27 marzo

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00venerdì 27 marzo 2009 08:45

Sant' Aimone di Halberstadt Vescovo

27 marzo

m. 27 marzo 853

Etimologia: Aimone = difensore della casa, dal tedesco

Emblema: Bastone pastorale


Entrò giovanissimo nel monastero benedettino di Fulda; fu compagno di Rabano Mauro, con il quale ascoltò le lezioni di Alcuino (802) nel celebre monastero di S. Martino di Tours. Ritornò a Fulda (804), dove risiedette e insegnò fino all'839 ca., quando fu trasferito ad Hersfeld. Nell'840 ad opera dell'imperatore Ludovico il Germanico fu nominato vescovo di Halberstadt e come tale partecipò ai sinodi di Magonza degli anni 847 e 852. Rabano Mauro gli dedicò l'opera De universo; anche Aimone scrisse parecchio, ma non tutte le opere a lui attribuite e raccolte in tre volumi nel Migne sono autentiche.
Aimone morì il 27 marzo 853. Nei martirologi benedettini è talvolta chiamato «beato» o «santo», ma non consta che abbia mai avuto un culto ufficiale e riconosciuto dalla Chiesa.




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00venerdì 27 marzo 2009 08:45

Sant' Alessandro di Drizipara Martire

27 marzo

Etimologia: Alessandro = protettore di uomini, dal greco

Emblema: Palma


Secondo la sua passio, ricca di elementi leggendari e fantastici, Alessandro, legionario romano, militava agli ordini del tribuno Tiberiano, sotto l'imperatore Massimiano (286-305), allorché si rifiutò di sacriIicare a Giove, essendo cristiano, in occasione dell'inaugurazione in Roma di un tempio al padre degli dei. Arrestato e condotto davanti all'imperatore, professò apertamente la sua fede, per cui venne crudelmente torturato, consegnato quindi a Tiberiano ed infine inviato in Tracia, dove subì nuove più atroci torture, sopportate peraltro tutte con grande coraggio. Trasferito da una località all'altra dell'Illiria e della Tracia, fu sottoposto dovunque ad ulteriori più estenuanti interrogatori ed a spietati supplizi, finché a Drizipara (non molto lungi dall'attuale Karistiran) Tiberiano lo fece mettere a morte mediante decapitazione, che venne eseguita in un luogo distante 18 miglia dalla città. Il corpo di Alessandro fu gettato quindi in un fiume, donde venne ripescato, con l'aiuto di quattro cani, dalla madre stessa del martire, Pemenia, che, miracolosamente avvisata da un angelo, aveva potuto seguire il figlio per tutto il suo doloroso itinerario.
Il culto di Alessandro di Drizipara sembra risalire al sec. VI; intorno a quell'epoca, infatti, la pietà popolare aveva voluto innalzare, sul luogo dove la madre del martire aveva dato sepoltura al figlio morto per la fede, una magnifica chiesa in suo onore, che fu saccheggiata e distrutta all'inizio del 600 dagli Avari, i quali inoltre, secondo una testimonianza del cronista bizantino Teofilatto Simocatta, profanarono le reliquie del santo, subendo però l'immediato castigo divino: una peste che decimò le loro forze.
La commemorazione di Alessandro è fatta dal Martirologio Romano il 27 marzo, mentre nel Sinassario Costantinopolitano due volte ricorre il nome di un Alessandro martire, al 25 febb. ed al 13 magg., con notizie alquanto discordanti tra loro, il che farebbe pensare trattarsi di due differenti persone, mentre è quasi certo che si riferiscono entrambe allo stesso individuo.




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00venerdì 27 marzo 2009 08:46

Sant' Augusta di Serravalle Vergine e martire

27 marzo

Serravalle (Vittorio Veneto), † 100 ca.

Gli «Atti» di sant'Augusta furono redatti alla fine del XVI secolo da Minuccio de' Minucci di Serravalle, segretario di papa Clemente VIII. Le notizie sono leggendarie, come del resto accadde per molti martiri dei primi tempi del cristianesimo. Augusta sarebbe stata figlia di Matruco, capo alemanno (dell'Alemagna, la Germania), che aveva conquistato e sottomesso il Friuli. Questi risiedeva a Serravalle (attuale borgo antico della città di Vittorio Veneto) ed era un accanito nemico della religione cristiana. Augusta abbracciò la nuova fede segretamente, ma il padre ne venne comunque a conoscenza e la fece arrestare. Giacché si rifiutò di apostatare, intorno all'anno 100 fu gettata in un carcere e dopo varie torture, venne decapitata. (Avvenire)


Gli “Atti” di s. Augusta, cioè le notizie sulla sua vita e martirio, furono redatte alla fine del XVI secolo da Minuccio de’ Minucci di Serravalle, protonotario apostolico e segretario di papa Clemente VIII (1592-1605).
Questi “Atti” furono inviati agli editori dei volumi “De probatis sanctorum historiis” di Lorenzo Surio, certosino e agiografo tedesco (1522-1578) e furono inseriti nel vol. VII dell’edizione stampata a Colonia in Germania.
Le notizie sono senz’altro leggendarie, come del resto accadde per molti martiri dei primi tempi del cristianesimo, oppure di martiri che molto tempo dopo la loro morte, si siano trovate le reliquie e quindi ci si è spesso inventati la vita.
Secondo questi “Atti”, Augusta era figlia di Matruco, capo alemanno (Alemagna - Germania), che aveva conquistato e sottomesso il Friuli; questi risiedeva a Serravalle (attuale borgo antico della città di Vittorio Veneto) ed era un accanito nemico della religione cristiana.
Augusta abbracciò la nuova fede segretamente, ma il padre ne venne comunque a conoscenza e la fece arrestare. Giacché si rifiutò di apostatare, fu gettata in un carcere e dopo varie torture, venne decapitata; il suo corpo fu ritrovato alcuni anni dopo sepolto su una collina, sovrastante Serravalle, che prese il suo nome; qui le fu dedicata dal V secolo, una chiesa molto frequentata dagli abitanti.
L’epoca del suo martirio è circa il 100 d.C.; la santa è anche conosciuta come Augusta di Ceneda, (secondo nucleo di Vittorio Veneto, città posta ai piedi delle Prealpi Bellunesi, in provincia di Treviso).
S. Augusta viene raffigurata con i simboli del suo martirio, una ruota dentata per la tortura, i denti che le furono strappati, la palma. Sulla collina di S. Augusta, vi sono ancora i resti del castello del truce padre Matruco, e la grande chiesa a lei dedicata.

Il nome Augusto/a significa “consacrato”; esso fu premesso a parecchie città per onorare l’imperatore romano Augusto, come: Augusta Praetoria (Aosta), Augusta Taurinorum (Torino); Augusta Treverorum (Treviri), ecc. inoltre si chiamano così Augusta in provincia di Siracusa, la capitale del Maine negli U.S.A., Augusta in Georgia, Augsburg, importante città tedesca.





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00venerdì 27 marzo 2009 08:47

Beato Claudio Gallo Patriarca d’Antiochia

27 marzo

+ 1304

Patriarca d’Antiochia, il Beato Claudio Gallo, fu strenuo difensore della libertà dell’unità ecclesiastica, dottissimo nelle Sacre Scritture il quale con e virtù e miracoli rese famosa la Chiesa e l’Ordine Mercedario. Di una devozione ammirabile verso la Madre di Dio, la quale lo colmò di celesti favori. Morì nel 1304. L’Ordine lo festeggia il 27 marzo.




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00venerdì 27 marzo 2009 08:47

Santi Fileto e Lidia, sposi, e Macedone, Teoprepio, Cronide e Anfilochio Martiri

27 marzo

+ Illiria, II secolo


La “passio” di questi santi è giudicata dai Bollandisti nel loro Commento al Martirologio Romano “certe fabulosa”, cioè sicuramente favolosa. Fileto sarebbe stato un nobile senatore illirico, Lidia la sua sposa, Macedone e Teoprepio i loro figli. Arrestati semplicemente in quanto cristiani, l’imperatore Adrianò li affidò all’alto ufficiale Anfilochio affinché li sottoponesse ad atroci torture. Dinnanzi alla fortezza con cui l’intera famiglia sopportò diversi supplizi, Anfilochio dovette desistere ed addirittura si convertì al cristianesimo. Allo stesso modo anche l’ufficiale di guardia della prigione, Cronide, seguì il suo esempio. L’imperatore si adirò molto al giungere della notizia alle sue orecchie e li fece sottoporre tutti e sei a nuovi supplizi nella speranza di farli desistere. Morirono infine immersi in una vasca ricolma di olio bollente.
I sinasari bizantini ricordano questi gloriosi martiri al 27, 28 o 29 marzo, mentre il Martyrologium Romanum non li cita più nell'ultima edizione. Fileto e Lidia, i cui nomi non sono purtroppo molto conosciuti, non sono che una della moltissime coppie di sposi venerati come santi nella storia della cristianità, addirittura un’intera famiglia martirizzata in odio alla sua fede in Cristo, come nel XX secolo in Polonia la famiglia Ulma, per la quale è in corso il processo di canonizzazione: validi modelli dunque in un’epoca in cui il valore della famiglia è messo a repentaglio da iniziative discutibili dal punto di vista cristiano.





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00venerdì 27 marzo 2009 08:48

Beato Francesco Faà di Bruno Sacerdote

27 marzo

Alessandria, 29 marzo 1825 - Torino, 27 marzo 1888

Francesco Faà di Bruno fa parte della grande schiera dei santi sociali piemontesi. Nacque ad Alessandria nel 1825 da una famiglia della nobiltà militare. Prima di divenire prete, lui stesso fu ufficiale dell'esercito sabaudo (è protettore dei genieri), professore all'Università di Torino, architetto e matematico, consigliere della Casa reale. Diede vita all'opera Santa Zita per le donne di servizio e a una casa per ragazze madri. Fondò le suore Minime di Nostra Signora del Suffragio. Morì nel 1888 ed è beato dal 1988. (Avvenire)

Martirologio Romano: A Torino, beato Francesco Faá di Bruno, sacerdote, che unì sempre alla sua competenza di matematico e fisico l’impegno nelle opere di carità.


Francesco Faà di Bruno, ultimo di dodici figli, nacque ad Alessandria il 29 marzo 1825. I genitori, entrambi nobili e benestanti, lo educarono cristianamente, come gli altri numerosi fratelli. Nel tranquillo castello di Bruno (AL) la famiglia trascorreva ogni anno lunghi periodi. Esemplare nella carità era la madre, attenta nel soccorrere i poveri del paese. Due fratelli si fecero religiosi (uno entrò nella congregazione fondata a Roma da S. Vincenzo Pallotti, a Londra diede vita ad un’opera per gli immigrati italiani e fu successore del santo alla guida della congregazione) e due sorelle entrarono in monastero. La madre purtroppo morì quando Francesco aveva solo nove anni. Dopo aver frequentato il collegio dei Padri Somaschi a Novi Ligure, avrebbe desiderato seguire l’esempio dei fratelli religiosi ma, consigliato da una zia, entrò a quindici anni nell’Accademia militare di Torino, emulando così il fratello Emilio (che morirà da eroe nel 1866 durante la battaglia di Lissa, meritando la Medaglia d’oro al valor militare). Nel 1846 Francesco fu nominato luogotenente. Era solo ventitreenne quando partecipò alla Prima Guerra d’Indipendenza, aiutante di campo del principe ereditario Vittorio Emanuele. Nella sanguinosa battaglia di Novara, vide morire in battaglia molti soldati. Quelle vite stroncate all’improvviso, il pensiero che la maggior parte di quei giovani non fosse preparata all’inaspettato incontro con Dio, furono un monito che tenne poi sempre fisso nella memoria. Durante gli scontri il suo cavallo fu colpito a morte e lui, che era molto alto, anche se ferito ad una gamba, restò in piedi e si mise in salvo. Nei mesi precedenti, sorpreso che non esistessero rilievi aggiornati della zona, aveva raccolto i dati necessari per disegnare la “Gran carta del Mincio”, il cui utilizzo sarà decisivo nel 1859 durante le battaglie di Solferino e San Martino. Il giovane ufficiale aveva già quel profondo senso del dovere e di pietà che lo contraddistinse e lo guidò, per tutto il resto della vita. Fu decorato e promosso capitano di Stato Maggiore ma, trovandolo eccessivo, scrisse al fratello Alessandro: “Non ho fatto niente di più straordinario del mio dovere”.
Nella Torino “dei santi”, i passi del giovane ufficiale incontrarono quelli di don Bosco. Molte volte, deposta la sciabola in sacrestia, servì Messa, in divisa, al “santo dei ragazzi”, prima di recarsi all’Accademia militare. Le doti e l’ottimo carattere convinsero Vittorio Emanuele II, salito al trono dopo l’abdicazione di Carlo Alberto, a nominarlo precettore dei figli. Per perfezionare gli studi si trasferì a Parigi e alla Sorbona conseguì la licenza in Scienze matematiche. Ritornato a Torino, nel 1851, trovò che l’incarico gli era stato revocato. Era un cattolico “fervente” ed impegnato e ciò infastidiva la corrente anticlericale cui il sovrano doveva sottostare per ragioni d’equilibrio politico. Addirittura per la sua preparazione fu sfidato a duello da un commilitone, ma Francesco per coscienza si sottrasse. Deluso per le opposizioni dei potenti, memore delle scene terribili vissute sui campi di battaglia, si dimise dall’esercito. Nel 1853 pubblicò il “Manuale del soldato cristiano” e, partendo nuovamente per Parigi, passò all’amico don Bosco la cura de “Il Galantuomo”, un calendario che pubblicava per i contadini con consigli e massime religiose. Aveva anche fatto stampare “La lira cattolica”, una raccolta di canti sacri da lui composti. Nella capitale francese frequentò la Sorbona, laureandosi in Scienze matematiche ed in Astronomia. Qui ebbe come docente e poi relatore di Tesi Agostino Cauchy, illustre esponente del mondo cattolico parigino. La formazione di quegli anni sarà fondamentale per il suo futuro impegno a servizio della Chiesa. Conobbe l’eccezionale realtà delle Conferenze di San Vincenzo ed il loro fondatore Federico Ozanam. Si aggregò alla sua conferenza (St. Germain des Prés) ed ebbe modo di conoscere numerose iniziative che i cattolici francesi conducevano in favore dei poveri. Tornato a Torino, nella sua parrocchia di s. Massimo, aprì una scuola di canto per le tante serve che la domenica vagavano per la città, abbandonate a loro stesse. Compose canti religiosi che egli stesso accompagnava poi all’organo e che faceva eseguire nelle varie parrocchie dove andava ad animare la Messa domenicale. Conobbe così i problemi di questa categoria del tutto ignorata.
Nel 1857 Francesco pubblicò la “formula di Bruno”, ancora oggi impiegata nei calcoli informatici, e iniziò a impartire lezioni universitarie, libere e non retribuite, di analisi e astronomia fisica. Nasceva intanto la prima conferenza vincenziana torinese dei Ss. Martiri. Vi presenziò, fu poi a capo di quella di s. Massimo e ne fondò una ad Alessandria, sua città natale, tra non poche difficoltà. Si candidò alle elezioni politiche per contrastare la corrente liberale imperante, ma non vinse, sembra per brogli elettorali. In quegli anni invitò le autorità cittadine ad istituire i fornelli economici, sul modello francese, per offrire un pasto caldo a chi non aveva molte disponibilità economiche. Chiese un sussidio, ma non ottenne risposta. Realizzò egli stesso il progetto in borgo San Donato, uno dei più malfamati della città, dove nel 1858 acquistò un terreno e una casa, dando vita a quello che sarà il suo capolavoro. Aprì ufficialmente il 2 febbraio 1859 la Pia Opera di s. Zita e la pose sotto la protezione della Santa lucchese. Raggiunse la somma necessaria, esauriti i mezzi propri, chiedendo aiuto alla famiglia e questuando fuori dalle chiese. Vi accoglieva gratuitamente le donne in cerca di servizio, curando la loro formazione, preoccupandosi di assicurarle in famiglie dai sani principi in cui dovevano essere “strumento di pace e di concordia”. Quelle invece intellettivamente non molto dotate, che in famiglia davano preoccupazioni, formeranno le “clarine” (sotto la protezione di s. Chiara). Accolte ed aiutate, erano in grado di compiere servizi altrettanto utili, ad esempio nella lavanderia, dove funzionavano macchine a vapore da lui stesso progettate. Lavando per l’Accademia militare, per le ferrovie, e per qualche privato, il Beato ebbe delle entrate per sostenere l’Opera. Nel 1861 venne nominato dottore aggregato alla Facoltà di Scienze fisiche e matematiche, tre anni dopo iniziò ad insegnare topografia, geodesia, trigonometria nella Scuola d’Applicazione dell’esercito. Il “complesso di s. Zita”, che in seguito mutò nome in Conservatorio del Suffragio, intanto si ingrandiva. Francesco vi aggiunse un pensionato per sacerdoti, un pensionato per donne di “civil condizione”, senza dimenticare quelle più povere, posti sotto la protezione di S. Giuseppe; pensò alla formazione delle giovani come insegnanti e aprì la classe delle Allieve maestre (protettrice S. Teresa d’Avila), la classe delle Educande per preparare le giovani a gestire una famiglia. Istituì pure un liceo, cui don Bosco mandò i primi ragazzi, raccomandandogli di “ritornarglieli promossi”, una biblioteca mutua circolante, una tipografia, anch’essa gestita da donne, cosa a quei tempi scandalosa, in cui il beato stampò alcune sue pubblicazioni scientifiche e musicali. Era ormai la ”cittadella della solidarietà femminile”. Il suo cuore batteva per i più deboli, per ogni vita in pericolo che poteva soccorrere e salvare nella sua dignità. Una realtà femminile del tutto dimenticata era quella delle ragazze madri, che la società considerava delle depravate, mentre il più delle volte erano vittime di padroni senza scrupoli. Faà di Bruno aprì per loro una “casa di preservazione” in Via della Consolata: la cosa era talmente straordinaria, che nel Conservatorio del Suffragio nemmeno si sapeva dell’esistenza di quest’opera.
Un laico aveva dato vita ad un complesso eccezionale di opere, dirette la maestre laiche che si riunivano a pregare nella cappella di S. Zita, ormai troppo piccola. La necessità di un luogo sacro più ampio convinse il Faà di Bruno, nel 1864, a dare mano alla costruzione di una chiesa dedicata a Nostra Signora del Suffragio. Com’ebbe a scrivere ai suoi commilitoni, lo volle come monumento ai Caduti di tutte le guerre, luogo di preghiera per le anime dei defunti. Fu costretto a sospendere i lavori per mancanza di fondi ma, pur di realizzarlo, andò questuando anche alle porte delle chiese cittadine. Allo scultore Antonio Tortone commissionò un monumentale gruppo marmoreo raffigurante la Vergine Santa aiuto delle anime del purgatorio. La Chiesa fu benedetta il 31 ottobre 1876 dall’Arcivescovo Gastaldi, che pure aveva ostacolato la sua ordinazione sacerdotale. Quando infatti Francesco decise, a cinquantuno anni, di consacrarsi prete, realizzando quella vocazione che per tanti anni aveva conservato in cuore e che certamente l’aveva mosso ad agire come fosse un sacerdote, dovette farlo a Roma. Don Bosco lo sostenne ed espose la situazione al Papa Pio IX che con dispensa speciale permise la sua ordinazione il 22 ottobre 1876. Dopo tre mesi di preparazione, con il calice che lo stesso pontefice gli aveva donato, celebrò la sua prima Messa. Nella sua Torino coronò solennemente il suo sogno il 1° novembre, all’inizio del mese dedicato ai defunti. La celebrazione del sacrificio eucaristico, il massimo mezzo di suffragio, ebbe per lui un significato straordinario. Lo fece sempre con grandissimo scrupolo, tornando spesso col pensiero a quei giovani che aveva visto morire sui campi di battaglia. Alla chiesa affiancò un campanile alto settantacinque metri, che progettò personalmente applicando le leggi di statica e fisica che ben conosceva. Vi collocò un orologio su ognuno dei quattro lati, che segnava ogni quarto d’ora e in un quartiere povero, come era s. Donato, ciò aveva una valenza sociale. Era una presenza religiosa tra le case che armonizzava scienza e fede. Nell’ardita costruzione, che ospita otto campane, una ottenuta dalla fusione di un cannone fattosi donare dal Re, inserì un osservatorio astronomico e meteorologico. Sulla sua sommità collocò la vigilante statua dell’arcangelo Michele. L’attività di Francesco non conosceva soste. Iniziò con don Bosco l’opera per la santificazione delle feste, contro lo sfruttamento domenicale dei lavoratori, e inviò al Comune uno studio per realizzare dei bagni pubblici e dei lavatoi per prevenire la diffusione delle malattie causate della poca igiene. Pensava alle donne che lavavano i panni sulle rive dei fossi e che d’inverno dovevano prima rompere il ghiaccio.
Francesco fu anche uno scienziato, inventò un barometro differenziale a mercurio, uno scrittoio per ciechi (stimolato dalla cecità della sorella), che fu premiato in alcune esposizioni universali, uno svegliarino elettrico e uno ellipsigrafo. Nel 1867 pubblicò un saggio scientifico sulla teoria delle forme binarie. Vedeva l’armonia delle leggi della fisica e della matematica come “un’ombra delle perfezioni di Dio”. Diceva che “il vero ricercatore, purché oggettivo, non può non riconoscere dietro i fenomeni fisici e le misteriose regolarità matematiche su cui si regge l’universo, una provvida e onnipotente sapienza”. Il suo nome cominciò a circolare in tutta Europa, ma l’Università torinese non lo nominò mai ordinario di una cattedra. Non ebbe che supplenze e incarichi temporanei. Visse non senza contraddizioni il periodo risorgimentale, considerandolo necessario, era però angustiato dagli attacchi alla Chiesa. Era un uomo di preghiera, “un asceta cittadino”, tra i primi ad introdurre le adorazioni notturne in città. Nel 1880 fondò l’Istituto di s. Giuseppe a Benevello d’Alba, per la formazione professionale delle giovani. L’anno dopo ottenne l’approvazione diocesana della congregazione religiosa che aveva avuto origine dal gruppo di giovani donne che dal 1868 portava avanti le sue opere. Oltre ai voti di povertà, castità e obbedienza, consacravano i propri beni spirituali per le anime del purgatorio e ciò avveniva per l’Atto eroico di carità: nasceva così la Congregazione alle Suore Minime di N. S. del Suffragio. Le chiamò Minime in omaggio del suo Patrono s. Francesco di Paola. Giovanna Gonella, prima segretaria dell’Opera e poi direttrice, divenne suora soltanto dopo la morte del fondatore e sarà poi la prima Superiora generale. Al Beato si devono anche due opere teologiche, una sull’Eucaristia (1872) e un Catechismo ragionato (1875), pur continuando gli studi scientifici. Suoi articoli erano pubblicati su autorevoli riviste internazionali, poiché conosceva l’inglese, il tedesco, il francese. Le sue “invenzioni” ottennero numerosi premi. Diceva: “l’istruirmi e l’essere utile agli altri, sono i cardini della porta della mia felicità”. Tradusse dall’inglese e dal tedesco alcune opere di devozione, organizzava “serate scientifiche” per finanziare la realizzazione degli affreschi della “sua” chiesa. Ricco e nobile, Francesco visse da povero, per aiutare i poveri. Promosse la figura femminile sotto ogni aspetto, dalle “serve” fino a fondare una congregazione di religiose mentre era ancora laico.
Il “Padre” chiuse gli occhi su questa terra, dopo appena cinque giorni di malattia, forse per un’infezione intestinale, il 27 marzo 1888, due mesi dopo l’amico don Bosco. Erano le nove del mattino del martedì della Settimana Santa, in quella stanza in cui aveva voluto una finestrella dalla quale adorare Gesù Eucaristia, presente nel tabernacolo della chiesa. Lo faceva spesso di notte, per recuperare il tempo della preghiera che per altri impegni forse aveva trascurato durante la giornata. Fu magnanimo anche da morto e a quell’università che non lo aveva mai pienamente accolto, donò “la preziosa collezione di libri e periodici scientifici nazionali ed esteri: una delle più ricche biblioteche private d’Italia, raccolta in trentotto anni di studio e di lavoro”. Francesco Faà di Bruno fu beatificato il 25 settembre 1988, nel centenario della morte, da Giovanni Paolo II che, durante una sua visita a Torino, gli dedicò la cappella della Scuola di Applicazione, indicando l’antico capitano come protettore dei militari. Le sue reliquie sono venerate nella Chiesa di N.S. del Suffragio annessa alla Casa Madre dell’Istituto. Un museo raccoglie i suoi ricordi, libri antichi, molti strumenti scientifici e alcune sue invenzioni. Le Suore Minime di Nostra Signora del Suffragio sono oggi missionarie in diverse paesi del mondo, nello spirito che il Fondatore ha racchiuso nel suo motto: PREGARE, AGIRE, SOFFRIRE.

PREGHIERA
O Padre, tu hai ispirato il beato Francesco Faà di Bruno
a porre la fede, la scienza e la carità
al servizio di Dio e dei fratelli vivi e defunti.
Fa’ che, sul suo esempio,
siamo docili alle ispirazioni dello Spirito Santo
e amiamo tutti con il cuore di Cristo.
Concedici, per sua intercessione,
la grazia che ti domandiamo.
Per Cristo nostro Signore. Amen.




scri30
00venerdì 27 marzo 2009 08:48

Madonna dei Lavoratori - Torino

27 marzo

A Torino sul piazzale del Monte dei Cappuccini spicca longilinea la moderna statua bronzea della Madonna dei Lavoratori, cinta da una cancellata proveniente da Lourdes. Inaugurazione: 27 marzo 1960.

Patronato: Lavoratori torinesi


A Torino, vicino alla celebre chiesa della Gran Madre di Dio costruita in occasione del rientro in patria del re Vittorio Emanuele I dall’esilio, sorge il complesso del Monte dei Cappuccini, una delle odierne immagini simbolo della città, formato dall’omonimo convento e dalla chiesa di Santa Maria al Monte.
Sul piazzale antistante la chiesa spicca longilinea la moderna statua bronzea della Madonna dei Lavoratori, opera dell’artista G. Cantono.
All’inaugurazione, avvenuta il 27 marzo 1960, presenziarono l’arcivescovo di Torino cardinal Maurilio Fossati, l’arcivescovo di Milano cardinal Giovanni Battista Montini ed il vescovo di Lourdes monsignor Théas. Era stato proprio quest’ultimo a donare nel 1958 ai lavoratori della Fiat pellegrini a Lourdes la cancellata che ora cinge la statua in direzione della città. Per anni essa aveva chiusa l’ingresso della grotta dove la Santa Vergine apparve a Bernardetta. I presenti a tale manifestazione poterono anche udire un radiomessaggio da parte dell’allora pontefice regnante, il Beato Giovanni XXIII.





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00venerdì 27 marzo 2009 08:49

San Matteo di Beauvais Crociato, martire

27 marzo

+ 27 marzo 1098


Il giovane Matteo, originario di Beauvais in Francia, partì per la prima crociata insieme al suo vescovo, Ruggero, che lo aveva investito cavaliere.
Intorno al 1098 fu fatto prigioniero dai Mori e, rifiutatosi di rinnegare la fede cristiana, fu condannato alla decapitazione. Matteo chiese ed ottenne di rinviare l’esecuzione sino al Venerdì Santo.
Il suo culto è prettamente locale e non ha mai ricevuto ufficiale conferma di culto da parte di alcun pontefice.





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00venerdì 27 marzo 2009 08:49

Beata Panacea De' Muzzi Vergine e martire

27 marzo

Quarona, Vercelli, 1368 - 1383

Etimologia: Palma

Martirologio Romano: A Quarona presso Novara, beata Panacea de’ Muzzi, vergine e martire, che, all’età di quindici anni, mentre pregava in chiesa, fu uccisa dalla sua matrigna, dalla quale aveva sempre subito vessazioni.


La fonte più antica che possediamo riguardo la vita di Panacea è di carattere iconografico ed è costituita da tre affreschi che si trovano nell'antico oratorio di San Pantaleone situato in località Oro di Boccioleto, comune della Valsermenza, una delle numerose valli laterali della Valsesia. I dipinti furono eseguiti nel 1476 da Luca De Campis e ci presentano dei momenti significativi della vita della ragazza: la carità verso i poveri, il suo martirio e il trasporto del suo corpo (funerale o inventio delle reliquie?) alla presenza del vescovo del clero e dei fedeli. Questi episodi sono una sintesi della storia molto triste, che ha tutto il sapore di una di quelle favole che raccontavano le nostre nonne, ma che, al contrario di queste, è ben documentata da molte fonti storiche, che rivelano la profonda fede di cui è intessuta: una fede vissuta e testimoniata fino al sacrificio estremo della vita.
Panacea nacque a Quarona, oggi dinamica cittadina situata tra Borgosesia e Varallo, nel 1368, da Lorenzo Muzio, originario di Cadarafagno, e da Maria Gambino oriunda di Ghemme. La madre morì prematuramente ed il padre, per non far mancare un così importante riferimento alla bambina, si risposò con una certa Margherita di Locarno Sesia. Nella ricomposta famiglia non erano però molto felici e tra la matrigna, la sorellastra e Panacea iniziarono una serie di incomprensioni e divergenze che portarono le prime due a manifestare aperta ostilità nei riguardi della fanciulla, fatta oggetto di angherie ampiamente descritte dai biografi della beata dei secoli scorsi, tra cui va ricordato in particolare Silvio Pellico.
Questa situazione degenerò, secondo la tradizione, in una sera di primavera del 1383, quando la matrigna, non vedendo rincasare la ragazza andò a cercarla personalmente. Si recò sul monte Tucri che sovrasta l'abitato e, poco oltre l'antichissima chiesa di San Giovanni, trovò Panacea in preghiera. Adirata Margherita la rimproverò e in un eccessivo scatto d'ira, forse senza volerlo, la percosse violentemente uccidendola; accortasi dell'accaduto la donna si gettò da un burrone in preda alla disperazione.
La notizia si sparse subito nel paese e nel contado circostante e richiamò molta gente presso il corpo di Panacea che fu trasportato a Ghemme, per essere sepolto accanto a quello della madre, deposto nel cimitero adiacente la parrocchiale di Santa Maria. Il culto per la pastorella valsesiana, che ricevette conferma papale nel 1867, si sviluppò presto, già all'inizio del 1400 vennero edificati due oratori in sua memoria: uno sul luogo del martirio, Beata al Monte, e uno in paese dove venne accolta la salma, Beata al Piano.
Vero centro però della devozione alla patrona della Valsesia è stata sempre la chiesa di Ghemme, all'interno della quale, in un grande scurolo opera di Alessandro Antonelli, sono ancora oggi conservate le sue reliquie, meta ogni anno, il primo venerdì di maggio, di numerosi fedeli provenienti dalla Valsesia e dal Novarese, tra cui i più numerosi i quaronesi che compiono a piedi il cammino. Lungo i secoli l'affetto popolare che circonda Panacea non venne mai meno, manifestandosi in più occasioni: come i trasporti o le peregrinazioni delle sue spoglie, e dando origine ad una ricca produzione iconografica, sia in valle, dove ogni località ne possiede traccia, sia oltre i confini della diocesi. Generalmente Panacea è presentata nel momento del martirio, con gli attributi tradizionali dei fusi, del gregge di pecore o del fascio di legna ardente,accesosi spontaneamente secondo la tradizione per avvertire i compaesani della sua morte, ma forse, più probabilmente, ricordo di falò celebrativi in sua memoria.
La figura di questa ragazza valsesiana, la cui ricorrenza, attualmente, è fissata al 5 maggio per la diocesi di Novara, il primo venerdì dello stesso mese per il vicariato della Valsesia, è stata proposta dai vescovi come modello di santità laicale, una fede vissuta nel quotidiano, capace di superare avversità e incomprensioni, alimentata dalla preghiera e testimoniata nella carità, fino alla morte, al punto che il popolo ha sempre visto in lei la propria mediatrice ed in lei si è sempre identificato: una santa dalla fisionomia tipicamente valsesiana.

Autore: Damiano Pomi





Panacea, nel linguaggio comune, è la medicina che guarisce tutti i mali, mentre nell’agiografia cristiana è la prova provata che anche Cenerentola va in Paradiso. A portare questo nome strano è una ragazzina vissuta nella seconda metà del 1300, la cui esistenza storica ed il cui martirio sono ben documentati da antichissime testimonianze, che nei secoli hanno stimolato la fantasia di pittori e scrittori, tra i quali sicuramente spicca Silvio Pellico. La nostra Panacea nasce a Quarona (cittadina tra Borgosesia e Varallo) nel 1368 ed è presto orfana di mamma. Papà si risposa con una certa Margherita, anch’essa vedova e con una figlia, e per la piccola cominciano i guai. Matrigna e sorellastra si coalizzano infatti contro di lei, riservandole i lavori più pesanti e umili, deridendola per la sua pietà, contestando i suoi gesti di carità. Le biografie, infatti, concordano nel descrivere Panacea come una fanciulla che prega molto, si prende cura dei malati e soccorre i poveri: una cristiana autentica,dunque, che per di più sopporta con eroica pazienza le cattiverie con cui ogni giorno è bersagliata in casa. Panacea, dunque è molto di più della scialba “Cenerentola”, vittima di una gelosia familiare o di una semplice antipatia. Contro questa ragazzina che vive con semplicità, ma anche con intensità, la sua fede è in atto una vera e propria persecuzione “casalinga”, che raggiunge il suo culmine in una sera della primavera 1383. Panacea, che ha 15 anni e quindi non è più una bambina, non torna quella sera dal pascolo con la puntualità che la matrigna pretende. Con la rabbia in cuore e il risentimento di sempre quest’ultima va a cercarla e la trova nei pascoli che sovrastano Quarona. e la sua ira si scatena constatando che Panacea sta ancora pregando. L’ira, si sa, è sempre cattiva consigliera, e la donna passa facilmente dalle parole ai fatti, colpendo ripetutamente la ragazza con un oggetto contundente, forse un fuso o un bastone trovato sul posto, fino ad ucciderla. Forse è davvero un omicidio preterintenzionale, perché nessuno è autorizzato a pensare che l’astio della matrigna potesse in realtà nascondere il desiderio di ucciderla. Lo dimostra anche il fatto che la matrigna, in preda alla disperazione per quanto compiuto, va subito a suicidarsi, gettandosi in un vicino burrone. Per Panacea, invece, scoppia la devozione popolare, perché la gente vede nella sua morte un autentico martirio. La salma viene portata a Ghemme, per essere sepolta accanto alla sua mamma che l’aveva lasciata orfana troppo presto. In quella tomba, però, resta poco perché le sue reliquie sono presto portate nella chiesa parrocchiale, circondate di venerazione e meta di pellegrinaggi. La devozione per Panacea attraversa i secoli e si trasforma in culto popolare, che ottiene la conferma papale nel 1867. Per tutta la Valsesia indicata semplicemente come “la Beata”, viene festeggiata il 5 maggio con cerimonie religiose e una fiera secolare, mentre i vescovi indicano nella Beata Panacea un modello di santità laicale e sottolineano la sua fede vissuta nel quotidiano, capace di superare avversità e incomprensioni, alimentata dalla preghiera e testimoniata dalla carità.





scri30
00venerdì 27 marzo 2009 08:50

San Ruperto Vescovo

27 marzo

m. 27 marzo 718

Originario dell'Irlanda, figlio di una famiglia di origini nobili, Ruperto è il patrono di Salisburgo. Dopo aver ricevuto una formazione monastica irlandese, infatti, attorno al 700 si recò in Baviera dove si dedicò alla predicazione e alla testimonianza monastica itinerante, ottenendo buoni risultati a Regensburg e Lorch. Con l'appoggio del conte Theodo di Baviera, Ruperto fondò prima una chiesa dedicata a san Pietro sul lago Waller e poi un monastero sul fiume Salzach, nei pressi dell'antica città romana di Juvavum. Fu questo il nucleo della nuova Salisburgo («la città del sale»), che lo riconosce non solo come primo vescovo ma anche come ri-fondatore. L'iconografia lo rappresenta, infatti, con un barile o un secchio pieno di sale. Morì il 27 marzo, il giorno di Pasqua, dell'anno 718. (Avvenire)

Patronato: Salisburgo

Emblema: Bastone pastorale, Sale

Martirologio Romano: A Salisburgo in Baviera, nell’odierna Austria, san Ruperto, vescovo, che, abitando dapprima a Worms, su richiesta del duca Teodone giunse in Baviera e costruì a Salisburgo una chiesa e un monastero, che governò come vescovo e abate, divulgando da lì la fede cristiana.


Salisburgo, la bella città austriaca la cui fama è collegata con quella del suo figlio più illustre, Wolfgang Amadeus Mozart, trae il suo nome dalle vicine ricche miniere di salgemma: esso significa infatti "città del sale". Anche il suo primo vescovo e principale patrono, S. Ruperto, viene rappresentato con una saliera in mano (o con un barile, ricolmo appunto di sale e non di vino, come pensa qualche studioso non ben informato). Egli è l'unico santo locale festeggiato, oltre che nelle zone di lingua tedesca, anche nell'Irlanda: in realtà, fu anch'egli un tipico rappresentante dei " monaci irlandesi" itineranti.
S. Ruperto discendeva dai Robertini o Rupertini, un'importante famiglia che dominava col titolo di conte nella regione del medio e alto Reno. Da questa famiglia nacque anche un altro S. Ruperto (o Roberto), di Bingen, la cui vita venne scritta da S. Ildegarda. I Robertini erano imparentati con i Carolingi e centro della loro attività era Worms. Qui S. Ruperto ricevette la sua formazione di stampo monastico irlandese. Verso il 700, come i suoi maestri, si sentì spinto alla predicazione e alla testimonianza monastica itinerante e si recò perciò in Baviera, ottenendo buoni risultati a Regensburg e Lorch. Appoggiato dal conte Theodo di Baviera, sul lago Waller, 10 km a nord-est di Salisburgo, là dove ora è Seekirchen, fondò una chiesa, dedicata a S. Pietro. Ma il luogo non appariva adatto ai progetti di S. Ruperto che chiese al conte un altro territorio sul fiume Salzach, nei pressi dell'antica e cadente città romana di Juvavum.
Il monastero che vi costruì, dedicandolo a S. Pietro, è il più antico di tutta l'Austria e insieme il nucleo della nuova Salisburgo. Il suo sviluppo fu opera anche di dodici collaboratori che Ruperto fece venire dalla sua terra d'origine: tra essi Cunialdo e Gislero, onorati come santi. Non lontano dal monastero di S. Pietro, sorse pure un monastero femminile, affidato alla direzione dell'abbadessa Erentrude, nipote di Ruperto.
Fu questo manipolo di coraggiosi che fece sorgere la nuova Salisburgo, che a giusto titolo riconosce in Ruperto il proprio ri-fondatore: "La sua figura mostra come una personalità piena di forza e di sensibilità, affondando le radici nelle profondità dello spirito cristiano, è in grado di impedire con intelligenza e senza limiti geografici qualsiasi decadimento sia interiore che esterno " (J. Henning). S. Ruperto morì il giorno di Pasqua, e cioè il 27 marzo del 718. Le sue reliquie vengono conservate nella magnifica cattedrale di Salisburgo edificata nel sec. XVII.





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