attestazioni antiche, come quella riportata da un lezionario medievale dallo Schorn («Haec sanctissima A. plena dierum migravit ad Christum»), da cui risulta altresì che Adele fu sepolta nel suo monastero. Nel 1802 il sepolcro fu tolto; la cassa con le reliquie, portata nella chiesa parrocchiale di S. Martino, fu aperta nel 1868: non vi si trovò che una copia del testamento di s. Adele e un verbale del 1802. La tavola di piombo della traslazione del 1207 e l'originario coperchio del sepolcro furono rinvenuti nello stesso anno dietro l'altare maggiore, mentre la testa e le ossa della santa, nascoste sotto lo stesso altare, si scoprirono nel 1933.
La memoria di s. Adele è ricordata il 18 e, per lo più, il 24 dic., insieme con quella di s. Irmina. Ha culto locale e popolare.
S. Adele di Pfalzel è legata al nome di un altro grande apostolo della Germania, l'inglese S. Bonifacio che predicò il vangelo in Frisia, nella prima metà del secolo VIII. Durante uno dei suoi frequenti viaggi dalla Frisia alla Renania l'instancabile missionario fu ospite del monastero di Pfalzel, presso Treviri, di cui era badessa Adele.
La tradizione vuole che questa santa, rimasta vedova, entrasse nel monastero da lei stessa fondato, portandosi dietro il nipotino Gregorio. Durante la sosta nel monastero Bonifacio parlò così bene delle verità evangeliche che il ragazzo, ammirato, volle seguirlo. Divenne uno dei più zelanti discepoli del grande missionario. E’ uno sprazzo di luce sulla nebulosa storia di questa santa il cui ricordo si confonde con quello più vivido di S. Irmina, accomunate dalla santità se non dalla parentela.



Stellina788
00venerdì 17 dicembre 2010 10:43

Santi Antenati di Gesù

24 dicembre

Martirologio Romano: Commemorazione di tutti i santi antenati di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo, ovvero di quei padri che piacquero a Dio e che, trovati giusti, pur senza avere ricevuto le promesse, ma avendole soltanto guardate e salutate da lontano, morirono nella fede: da essi nacque secondo la carne il Cristo, che è al di sopra di tutto il creato, Dio benedetto nei secoli.




Stellina788
00venerdì 17 dicembre 2010 10:44

Beato Bartolomeo Maria Dal Monte Sacerdote e fondatore

24 dicembre

Bologna, 3 novembre 1726 - Bologna, 24 dicembre 1778

Nacque a Bologna il 3 novembre 1726. Ordinato sacerdote nel 1749, si laureò in teologia nel 1751. Intraprese una attività missionaria, predicando in ben 62 diocesi italiane. Fondò la Pia Opera delle missioni per la preparazione missionaria del clero diocesano. Scrisse nel 1775 l'opera: «Gesù al cuore del sacerdote secolare e regolare, ovvero considerazioni ecclesiastiche per ogni giorno del mese». Morì il 24 dicembre 1778. (Avvenire)

Martirologio Romano: A Bologna, beato Bartolomeo Maria Dal Monte, sacerdote, che in molte regioni d’Italia predicò al popolo cristiano e al clero la parola di Dio e con tale finalità istituì la Pia Opera delle Missioni.


Emulo di s. Leonardo da Porto Maurizio (1676-1751), fu nel XVIII secolo, un grande predicatore nell’Italia Settentrionale e Centrale.
Bartolomeo Maria Dal Monte nacque nella dotta città di Bologna, il 3 novembre 1726, da genitori benestanti; era il quinto figlio della coppia, ma i quattro precedenti erano morti dopo pochi giorni dalla nascita; la madre Anna Maria Bassani lo aveva desiderato facendo un voto a s. Francesco da Paola.
Crebbe in famiglia, protetto con ansia e gioia, considerato il tesoro più prezioso della casa. A circa sette anni, il 26 aprile 1733, ricevette la Cresima, amministrata dall’allora arcivescovo di Bologna, card. Prospero Lambertini (1675-1758) poi papa dal 1740 col nome di Benedetto XIV, il quale per diversi anni continuò a reggere anche la diocesi bolognese.
Dotato di viva intelligenza, Bartolomeo fu affidato dai genitori per gli studi umanistici, al Collegio S. Lucia dei padri Gesuiti; da ciò scaturì anche la sua vocazione al sacerdozio, osteggiata però dal padre.
Ma Bartolomeo Dal Monte, dopo aver conosciuto s. Leonardo da Porto Maurizio, il francescano predicatore delle ‘missioni’ al popolo, le quaresime, gli esercizi spirituali e propagatore della pia pratica della Via Crucis, ammirato dal suo metodo, decise di dedicarsi alla predicazione e quindi scelse definitivamente il sacerdozio.
Fu ordinato sacerdote il 20 dicembre 1749 dall’amministratore diocesano, inviato dallo stesso papa Benedetto XIV; dopo l’ordinazione continuò i suoi studi, conseguendo la laurea in teologia il 30 dicembre 1751.
Dopo i primi anni dedicati all’apprendimento dell’arte della predicazione, don Bartolomeo Maria Dal Monte intraprese una straordinaria attività missionaria, prima nelle parrocchie della diocesi di Bologna e poi durante tutti i suoi 26 anni di generosa predicazione, allargò il suo campo d’azione in ben 62 diocesi dell’Italia Settentrionale e Centrale.
Predicò centinaia di missioni al popolo, quaresimali, ed esercizi spirituali al clero, a religiosi e laici, ottenendo mirabili conversioni e tante rappacificazioni tra persone avversarie.
In un periodo in cui dilagavano le negative conseguenze di certe filosofie di tipo illuministico e di un avvilente puritanesimo giansenistico, le sue “missioni” divennero dei momenti intensivi d’istruzione religiosa per tutti i fedeli, esplicando un’azione di cristianizzazione capillare.
Nella predicazione fu sempre scevro da eccessi e da rigori inopportuni, ma usò la parola con forza, sobrietà e metodo, tanto da essere chiamato ‘missionario della discrezione’.
Seguì in tutto il ministero di Cristo stesso, intransigente nel proclamare la Verità, ma accogliente e misericordioso verso i peccatori; vero sacerdote di Dio, fu totalmente dedito alla salvezza delle anime, nutrendo una grande devozione a Maria, Madre della Misericordia.
Nel 1774 a 48 anni, fu chiamato dal cardinale Vicario di Roma a predicare la solenne missione in Piazza Navona e in preparazione dell’Anno Santo 1775, di tenere gli esercizi spirituali al clero romano nella Chiesa del Gesù.
Incarichi che testimoniano la grande considerazione e fama, che godeva come predicatore.
Papa Pio VI voleva trattenerlo stabilmente a Roma, ma egli rifiutò per continuare la sua missione evangelizzatrice tra il popolo delle campagne; anche l’arcivescovo di Bologna lo esonerò dall’incarico di Rettore del Seminario a cui in un primo tempo era stato designato, per lasciarlo libero di predicare, nelle estenuanti missioni, che allora si svolgevano senza l’ausilio di tecnologie sonore, ma con la sola voce e spostandosi al massimo con le stancanti carrozze del tempo.
Divorato dallo zelo, si offrì per le missioni in India, ma per le sue precarie condizioni di salute, ne fu dissuaso dai superiori.
Utilizzando i beni ereditati dal padre, fondò la “Pia Opera delle Missioni” per dare solidità e continuità alle Missioni al popolo, avvalendosi di sensibili e intelligenti collaboratori.
Ma volle soprattutto che la sua Opera fosse una fucina di apostoli; sacerdoti diocesani che in piena comunione col vescovo, fossero totalmente disponibili alla predicazione, convinto com’era, che non si poteva essere autodidatti nella difficile vita del predicatore.
Creò delle strutture adatte per la formazione dei suoi collaboratori, dedicando loro interessanti scritti spirituali, redatti personalmente.
Tra questi scritti va segnalata l’operetta: “Gesù al cuore del sacerdote secolare e regolare, ovvero considerazioni ecclesiastiche per ogni giorno del mese”, edita a Roma nel 1775 e in vari anni successivi, fino all’edizione della Tipografia Vaticana del 1906.
Il testo redatto sul modello degli scritti del sacerdote eudista F. H. Sevoy (1707-1765) divenne un significativo punto di riferimento per la formazione di generazioni di sacerdoti; a questo testo si aggiunsero alcuni opuscoli di carattere religioso pratico, nei quali traspare l’assillo quotidiano per la salvezza delle anime, il suo impegno ascetico e pastorale.
Essendo uomo di solida formazione culturale, laureato in teologia, con dedizione totale a Cristo, devozione fiduciosa a Maria, strenuo difensore della dignità sacerdotale, ‘missionario’ preparato e zelante, Bartolomeo Dal Monte poté e può essere considerato, modello ancora attuale di spiritualità sacerdotale a servizio dell’evangelizzazione,
Già due mesi prima di concludere la sua esistenza, stremato dalle fatiche apostoliche, durante la sua ultima missione esclamò: “Io vado a morire a Bologna la notte di Natale” ed effettivamente per complicazioni polmonari, morì il 24 dicembre 1778, confortato dai Sacramenti e dalla visita dell’arcivescovo, aveva solo 52 anni.
Tumulato nella Basilica bolognese di S. Petronio, fu dichiarato venerabile il 23 gennaio 1921 da papa Benedetto XV e proclamato Beato a Bologna il 27 settembre 1997, da papa Giovanni Paolo II.



Stellina788
00venerdì 17 dicembre 2010 10:44

San Delfino di Bordeaux Vescovo

24 dicembre

m. 401/403

Etimologia: Delfino = delfino, animale sacro ad Apollo

Emblema: Bastone pastorale

Martirologio Romano: A Bordeaux in Aquitania, in Francia, san Delfino, vescovo, che fu unito a san Paolino da Nola da intima familiarità e si adoperò strenuamente per combattere l’eresia priscillianista.


Ci è noto dalla Cronaca di Sulpizio Severo, da cinque lettere di Paolino di Nola e da un biglietto di Ambrogio di Milano. Si trovano pure notizie nell'Epitoma Chronicon di Prospero di Aquitania.
Dopo Orientale, Delfino è il primo vescovo di Bordeaux attestato con certezza. Egli assisté, nel 380, al concilio di Saragozza, riunito per occuparsi di Priscilliano e dei suoi discepoli. L'inizio del suo episcopato fu, in realtà, turbato dalle controversie priscillianiste. L'eresia trovò degli echi a Bordeaux e in tutta l'Aquitania, grazie alla protezione di una grande donna, Eucrozia, e di sua figlia, Procula. Le passioni religiose sembra siano state molto accese in questa città al tempo del passaggio di Priscilliano e dei suoi discepoli Instanzio e Salviano, poiché si segnalano sommosse cruente.
Il vescovo Delfino dové presiedere a Bordeaux un concilio (384) davanti al quale i capi del movimento priscillianista e i loro accusatori furono invitati a presentarsi e dove molte memorie furono lette davanti ai vescovi. Instanzio, prelato amico del novatore, fu deposto dall'episcopato; Priscilliano avrebbe avuto, senza dubbio, la stessa sorte se non si fosse appellato al tribunale dell'imperatore Massimo a Treviri. Delfino sembra aver goduto al suo tempo un prestigio assai considerevole e che sorpassava i limiti della sua diocesi. Fu amico intimo del vecchio vescovo Febadio di Agen ed ebbe una corrispondenza regolare eon Ambrogio di Milano.
Sotto il suo episcopato la cristianizzazione della diocesi di Bordeaux sembra aver fatto progressi importanti poiché a partire dall'anno 400 le iscrizioni ed i monumenti portano quasi tutti formule e simboli cristiani. Egli battezzò Paolino, il futuro vescovo di Nola, un po' prima del 389, ispirandogli l'amore per l'ascetismo. Quando lasciò Bordeaux, Paolino, che considerava il vescovo come suo padre spirituale, ebbe con lui corrispondenza regolare. Ci restano cinque lettere indirizzate da Paolino a Delfino, scritte dal 393 al 401 e noi sappiamo che ve ne furono altre andate perdute. Le lettere del vescovo di Bordeaux disgraziatamente mancano: d'altra parte, nessuna sua opera è pervenuta fino a noi.
Nel 404 Delfino era passato fra i santi protettori come provano i seguenti versi di Paolino: "Ambrosius Latio, Vincentius exstat Hiberis, / Gallia Martinum, Delphinum Aquitania sumpsit". Questi versi attestano anche il prestigio di cui godeva il vescovo di Bordeaux. Più esattamente sembra che Delfino sia morto tra il 401 e il 403. Fu sostituito da uno dei suoi preti, Amando, anch'egli legato strettamente con Paolino di Nola. Non si trova alcuna menzione di Delfino nei martirologi antichi. Nella diocesi di Bordeaux è attualmente onorato il 30 dicembre La piccola città di St. Delphin presso Bordeaux, nel decanato di Pessac, conta più di ottomilá anime. Non esistono sul conto di Delfino leggende antiche. Il Martirologio Romano lo ricorda il 24 dicembre.


Stellina788
00venerdì 17 dicembre 2010 10:45

Beati Dionisio Roneo, Filippo Claro, Giulio Pons e Pietro da Valladolid Mercedari

24 dicembre

Mercedari redentori i Beati: Dionisio Roneo, Filippo Claro, Giulio Pons e Pietro da Valladolid, liberarono molti schiavi dal duro giogo dei mussulmani. Virtuosi e pieni di zelo verso la salute delle anime, carichi di meriti arrivarono gloriosi al regno celeste. L’Ordine li festeggia il 24 dicembre.





Spunti bibliografici a cura di LibreriadelSanto.it

Altri suggerimenti...


_______________________
Aggiunto il 2007-10-19
Letto da 638 persone


Beati Dionisio Roneo, Filippo Claro, Giulio Pons e Pietro da Valladolid Mercedari

24 dicembre

Mercedari redentori i Beati: Dionisio Roneo, Filippo Claro, Giulio Pons e Pietro da Valladolid, liberarono molti schiavi dal duro giogo dei mussulmani. Virtuosi e pieni di zelo verso la salute delle anime, carichi di meriti arrivarono gloriosi al regno celeste. L’Ordine li festeggia il 24 dicembre.




Stellina788
00venerdì 17 dicembre 2010 10:46

San Giacobbe Patriarca

24 dicembre

Hebron, Terra di Canaan - † Egitto

Si chiama così secondo Gn 25,26 il figlio di Isacco e di Rebecca. Da Giacobbe si fanno discendere le 12 tribù di Israele. Le storie di Giacobbe non costituiscono nella Genesi una biografia organica, ma sono piuttosto una raccolta di vari racconti, che sono stati applicati a Giacobbe. Il suo nome viene fatto derivare con una etimologia popolare dalla parola ebraico che significa "ingannare" ('aqob) (Gn 27,36; cfr. però Gn 25,26). A questa interpretazione si allacciano le storie particolareggiate dell'inganno di Giacobbe verso il fratello Esaù (cessione del diritto e della benedizione della prímogenitura, Gn 25,29-34; 27). I discendenti di Giacobbe dipendono da questa benedizione carpita con l'inganno. Un altro gruppo di racconti collega Giacobbe con dei luoghi di culto e dimostra così la loro dignità (p. es.: Gn 28,10-22: Betel, sogno della scala dei cielo). Un'altra tradizione riguarda il racconto di Giacobbe in o Makpela (Gn 50,12ss). Altri racconti di Giacobbe sono ambientati in Haran presso Labano (Gn 20ss); inoltre si hanno altri racconti che sono collegati con Mahanaim (Gn 32,2-22; 33,1-16), con Penuel (la lotta notturna; Gn 32,23-31; Israele), con in Sichem (33,18-34,11), con la storia di Giuseppe. Nella tarda letteratura biblica Giacobbe è ricordato raramente (negativamente p. es. Os 12,3s.7; positivamente p. es. Sap 10,10ss).

Etimologia: Giacobbe = seguace di Dio, dall'ebraico


Il nome Giacobbe deriva da “ageb” cioè “tallone, calcagno” e più specificamente “afferrare per il calcagno o soppiantare”; il nome gli fu imposto perché al momento del parto, teneva con la mano il calcagno del fratello gemello Esaù, nato per primo e quindi destinatario del diritto di primogenitura, così importante nella scala familiare e sociale del tempo.
I suoi genitori furono il patriarca Isacco e Rebecca, la quale essendo sterile, in virtù delle preghiere rivolte a Dio dal marito Isacco, alla fine in età avanzata rimase incinta di due gemelli, appunto Esaù e Giacobbe che si urtavano nel seno materno, quasi presagio delle lotte fraterne che sarebbero accadute dopo la nascita.
Nacquero e crebbero nella Terra di Canaan, finché, secondo il racconto della Genesi (cap. 25 a 35), Giacobbe riuscì ad ottenere i diritti della primogenitura dal fratello Esaù in cambio di un piatto di lenticchie, in un momento in cui era stanco ed affamato.
Poi essendo il loro padre Isacco vecchio ed ammalato, questi volle impartire la benedizione dei patriarchi al primogenito, allora Giacobbe approfittò della momentanea assenza di Esaù dal villaggio e con la complicità e suggerimento della madre Rebecca, della quale era il favorito, indossò una pelliccia di animale, così da poter passare per Esaù che era molto peloso, infatti Isacco quasi cieco non si accorse del camuffamento e impartì la benedizione a Giacobbe credendolo Esaù.
Ciò suscitò l’ira del fratello, quando ritornato apprese dell’inganno e visto che secondo le ancestrali regole, la benedizione una volta data non poteva essere ritirata, né impartita anche a lui, perciò per vendicarsi Esaù fece il proposito di ucciderlo.
Rebecca allora per salvarlo, inviò Giacobbe presso la sua parentela di origine nella Terra di Paddan-Aram; nella casa di suo padre Betel e di suo fratello Labano.
Lo scopo non era solo allontanarlo dalla vendetta di Esaù, ma anche per fargli trovare una moglie, nella cerchia della sua parentela, secondo la legge della “endogamia”, che prescriveva di non sposare donne di altre tribù al fine di preservare la discendenza del proprio clan; ciò era già avvenuto proprio con Rebecca cugina di Isacco.
Così Giacobbe partì con la benedizione di Isacco, verso Carrai città di origine di Abramo, Isacco e Rebecca, situata nella fertile e pianeggiante regione di Paddan-Aram; mentre Esaù si sposò con donne del luogo.
Durante il cammino per giungere dallo zio Labano, Giacobbe si fermò in una località detta allora Luz (nome che fu poi cambiato in Betel = Bet-El, casa di Dio); prese una pietra, vi appoggiò il capo e si addormentò.
Nel sonno vide una scala che in basso poggiava sulla terra e in alto toccava il cielo, sulla quale salivano e scendevano angeli, nel frattempo Dio dalla sommità, gli prediceva che la sua discendenza sarebbe stata numerosa come la polvere detta terra e che lo avrebbe tenuto sempre sotto la sua protezione; Giacobbe fece voto di riconoscerlo sempre come suo Dio e di ritornare in quel luogo per trasformarlo in santuario.
Presso Labano, Giacobbe s’invaghì della cugina Rachele e la chiese in sposa al padre suo zio, il quale gliela promise a patto che lavorasse per lui come pastore per sette anni, affinché con il suo lavoro potesse ‘riscattarla’, secondo la prassi orientale, dalla famiglia di appartenenza, facendola diventare così “sua”.
L’amore di Giacobbe per la giovane e bella Rachele, fece sembrare quel lungo periodo di sette anni, come fossero passati pochi giorni e al termine dei quali si organizzò finalmente un banchetto per il promesso matrimonio.
Ma come un colpo di scena teatrale, nell’oscurità della sera, Labano fece condurre nella tenda di Giacobbe non Rachele, ma la figlia maggiore Lia tutta velata, la quale era ancora nubile e non della stessa bellezza.
Al mattino dopo Giacobbe accortasi dell’inganno, protestò vivamente con Labano, il quale si giustificò dicendo che era usanza di sposare prima la figlia maggiore se nubile.
In effetti Giacobbe fu ripagato allo stesso modo, dell’inganno fatto ad Isacco a scapito di suo fratello Esaù; proprio da un parente più furbo di lui.
Labano gli disse allora: “Finisci la settimana nuziale con Lia, poi ti darò anche Rachele, per il servizio che tu presterai ancora presso di me per altri sette anni”.
Non si dimentichi che la poligamia era ampiamente praticata nell’antico Vicino Oriente, a questo punto a Giacobbe non restò altro che accettare e dopo la prescritta settimana con Lia, poté realizzare il suo lungo sogno e “si accostò a Rachele e l’amò più di Lia”.
Lo scrittore del sacro testo biblico, descrive poi le inevitabili tensioni suscitate dalla relazione a tre di Giacobbe e le due mogli; tanto più che Lia più trascurata, era però feconda, mentre Rachele amata era sterile.
Lia partorì quattro figli, Ruben, Simeone, Levi, Giuda, capostipiti di celebri tribù. Risultati vani i tentativi di generare figli propri, Rachele ricorse alla possibilità di generare per interposta persona, secondo l’uso orientale; quindi offrì a Giacobbe la propria schiava Bila affinché potesse avere un figlio tramite di lei.
Questo ripiego era già avvenuto tempo prima con Sara moglie sterile di Abramo e la sua schiava Agar, che generò Ismaele considerato poi figlio di Sara; dalla schiava Bila Abramo ricevé due figli Dan e Neftali.
Il racconto biblico prosegue descrivendo la situazione familiare di Giacobbe, che venne trovarsi al centro della competizione fra le due sorelle a dargli dei figli, si ricorda che compito principale della donna era quello di generare figli e ciò era anche indice della benedizione di Dio sul nucleo familiare e sulla tribù.
Lia la prima moglie, visto che Giacobbe fra l’altro ormai in età matura, non si accostava più a lei perché non l’amava, gli offrì la sua schiva Zilpa per avere altri figli; da lei nacquero Gad e poi Aser.
In seguito Rachele concesse alla sorella Lia un’altra notte con Giacobbe, in cambio di un’erba (mandragora) ritenuta efficace contro la sterilità.
A Lia nacque così Issacar e in seguito ancora un sesto figlio Zabulon e una figlia Dina; a questo punto si legge nella Genesi che Dio “si ricordò” di Rachele, esaudì le sue preghiere e la rese feconda, ed ella concepì e partorì un figlio chiamato Giuseppe.
Conclusasi la storia delle quattro madri e dei loro undici figli, ritorna nel racconto biblico la figura di Labano, zio di Giacobbe e padre di Lia e Rachele. Orami erano trascorsi una ventina d’anni circa, che Giacobbe lavorava per lui a Paddan-Aram e quindi gli sorse il desiderio di ritornarsene a Canaan sua terra d’origine, tanto più che i rapporti con lo zio-suocero erano diventati più difficili.
Per questo fu necessario mettere in atto dei raggiri ed inganni riguardo le greggi, per rifarsi dei danni e soprusi subiti da Labano; con il consenso delle due mogli, che si ritenevano vendute a suo tempo dal padre, con il seguito delle due schiave e degli undici figli, padrone ormai di numerosi armenti e servitori, Giacobbe di nascosto lasciò la casa di Labano diretto a Canaan.
Lungo la strada fu raggiunto dal suocero che l’accusò di avergli sottratto figlie e nipoti e in più di aver rubato i “teafini” dalla sua casa, sorta di statuette indicanti le divinità familiari, in realtà esse erano state prese da Rachele, all’insaputa di Giacobbe, per portarle con sé in segno di protezione o di memoria del suo passato; alla fine Giacobbe e Labano si lasciarono rappacificati e stringendo un’alleanza.
Ripreso il cammino, a Giacobbe apparve una schiera di angeli, come un esercito schierato, nella località di Macanaim; la visione lo confortò e confermò la presenza di Dio che lo proteggeva e lo guidava, così come gli aveva indicato di partire da Labano.
Giunta la carovana verso il paese di Seir nella campagna di Edom, Giacobbe inviò dei messaggeri al fratello Esaù, annunciandogli il suo ritorno e sperando nel suo perdono.
Esaù gli andò incontro con quattrocento uomini, lo spaventato Giacobbe, che però confidava nell’aiuto di Dio, inviò davanti a sé a scaglioni delle greggi di capre, pecore, cammelle, giovenche, asini e torelli, affinché tali doni potessero placare la prevista ira del fratello; mentre egli trascorreva la notte in attesa, accampandosi dopo aver guadato il fiume Iabbok, un affluente del Giordano.
Qui durante la notte avvenne un episodio di grande potenza e fascino; un essere celeste (un angelo di Dio) lo affrontò e lottò con lui per tutta la notte fino all’alba; gli domandò il suo nome e gli disse: “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e gli uomini e hai vinto”; Giacobbe chiamò poi quel luogo ‘Penuel’.
Il racconto di recondito significato, più che alla persona fisica di Giacobbe, si riferisce al popolo da lui derivato. Il significato del soprannome Israele è incerto, è probabile che in origine significasse “Dio si mostri forte”, interpretato poi “egli è stato forte contro Dio”.
All’alba comparve all’orizzonte Esaù con il suo numeroso seguito e Giacobbe gli andò incontro prostrandosi a terra per sette volte, ma il fratello lo abbracciò e fra le lacrime di entrambi si rappacificarono. Poi Giacobbe presentò le mogli con i rispettivi figli e le schiave con i loro figli; riconciliatosi, i due fratelli si divisero di nuovo, perché le lenti greggi e i numerosi bambini della carovana di Giacobbe, non potevano tenere il passo con le veloci cavalcature di Esaù.
Giacobbe si diresse verso Sichem al centro della regione montuosa della Palestina e qui si accampò in un terreno acquistato dal principe locale. A Sichem avvenne l’increscioso episodio del rapimento della figlia di Giacobbe e Lia, Dina, da parte del principe ereditario Sichem, il quale dopo averla violentata se ne innamorò e fece chiedere al padre Camor, di averla come moglie da Giacobbe.
Camor offrì anzi la possibilità di stabilirsi definitivamente nel suo territorio alla tribù di Giacobbe, offrendo anche una cospicua somma come prezzo nuziale.
A questo punto subentra un atto non edificante, anzi esecrabile con il ragionamento di oggi. I fratelli di Dina, finsero di accettare, anzi imposero che nelle clausole dell’alleanza fra la loro tribù d’Israele e i Sichemiti, fosse introdotta la circoncisione degli uomini; per la pace desiderata essi accettarono; però quando buona parte degli uomini validi, era in preda a dolori e la febbre che ne seguì, Simeone e Levi, fratelli di Dina per vendicarne l’onore, penetrarono in città con i loro uomini, uccidendo tutti i maschi e anche il principe Camor e il figlio Sichem, saccheggiando poi tutti i beni ed i greggi.
Giacobbe condannò blandamente i due figli e questo è un aspetto negativo, ritenendo poi opportuno partire da quei luoghi, per salvare l’intera tribù dalla vendetta dei superstiti e dei popoli vicini.
Rimessosi in cammino, la tribù s’incamminò verso Betel sul luogo dove Giacobbe aveva avuto il sogno premonitore della promessa di Dio, riguardo alla sua numerosissima discendenza; qui il patriarca eresse una stele di pietra considerandolo luogo sacro.
Proseguendo nel cammino si arrivò nei pressi di Efrata, dove Rachele che era incinta per la seconda volta, ebbe un parto molto difficile e morì mettendo alla luce il secondo figlio Beniamino e sulla strada per Betlemme fu sepolta; l’afflitto Giacobbe eresse sulla tomba una stele ancora oggi esistente, il mausoleo è meta di pellegrinaggio degli ebrei.
Giunti ad Hebron si fermarono presso Isacco padre di Giacobbe, il quale morì all’età di 180 anni assistito così dai due figli Esaù e Giacobbe.
Stabilitasi nella terra dei suoi avi ad Hebron, le storie di Giacobbe nella narrazione biblica, lasciano il passo a quelle dei suoi figli, in particolare di Giuseppe, il figlio amato giunto nella sua vecchiaia, che fu per gelosia venduto dai fratelli a dei mercanti e giunse in Egitto dove divenne grande alla corte del Faraone.
Giacobbe è presente ancora nelle storie di Giuseppe, che poté riabbracciare in Egitto dopo averlo creduto morto e presso il quale morì all’età di 130 anni.
Fu sepolto secondo la sua volontà nella grotta di Makpela in Canaan, diventata il luogo di sepoltura dei suoi avi Abramo, Sara, Isacco, Rebecca e anche della sua prima moglie Lia.
Prima di morire, Giacobbe in una solenne riunione attorno al suo letto, pronunciò le benedizioni sui suoi dodici figli e in estensione ai dodici popoli d’Israele, che da loro sarebbero derivati. Ricordiamo i loro nomi: Ruben, Levi, Simeone, Giuda, Issacar, Zabulon, dalla moglie Lia; Giuseppe e Beniamino dalla moglie Rachele; Dan e Neftali dalla schiava Bila; Gad ed Aser dalla schiava Zilpa; inoltre Dina anch’essa figlia di Lia.
Il patriarca fu pieno della persuasione di vivere alla presenza di un Dio, che l’aveva scelto per realizzare le promesse fatte ad Abramo ed Isacco.
Non vacillò nella sua fede verso questo Dio, neanche nei momenti più tragici della sua vita, che fu molto infelice e in definitiva più breve nei confronti degli altri patriarchi.
Le numerose rivelazioni divine testimoniano dell’intensità della sua unione mistica con Dio. Come gli altri patriarchi del Vecchio Testamento, Giacobbe è stato sempre ricordato nelle Chiese Cristiane nel periodo dell’Avvento; nel Martirologio Romano della Chiesa Cattolica egli è ricordato insieme agli avi santi e giusti di Gesù, partendo da Adamo, il 24 dicembre vigilia della nascita di Cristo, dai quali discendeva nella sua vita terrena.



Stellina788
00venerdì 17 dicembre 2010 10:47

San Gregorio di Spoleto Martire

24 dicembre

Etimologia: Gregorio = colui che risveglia, dal greco

Emblema: Palma


Una passio racconta che Gregorio, sacerdote di Spoleto, denunziato per la sua fede e per il suo proselitismo, subí il martirio nella propria città Sub Diocletiano. Fu sepolto il 23 dicembre vicino alle mura della città presso un ponte di pietra, per opera di una pia donna di nome Abbondanza (v.). Nella narrazione si susseguono interrogatori, vari supplizi, miracoli e visioni, ma essa fa parte delle composizioni prive di ogni valore storico: "Tutto manifesta l'invenzione: i nomi dei personaggi, i luoghi comuni dell'interrogatorio, il succedersi dei supplizi classici, il meraviglioso dietro comando, lo stile affettato". Il santo è sconosciuto a tutte le fonti agiografiche prima di Adone, il quale lo conosce esclusivamente attraverso la passio. Il Delehaye, seguito dal Lanzoni, avanzá la ipotesi che il Gregorio di Spoleto debba identificarsi con Gregorio di Lilibeo (v.). L'unico argomento in favore, però, è dato dal fatto che sia il martire di Lilibeo sia quello di Spoleto siano stati uccisi sotto un tiranno Tircano. Infatti nella Vita di s. Gregorio di Agrigento (v.), unica fonte per Gregorio di Lilibeo, scritta da Leonzio abate di S. Saba di Roma verso la fine del sec. VII, è narrato come questo santo fu gettato nella prigione, dove era stato rinchiuso Gregorio di Lilibeo, il quale vi aveva subito il martirio per opera del tiranno Tircano. L'autore della passio di Gregorio di Spoleto, voleva cosí celebrare s. Gregorio di Lilibeo, trasportandolo a Spoleto, secondo i metodi arbitrari degli agiografi del tempo.
È però da osservare che secondo il Lanzoni, la passio di Gregorio di Spoleto sarebbe stata composta "tra la fine del V e il principio del VI secolo" (p. 438), per cui, se quella di Gregorio di Agrigento fu composta alla fine del sec. VII, il preteso plagio diventa problematico. Del resto gli stessi commentatori del Martirologio Romano scrivono: "Coniectura est, quae certiora postulat ad minicula, hunc Gregorium alium non esse a Gregorio episcopo Lilibaci, a Spoletanis cultum".
Il Delehaye poi ha studiato una passio di s. Giorgio di Lydda, conservata nel ms. 3789 della Biblioteca Nazionale di Parigi nella quale l'agiografo ha copiato la passio di s. Gregorio di Spoleto, cambiando i nomi e la data.
Gregorio di Spoleto fu accolto da Adone nel suo martirologio al 24 dicembre, donde passò in Usuardo e, tramite questi, nel Martirologio Romano sempre alla stessa data. Nel Sacramentario Leoniano alle date del 23 aprile e del 24 novembre è ricordato un martire di nome Gregorio, venerato a Roma; alcuni studiosi pensarono a Gregorio di Spoleto, ma si tratta in realtà di s. Giorgio di Lydda festeggiato a Roma, in questo giorno da alcuni codd. del Geronimiano.
Nel sec. X, s. Bruno, arcivescovo di Colonia, trasferí le reliquie di Gregorio nel duomo della sua città, il che diede origine ad una iconografia esclusivamente locale. Nelle scarse figure del santo (la vetrata trecentesca del duomo e il frontespizio del Messale di Colonia) Gregorio è raffigurato in abiti sacerdotali con un libro in mano, la palma del martirio e la spada con la quale venne decapitato.


Stellina788
00venerdì 17 dicembre 2010 10:47

Sant' Irmina di Treviri Vergine

24 dicembre

Treviri, sec. VII-VIII

Nacque a Treviri e visse tra il VII e l’VIII secolo. In seguito alla morte del marito fondò a Treviri un monastero di cui fu badessa.

Etimologia: Irmina = consacrata al dio Irmin, dal tedesco

Martirologio Romano: Presso Treviri nell’Austrasia, in Germania, santa Irmina, badessa del monastero di Öhren, che, matrona consacrata a Dio, donò a san Villibrordo un piccolo monastero da lei fondato nella sua villa di Echternach e fu generosa dispensatrice dei propri beni.

Ascolta da RadioVaticana:
  
Ascolta da RadioMaria:
  

Dall’Archivio di Echternach (Germania) apprendiamo che Irmina fu la grande benefattrice di s. Willibrordo, il grande missionario apostolo dei Paesi del Nord Europa, al quale fece varie donazioni in più tempi; infatti nel 697-698 gli donava la parte toccatale in eredità nella villa di Echternach con la chiesa e il piccolo monastero da lei costruito.
Nel 1699 poi gli faceva dono di una villa presso Tolbac e nel 704 di quella di Stenheim e di una vigna presso Treviri. Nel ‘Martirologio Romano’ ritroviamo altre notizie attinte da un antico documento ‘La carta di Dagoberto’ del 646, in cui si dice che era figlia di Dagoberto re merovingio, figlio di Clotario II,
Un altro documento, poco attendibile la dice sorella di s. Adele di Pfalzel, la cui festa si celebra nello stesso giorno di Irmina, cioè il 24 dicembre.
Questa data compare nei Calendari della Diocesi di Treviri sin dal secolo XI.

Il nome Irmina è di chiara origine germanica, deriva dall’antico ‘Irmin’ e significa “donna forte e potente” e “consacrata al dio Irmin”, soprannome dato al dio Odino.

v
Stellina788
00venerdì 17 dicembre 2010 10:48

San Metrobio venerato a Malesco Martire

24 dicembre

 

Nella chiesa parrochiale dei Santi Pietro e Paolo a Malesco, centro della Val Vigezzo in provincia di Verbania a pochi chilometri dal confine svizzero, sono conservate le reliquie di San Metrobio, giunte nella località ossolana nel 16.. Unica fonte agiografica che ricorda un santo con questo nome è il Martirologio Romano, nell’edizione precedente l’attuale, ove si legge alla data del 24 dicembre: A Tripoli, nella Fenicia, i martiri Luciano, Metrobio, Paolo, Zenobio, Teòtimo e Druso. Questa scarna indicazione null’altro consente di conoscere su Metrobio se non il luogo del suo martirio, avvenuto, verosimilmente, durante una delle ultime persecuzioni organizzate dall’autorità romana contro la sempre più diffusa fede cristiana. Quando nel 1669, gli abitanti di Malesco formularono la richiesta di avere un corpo di qualche martire, come già era avvenuto per molte altre località della diocesi novarese cui il centro appartiene, ottennero quello di Metrobio Saveriano, estratto dal complesso catacombale di Priscilla, a Roma. Il dono, ritenuto allora così prezioso da giustificare un autotassazione da parte delle famiglie del luogo per far fronte alle necessarie spese del caso (con delibera comunale del 28 dicembre 1671 si ottennero in prestito 325 lire imperiali), venne ottenuto grazie all’interessamento di padre Illuminato da Cosacia, un religioso cappuccino già noto a Malesco per avervi predicato la quaresima. I sacri resti giunsero a destinazione nel 1673 accolti, il 28 maggio, con sincero e devoto entusiasmo dalla popolazione che poteva confidare nella protezione di un nuovo santo, ritenuto ancor più esclusivo per la presenza in loco delle sue spoglie. Il motivo che portò ad attribuire al martire orientale Metrobio il corpo giunto da Roma, va ricercato nel più allargato contesto del fenomeno del recupero e della traslazione dei corpi santi, dalle catacombe romane a centinaia di località sparse in tutto l’orbe cattolico. Sia per soddisfare ad esigenze liturgiche – non era infatti concessa la celebrazione dell’ufficio e della messa per santi non inseriti nel martirologio romano – sia per conferire una dimensione storica ai nuovi santi posti in venerazione, le reliquie erano spesso identificate come appartenenti a martiri che avevano una loro collocazione all’interno della vastissima produzione agiografica, seppur minima come nel caso in questione. Questo modo di procedere, più volte vietato dalla stessa autorità ecclesiastica che curava tutti i lunghi passaggi, più burocratici che devozionali, per la consegna delle reliquie, causò non poca confusione all’interno dell’immaginario religioso dei fedeli, provocando sdoppiamenti di reliquie ed ingiustificate identificazioni di personaggi. Soltanto una più attenta esplorazione delle fonti, sia agiografiche sia archeologiche, ha permesso di restituire a Metrobio la sua vera identità. Grazie ad una ricerca recentemente effettuata, si è potuto risalire a quello che, con ogni probabilità, è l’epitaffio originario a chiusura del loculo in cui venne deposto il corpo di Metrobio. Il testo, tramandato in varie opere di epigrafia cristiana (tra cui quella di Giovanni Battista de’Rossi Iscriptiones cristianae urbis Romae), così riporta: METROBIUS SEVERIANUS / QUI VIXIT ANN(OS) XXVII, MENSIBUS / TRIBUS, D(IES) XII, BENEMERENTI. Metrobio dunque era un giovane morto a ventisette anni, tre mesi e dodici giorni di età; nessuna traccia di martirio diretto o di un’eventuale traslazione dei suoi resti dalla Tripoli orientale in cui visse il martire menzionato nel martirologio. Questi dati che è oggi possibile riferire alla sua persona non intaccano la devozione di cui Metrobio ancora è oggetto in seno alla comunità maleschese, al contrario ne aumentano la storicità, consentendo di identificare il santo come un membro della primitiva comunità cristiana di Roma. Anche se egli non morì direttamente per morte violententa, come lascerebbe intuire l’epigrafe, fece comunque parte di una comunità testimoniante, che tante prove dovette subire per rimanere fedele al messaggio evangelico. L’iconografia, limitata ad una stampa del 1723, ritrae Metrobio secondo il classico canone di soldato romano, mentre sullo sfondo è rappresentato il creduto martirio; anche nell’urna entro il prezioso altare in marmo, realizzato nel 1900 su progetto dell’architetto Molli, i suoi resti sono rivestiti da un uniforme di milite romano in velluto e raso, ricamata dalle suore Rosminiane ed offerta dalla benefattrice Rachele Salati. La festa locale in onore del santo, un tempo celebrata nella seconda domenica di giugno, è fissata alla prima domenica di agosto, in ricordo dell’ultimo solenne trasporto organizzato nel 1900 per inaugurare i lavori di rifacimento della cappella.



Stellina788
00venerdì 17 dicembre 2010 10:49

Santa Paola Elisabetta Cerioli Vedova, fondatrice

24 dicembre

Soncino, (Cremona), 28 gennaio 1816 – Comonte (Bergamo), 24 dicembre 1865

Il giorno della vigilia di Natale ci offre una delle figure più recentemente additate da Giovanni Paolo II come modello di santità: si tratta di madre Paola Elisabetta Cerioli, fondatrice dell'Istituto della Sacra Famiglia, canonizzata il 16 maggio 2004. Nata il 28 gennaio 1816 da una famiglia nobile di Soncino, in provincia di Cremona, Costanza Cerioli (come si chiamava all'anagrafe) andò sposa a 19 anni a un uomo molto più anziano di lei. Ebbe tre figli, ma le morirono tutti giovanissimi: uno appena nato, il secondo a un anno, il terzo a 16 anni. Rimasta vedova, ricca e sola a 38 anni, scelse di spendere la vita prendendosi cura in casa sua delle bambine rimaste orfane. In quest'opera si unirono presto a lei altre giovani: fu la scintilla da cui scaturì l'Istituto Sacra Famiglia, nel quale prese lei stessa i voti assumendo il nome di suor Paola Elisabetta. Presto si affiancò anche il ramo maschile dei Fratelli della Sacra Famiglia dediti all'apostolato tra i lavoratori agricoli. Morì il 24 dicembre 1865. (Avvenire)

Martirologio Romano: A Comonte vicino a Bergamo, santa Paola Elisabetta (Costanza) Cerioli, che, morti prematuramente tutti i figli e rimasta poi vedova, impegnò risorse e forze nell’istruzione dei figli dei contadini e degli orfani senza speranza di futuro e visse nel Signore le gioie di madre, fondando l’Istituto delle Suore e la Congregazione dei Padri e dei Fratelli della Sacra Famiglia.


Costanza Cerioli, questo il suo nome da laica, nacque il 28 gennaio 1816 a Soncino (Cremona) dai nobili e ricchi genitori Francesco Cerioli e Francesca Corniani,
Era di gracile e delicata costituzione, ma dotata di grandi virtù spirituali che la madre con la sua sensibilità seppe sviluppare. Dai dieci ai sedici anni, fu affidata alle Suore della Visitazione di Alzano, dove si fece notare per la bontà dell’animo e la diligenza nello studio.
Aveva 19 anni quando il 30 aprile 1835 andò sposa al nobile e ricco Gaetano Buzecchi dei conti Tassis, che aveva 60 anni (siamo nell’epoca in cui i matrimoni erano combinati per tanti motivi dai familiari) e con il marito si trasferì a Comonte, sempre nel bergamasco.
Nei confronti del coniuge, tanto più anziano di lei, malato e spiritualmente lontano, Costanza Cerioli fu sempre generosa, paziente e docile; ebbe tre figli, purtroppo uno morì appena nato, un altro ad appena un anno, il terzo infine a 16 anni.
Purtroppo la mortalità infantile nel secolo XIX era molto forte e tante malattie che oggi sono curabilissime, allora erano mortali; del resto la media della vita in generale era molto bassa, a confronto con quella di oggi.
Rimase vedova il 25 dicembre 1854, ormai sola e ricca, nonostante avesse solo 38 anni, si isolò dal mondo e visse ritirata nella sua casa, dedicandosi alle opere di carità, in cui impegnò il suo immenso patrimonio.
Iniziò prendendo in casa due orfanelle, che man mano aumentarono di numero, insieme alle persone incaricate della loro formazione ed assistenza; così l’8 dicembre 1857 fondò l’”Istituto della Sacra Famiglia” e lei la vedova Costanza diventò suora prendendo il nome di suor Paola Elisabetta e dopo qualche anno fondò anche i “Fratelli della Sacra Famiglia” dediti al lavoro ed all’apostolato nei campi agricoli.
Personalmente scrisse per i suoi Istituti le sapienti Regole, che furono approvate dal vescovo di Bergamo; si consumò in questa assistenza sociale e attività religiosa, ed a soli 49 anni morì a Comonte il 24 dicembre 1865.
Fu beatificata il 19 marzo 1950, durante l’Anno Santo, da papa Pio XII.
E' stato proclamata santa da Giovanni Paolo II il 16 maggio 2004.



Stellina788
00venerdì 17 dicembre 2010 10:50

Beato Pietro de Solanes Mercedario

24 dicembre

Contemporaneo di San Pietro Nolasco e che da lui stesso ricevette l'abito, il Beato Pietro de Solanes fu un famosissimo cavaliere laico che decorò l'Ordine Mercedario per insigne virtù. Con infinita umiltà, costanza nella preghiera e fervore nella fede, serenamente morì in pace.
L'Ordine lo festeggia il 24 dicembre.



Stellina788
00venerdì 17 dicembre 2010 10:50

Beato Pietro de Solanes Mercedario

24 dicembre

Contemporaneo di San Pietro Nolasco e che da lui stesso ricevette l'abito, il Beato Pietro de Solanes fu un famosissimo cavaliere laico che decorò l'Ordine Mercedario per insigne virtù. Con infinita umiltà, costanza nella preghiera e fervore nella fede, serenamente morì in pace.
L'Ordine lo festeggia il 24 dicembre.




Stellina788
00venerdì 17 dicembre 2010 10:51

Santa Rachele Seconda moglie di Giacobbe

24 dicembre e 30 settembre

Paddan-Aram (Mesopotamia) - † Efrata (Betlemme, Palestina)


Rachele il cui nome in ebraico significa ‘pecorella’, compare nella Bibbia nel Libro della Genesi al capitolo 29.
Giacobbe dopo aver messo in atto l’inganno di presentarsi al posto di suo fratello maggiore Esaù, al loro padre Isacco, per carpirgli la benedizione del patriarca, che sarebbe toccata al suo fratello primogenito, suscitò così l’ira di questi, per cui per salvarlo fu mandato dai genitori Isacco e Rebecca, nella terra di Paddan-Aram, nella casa di Betel, padre di Rebecca e di Labano suo fratello.
Non era solo per allontanarlo finché la situazione non si fosse calmata, ma anche per fargli trovare una moglie tra i parenti della terra d’origine di sua madre, perché gli era proibito prendere in sposa una donna di Canaan, onde evitare un matrimonio misto fra il suo clan e il popolo indigeno o hittita.
Così Giacobbe partì con la benedizione di Isacco, verso Carrar città d’origine di Abramo, Isacco e Rebecca, posta nella fertile e pianeggiante regione di Paddan-Aram.
In una tappa notturna, mentre dormiva ebbe il famoso sogno della scala che congiungeva la terra al cielo e percorsa da angeli.
Giunse poi alla sua meta e si fermò ad un pozzo nella steppa, dove vi erano adunate attorno ad esso tre greggi di pecore per abbeverarsi, ma i pastori erano in attesa di altri uomini, affinché tutti insieme potessero far rotolare la pesante pietra dalla bocca del pozzo.
Mentre Giacobbe chiedeva informazioni sui parenti che doveva raggiungere, ecco avvicinarsi la figlia di suo zio Labano, la giovane Rachele che conduceva le pecore all’abbeveratoio; al vedere quella che i pastori presenti indicarono come sua cugina Rachele, egli ne fu subito conquistato per la sua bellezza.
Fortificato da ciò, con grande sforzo spostò lui la pietra che otturava il pozzo e così le pecore di suo zio e dei presenti poterono abbeverarsi. Seguì il riconoscimento reciproco dei due cugini, lo scambio di un bacio, lo sgorgare di una lacrima, poi Rachele scappò a casa da suo padre Labano e riferirgli dell’incontro.
Labano saputo dell’arrivo di suo nipote Giacobbe, figlio di sua sorella Rebecca, gli andò incontro, l’abbracciò e lo condusse a casa sua, dove dimorò per un mese.
A questo punto bisogna fare una riflessione; quanto detto finora di Giacobbe, sembra ricalcare episodio per episodio, la storia di suo padre Isacco, per il quale fu mandato da Abramo nella casa di Betel, un servo fidato per trovargli moglie, anche qui l’incontro con la giovane Rebecca, avvenne presso un pozzo, luogo privilegiato per il raduno, gli incontri e i contratti di matrimonio.
Ritornando a Giacobbe, suo zio Labano offrendogli un lavoro presso di sé, stipulò con lui un regolare contratto di lavoro, le cui condizioni furono dettate dallo stesso Giacobbe.
Egli attratto dalle virtù di Rachele, seconda figlia di Labano, la chiese in sposa e secondo la prassi orientale, che considerava la donna un bene di famiglia, offrì il suo lavoro per sette anni per ‘riscattarla dalla famiglia’ di appartenenza, facendola diventare così “sua”.
L’amore che Giacobbe nutriva per Rachele, fece sembrare quel lungo periodo come pochi giorni; al termine dei sette anni egli chiese a Labano di potersi unire a Rachele e fu organizzato un banchetto.
A sera ci fu il colpo di scena inatteso; secondo l’uso la sposa veniva condotta dallo sposo nella tenda nuziale, completamente velata nell’oscurità della notte e così fu in quell’occasione.
La mattina dopo Giacobbe si accorse che la sposa non era Rachele, ma sua sorella maggiore Lia non della stessa bellezza, datagli da Labano con un inganno; alle rimostranze di Giacobbe, il padre delle ragazze cercò di giustificarsi, evocando un’usanza locale, cioè quella di sposare per prima la figlia maggiore, appunto Lia.
Con questo episodio, Giacobbe fu ripagato allo stesso modo, come aveva ingannato Isacco per ottenere la benedizione della primogenitura al posto di suo fratello Esaù, così fu vittima anche lui di un raggiro, operato proprio da un parente più furbo di lui.
Labano gli disse allora: “Finisci la settimana nuziale di costei, poi ti darò anche quest’altra, per il servizio che tu presterai presso di me per altri sette anni”.
In effetti l’uso della poligamia era ampiamente praticato nell’antico Vicino Oriente; a Giacobbe non restò che accettare, quindi nuova settimana nuziale e il suo lungo sogno si poté avverare “si accostò a Rachele e l’amò più di Lia”.
Iniziò così una relazione a tre con le inevitabili tensioni; lo scrittore del sacro testo si è preoccupato che la giustizia fosse assicurata, Lia trascurata era però feconda, Rachele amata era però sterile.
Lia partorì quattro figli Ruben, Simeone, Levi, Giuda, le cui tribù divennero celebri. Era normale che Rachele diventasse gelosa della sorella Lia per i figli che dava a Giacobbe, mentre lei non poteva e afflitta gridò al marito la sua disperazione: “Dammi dei figli se no muoio”, a ciò Giacobbe reagì duramente, ricordandole che la vita è un dono divino.
L’afflizione esagerata di Rachele, si spiega considerando che a quei tempi, la donna era vista soprattutto come generatrice di figli e quindi di braccia per i duri lavori dei campi e dell’allevamento di mandrie e greggi.
Poi Rachele ricorse alla possibilità di generare per interposta persona secondo l’uso orientale, quindi offrì a Giacobbe la propria schiava Bila, cosicché potesse avere un figlio tramite di lei, questo diciamo stratagemma, era già accaduto con Sara moglie sterile di Abramo e la schiava Agar, dalla quale nacque Ismaele, generato dalla schiava ma considerato figlio della moglie Sara.
Dalla schiava Bila, ricevé così due figli prima Dan e poi Neftali; a questo punto il racconto biblico assume un tono abbastanza ironico per la nostra mentalità, le due mogli di Giacobbe furono in piena gara a dare dei figli al futuro patriarca che orami era in età matura.
Lia, visto che Giacobbe non si accostava più a lei perché non l’amava, prese la sua schiava Zilpa e allo stesso modo di Rachele, l’offrì al marito per avere altri figli; in questo modo la schiava Zilpa generò Gad e poi Aser.
Venne il tempo della mietitura del grano, e Ruben figlio primogenito di Lia, trovò delle mandragore (pianta velenosa a cui erano attribuite proprietà guaritrici della sterilità) e le portò alla madre.
Rachele saputo ciò, indusse Lia sua sorella, a cedergliele e in cambio concesse che Giacobbe trascorresse un’altra notte con lei.
Questo Giacobbe sballottato da una donna all’altra, ci fa sorridere considerando che i suoi atti d’amore, dovevano essere utilizzati per soddisfare esigenze generazionali delle due mogli, anche attraverso le due schiave; sembra quasi un sultano nel suo harem, ma qui egli non sceglie, ma gli viene imposta una donna di volta in volta.
A Lia quindi nacque un quinto figlio, Issacar e poi ancora un sesto Zabulon e inoltre una figlia, Dina.
Dice la Bibbia che a questo punto Dio “si ricordò” di Rachele, la esaudì e la rese feconda; essa concepì e partorì un figlio e lo chiamò Giuseppe.
Conclusasi la storia delle madri e dei loro figli, ritorna nel racconto biblico della Genesi, la figura di Labano, padre di Lia e Rachele, presso il quale Giacobbe era stato ormai per una ventina d’anni, lavorando sodo per lui; poi subentrò il desiderio di tornarsene con la famiglia a Canaan, nella sua terra d’origine.
Ora avvennero altri episodi che non riguardano Rachele e perciò tralasciamo, soffermandoci solo su quelli in cui ormai sporadicamente compare.
Deciso a lasciare la casa di Betel e Labano, Giacobbe convocò le due mogli ed espose il suo progetto di lasciare quelle terre di Mesopotamia e ritornare a Canaan, anche perché i rapporti con Labano loro padre, erano cambiati e diventati più difficili.
Rachele e Lia risposero acconsentendo, giacché il loro padre l’aveva trattate come straniere, vendendole e mangiandosi la loro dote. Prima di partire di nascosto, Rachele volle prendere gli idoletti che appartenevano al padre (sorta di statuette forse indicanti le divinità familiari, oppure il possesso di esse sanciva un diritto all’eredità; non è stato chiarito), per portarseli con sé nella terra sconosciuta dove stava recandosi, come segno di protezione o di memoria del suo passato.
Ancora s’incontra Rachele al capitolo 31, quando avendo Labano raggiunto la carovana di Giacobbe, partito a sua insaputa, dopo aver rimproverato il genero di portar via da lui le figlie e i nipoti, lo accusò di aver rubato i “terafini” dalla sua casa.
L’ignaro Giacobbe lo invitò a guardare nelle tende per assicurarsi che non c’erano, giunto alla tenda di Rachele, questa l’aveva nascosti nella sella del cammello e vi si era seduta sopra.
All’entrata del padre, lei si scusò di non potersi alzare perché indisposta, “come avviene regolarmente alle donne”; così Labano si ritirò non trovando niente.
Rachele, Lia, le schiave e i loro figli furono poi presenti all’incontro riconciliatore di Giacobbe con Esaù suo fratello, dal quale si era allontanato per sfuggire alla sua ira, tanti anni prima.
Infine nel capitolo 35 della Genesi, si narra del percorso itinerante per trovare un luogo adatto per stabilirsi; la tribù di Giacobbe arrivò in prossimità di Efrata e qui a Rachele incinta per la seconda volta, si presentò un parto difficile e nonostante tutti gli sforzi e pur avendo salvato il bambino, Rachele morì, qualche minuto prima diede il nome a suo figlio, Ben-Oni che Giacobbe muterà in Beniamino.
Fu sepolta lungo la strada verso Efrata, identificata con Betlemme e sulla sua tomba Giacobbe eresse una stele; ancora oggi all’ingresso di Betlemme, esiste un piccolo mausoleo dedicato a Rachele e la sua tomba è meta di pellegrinaggio degli ebrei.
Poi Giacobbe raggiunse suo padre Isacco, che visse fino all’età di 180 anni e fu sepolto dai due figli Esaù e Giacobbe.
I figli maschi del patriarca Giacobbe furono dodici: I figli di Lia, Ruben il primogenito, Simeone, Levi, Giuda, Issacar e Zebulon; i figli di Rachele, Giuseppe e Beniamino; i figli della schiava Bila, Dan e Neftali; i figli della schiava Zilpa, Gad ed Aser; inoltre è menzionata la figlia Dina avuta da Lia.
I figli di Rachele e della sua schiava Bila iniziarono l’allevamento degli ovini, mentre i figli di Lia e della sua schiava Zilpa diedero origine agli allevamenti di bovini.
La continuità del lungo percorso del ‘popolo della salvezza’, passerà poi alla discendenza di Giuseppe, figlio di Rachele, il quale non era certamente il primogenito fra i figli del patriarca; quindi ancora una volta Dio è presente nella storia d’Israele, che conduce con il suo imperscrutabile disegno; disegno tanto più evidente se si pensa che le ultime tre donne, Sara, Rebecca, Rachele, madri, mogli e nonne di patriarchi, erano tutte sterili e poi per volere di Dio, concepirono nella vecchiaia un figlio divenuto erede della discendenza.
Quindi anche Rachele fa parte del grande programma di Dio e come tale anch’essa è considerata persona santa e oggi con tutti gli antenati di Gesù, uomini e donne, giusti e fedeli alla legge divina, viene ricordata con loro il 24 dicembre; per antica tradizione era venerata da sola il 30 settembre.
È patrona delle madri che hanno perso un figlio; il nome è molto diffuso fra gli ebrei ma anche fra gli inglesi (Rachel), in Russia è Raissa, in Italia portò tale nome la moglie di Benito Mussolini.



Stellina788
00venerdì 17 dicembre 2010 10:52

Santa Tarsilia (o Tarsilla)

24 dicembre

Roma, secolo VI

La vigilia di Natale, la Chiesa - oltre a tutti i santi avi di Gesù, figlio di Davide, Abramo e Adamo - propone alla venerazione Tarsilia (o Tarsilla, VI sec.), zia paterna di Papa Gregorio I Magno. Proprio le opere del nipote ci dicono qualcosa di autorevole sulla vita di lei. Monaca con le sorelle Emiliana e Gordiana, visse la carità in tempi di peste e carestia. Dopo morta, apparve a Emiliana. «Ho fatto Natale senza di te, ma vieni a festeggiare insieme l'Epifania». E infatti questa morì pochi giorni dopo, il 5 gennaio. Si vuole che i corpi siano stati deposti dal nipote nell'area della chiesa romana dei Santi Andrea e Gregorio al Celio. (Avvenire)

Etimologia: Tarsilia = proveniente da Tarso (città della Cilicia)

Martirologio Romano: A Roma, commemorazione di santa Tarsilla, vergine, della quale san Gregorio Magno, suo nipote, loda l’assidua preghiera, il rigore di vita e il singolare spirito di penitenza.


E' una delle zie paterne di Gregorio I Magno, che fu papa dal 590 al 604. Le altre sono Emiliana (o Amelia) e Gordiana. La loro è una delle famiglie più illustri di Roma: tra gli avi ci sono anche un imperatore, Olibrio, nel V secolo, e il papa Felice III (526-530).
Però di Tarsilla (o Tarsilia) sappiamo pochissimo. Il suo nome compare soltanto nell’XI secolo in un martirologio locale (che è un elenco di santi, martiri e no), e poi, dopo il Concilio di Trento, nel Martirologio romano, quello ufficiale per tutta la Chiesa cattolica. L’unica fonte autorevole sulla sua vita è il nipote papa, Gregorio Magno. (Ma Gregorio racconta vicende di parenti soltanto quando gli servono come esempi concreti e attuali, per rendere efficace il suo insegnamento). Tarsilla e le sorelle hanno certo aiutato la cognata Silvia ad allevare il piccolo Gregorio, dalla salute sempre fragile. Poi, finché sono in vita, lo seguono negli studi e nelle cariche. Gregorio, ancora giovane, diventa capo dell’amministrazione civile in Roma: una Roma ormai senza l’imperatore, il quale risiede a Costantinopoli, e con un Senato che non conta più nulla. Poi troviamo Gregorio ambasciatore del papa Pelagio II e al tempo stesso monaco, capo di una piccola comunità raccolta in una sua residenza sul Celio. Di lì Gregorio uscirà per fare il papa.
Tarsilla si è già fatta monaca, tirandosi dietro le sue sorelle. Monache all’occidentale: ossia non isolate nella solitudine, ma dedite alla vita comune, votate alla castità e alla preghiera continua. Ma non solo. In questo terribile VI secolo, funestato da alluvioni, pestilenze (nella miniatura: la processione di san Gregorio Magno in occasione della peste che colpì Roma nel 590), guerra tra Goti e Bizantini, invasione longobarda, a Roma è un continuo affluire di gente in miseria. "La carestia", scrive Gregorovius, "stringeva la città in una morsa di fame". Così la carità diventa compito abituale anche di queste monache, mai estranee alla vita degli altri. Tarsilla è la loro guida in tutto, a cominciare dalla preghiera: da morta, le troveranno ginocchia e gomiti incalliti per il continuo pregare. (La sorella Gordiana prega meno. Anzi, a un certo punto lascia la comunità e si sposa con l’amministratore dei suoi beni).
Il ricordo di Tarsilla, pur senza l’accompagnamento di fatti prodigiosi, durerà discreto e tenace nel tempo, arricchito anche da un singolare racconto di Gregorio Magno. Egli dice che questa zia è morta poco prima di Natale (l’anno tuttavia rimane sconosciuto). E aggiunge che sua sorella Emiliana, sopravvissuta, un giorno ha sentito la sua voce che le diceva: "Ho fatto Natale senza di te, ma vieni a festeggiare insieme l’Epifania". Secondo una tradizione, infatti, Emiliana (o Amelia) muore proprio il 5 gennaio successivo alla morte di Tarsilla. E tuttora la sua festa si colloca in questa data.


Questa è la versione 'lo-fi' del Forum Per visualizzare la versione completa clicca qui
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 04:20.
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com