28 marzo

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Stellina788
00sabato 27 marzo 2010 10:15

Beato Antonio (Patrizi) da Monticiano Eremita agostiniano

28 marzo

+ Monticiano, 1311 circa

Martirologio Romano: A Monticiano presso Siena, beato Antonio Patrizi, sacerdote dell’Ordine degli Eremiti di Sant’Agostino, che fu vero amante dei fratelli e del prossimo.

L’Italia è il primo paese occidentale ove il cristianesimo ha trovato sin dagli albori terreno fertile ove attecchire e portare copiosi frutti di santità. Purtroppo questo grande patrimonio di testimonianza e fedeltà a Cristo è spesso sconosciuto e soprattutto ai giorni nostri è a rischio di cadere nell’oblio più assoluto. Parecchi personaggi medioevali, per i quali la Chiesa si è premurata di ufficializzare il riconoscimento della loro santità, sono oggi dimenticati o comunque il loro culto è ormai limitati alla chiesa o al paese ove riposano le loro spoglie.
E’ questo il caso anche del Beato Antonio Patrizi di Montigiano, cui poche ed incerte sono le notizie sulla sua vita. Nato a Siena verso la prima metà del XIII secolo da una nobile famiglia, entrò nell’eremo agostiniano di Lecceto, per poi passare a Monticiano ove morì all’inizio del secolo seguente, forse verso il 1311. Solo una volta si era concesso una pausa recandosi in visita all’amico e confratello Pietro nel vicino eremo di Camerata.
Due anni dopo la morte i suoi resti furono traslati dal cimitero comune per essere collocati in un’urna lignea sotto un altare. Altre traslazione pare avvennero nel 1616 e nel 1700. Sin dal 1313 esistette una confraternita intitolata al beato, il cui culto fu confermato solo nel 1804 dal pontefice Pio VII.



Stellina788
00sabato 27 marzo 2010 10:16

San Castore di Tarso Martire

28 marzo

Martirologio Romano: A Tarso in Cilicia, nell’odierna Turchia, san Cástore, martire.


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00sabato 27 marzo 2010 10:17

San Cirillo di Eliopoli Diacono e martire

28 marzo

m. 362 circa

Martirologio Romano: A Eliopoli in Fenicia, nell’odierno Libano, san Cirillo, diacono e martire, crudelmente ucciso sotto l’imperatore Giuliano l’Apostata.


Stellina788
00sabato 27 marzo 2010 10:18

San Cono (Conone) di Naso Monaco basiliano

28 marzo

Cono, o Conone, Navacita nacque a Naso (Messina), nel 1139, figlio del conte normanno Anselmo, governatore della città. Ancora ragazzo abbandonò la casa, le ricchezze e si ritirò nel locale convento di San Basilio. Trasferito al Convento di Fragalà, nel comune di Frazzanò, ebbe come maestri spirituali san Silvestro da Troina e san Lorenzo da Frazzanò, che lo prepararono al sacerdozio. Conone, dopo l'ordinazione, continuò a manifestare segni di vocazione all'eremitaggio e, col permesso dei superiori, si ritirò in una grotta, che prese il nome di Rocca d'Almo. Ben presto la sua fama di santità superò i confini di Naso. Richiamato al monastero dai suoi superiori, fu eletto abate. In seguito, al ritorno a Naso da un pellegrinaggio in Terra Santa, elargì ai poveri la ricca eredità del padre e si ritirò nella grotta di San Michele. La città era afflitta da un morbo contagioso: i nasitani si rivolsero allora all'abate che li liberò dalla malattia: del miracolo vi è ricordo nello stesso stemma della città. Morì a 97 anni: era il 28 marzo 1236, Venerdì Santo. Canonizzato nel 1630, san Cono è patrono di Naso, i cui abitanti ancora oggi davanti alle reliquie pronunciano l'invocazione «Na vuci viva razzi i san Conu». (Avvenire)

Patronato: San Cono (CT), Contro i mali di orecchio e naso

Martirologio Romano: A Naso in Sicilia, san Cono, monaco secondo la disciplina dei Padri orientali, che, di ritorno da un pellegrinaggio ai luoghi santi, avendo trovato defunti i suoi genitori, distribuì tutto il suo patrimonio ai poveri e abbracciò la vita eremitica.

Mancano documenti antichi che ci informino sulla sua vita. La leggenda che possediamo, la quale, secondo alcuni, potrebbe riallacciarsi a scritti anteriori, lo dice nato al tempo di Ruggero II, re di Sicilia dal 1130 al 1154. Diventato monaco basiliano, compì un pellegrinaggio a Gerusalemme e, al ritorno, avendo trovato i genitori morti, diede i suoi beni ai poveri e visse come anacoreta. Morì il 28 marzo 1236.
La tradizione attribuisce a Cono molti miracoli, parte dei quali sono, senza dubbio, invenzioni fantastiche. Oltre che nel dies natalis, è festeggiato il 3 giugno e il 1° settembre, per motivi che gli studiosi non hanno ancora ben chiarito. Urbano VIII confermò il suo culto.

FOLKLORE
Delle feste già menzionate, che si celebrano a Naso in onore di Cono, è necessario ricordare che la più importante di tutte ricorre in sett. In essa, allestita come le altre con i denari versati dai devoti nel caratteristico "coppu", il busto del santo, montato su una pesante macchina, viene portato in processione attraverso il paese che per l'occasione si orna di archi, piramidi di edera e lampioni variopinti. Alla macchina, inoltre, si legano le spighe che dovranno essere mescolate al grano da semina.
Il simulacro di Cono ha un aspetto singolarmente sgradevole ("gli occhi grandi e spaccati, il naso aquilino, le labbra grosse, la faccia... bronzina, larghissima"), tanto da essere divenuto, secondo quanto attestano alcuni proverbi, termine di paragone per la bruttezza delle persone ("Avi 'a facci 'i san Conu").
Il santo che, secondo la leggenda, protesse il paese da una incursione, circondandolo con graticciate di ferro incandescente, è ancora invocato contro i mali degli orecchi e del naso. Anche a questo protettorato è certamente da collegarsi la rappresentazione di tali organi (un naso fra due orecchi) che fu in passato aggiunta allo stemma del paese e che fu dal popolo subito interpretata come un ammonimento del santo ai devoti di "aver buon naso, ascoltare assai e parlar poco". La leggenda di Cono si divulgò per mezzo di stampe popolari come la Vita, miracoli et morti dello beato Cono da Naso, redatta nel 1549 e di cui conosciamo un'edizione del 1556.



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00sabato 27 marzo 2010 10:19

Beato Cristoforo Wharton Martire

28 marzo

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Middleton, Inghilterra, 1540 circa – York, Scozia, 28 marzo 1600

Martirologio Romano: A York in Inghilterra, beato Cristoforo Wharton, sacerdote e martire, che per il suo sacerdozio fu consegnato al patibolo durante il regno di Elisabetta I.



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00sabato 27 marzo 2010 10:20

Domenica delle Palme

28 marzo (celebrazione mobile)

Martirologio Romano: Domenica delle Palme: Passione del Signore, in cui il Signore nostro Gesù Cristo, secondo la profezia di Zaccaria, seduto su di un puledro d’asina, entrò a Gerusalemme, mentre la folla gli veniva incontro con rami di palma nelle mani.

Con la Domenica delle Palme o più propriamente Domenica della Passione del Signore, inizia la solenne annuale celebrazione della Settimana Santa, nella quale vengono ricordati e celebrati gli ultimi giorni della vita terrena di Gesù, con i tormenti interiori, le sofferenze fisiche, i processi ingiusti, la salita al Calvario, la crocifissione, morte e sepoltura e infine la sua Risurrezione.
La Domenica delle Palme giunge quasi a conclusione del lungo periodo quaresimale, iniziato con il Mercoledì delle Ceneri e che per cinque liturgie domenicali, ha preparato la comunità dei cristiani, nella riflessione e penitenza, agli eventi drammatici della Settimana Santa, con la speranza e certezza della successiva Risurrezione di Cristo, vincitore della morte e del peccato, Salvatore del mondo e di ogni singola anima.
I Vangeli narrano che giunto Gesù con i discepoli a Betfage, vicino Gerusalemme (era la sera del sabato), mandò due di loro nel villaggio a prelevare un’asina legata con un puledro e condurli da lui; se qualcuno avesse obiettato, avrebbero dovuto dire che il Signore ne aveva bisogno, ma sarebbero stati rimandati subito.
Dice il Vangelo di Matteo (21, 1-11) che questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato annunziato dal profeta Zaccaria (9, 9) “Dite alla figlia di Sion; Ecco il tuo re viene a te mite, seduto su un’asina, con un puledro figlio di bestia da soma”.
I discepoli fecero quanto richiesto e condotti i due animali, la mattina dopo li coprirono con dei mantelli e Gesù vi si pose a sedere avviandosi a Gerusalemme.
Qui la folla numerosissima, radunata dalle voci dell’arrivo del Messia, stese a terra i mantelli, mentre altri tagliavano rami dagli alberi di ulivo e di palma, abbondanti nella regione, e agitandoli festosamente rendevano onore a Gesù esclamando “Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nell’alto dei cieli!”.
A questa festa che metteva in grande agitazione la città, partecipavano come in tutte le manifestazioni di gioia di questo mondo, i tanti fanciulli che correvano avanti al piccolo corteo agitando i rami, rispondendo a quanti domandavano “Chi è costui?”, “Questi è il profeta Gesù da Nazareth di Galilea”.
La maggiore considerazione che si ricava dal testo evangelico, è che Gesù fa il suo ingresso a Gerusalemme, sede del potere civile e religioso in Palestina, acclamato come solo ai re si faceva, a cavalcioni di un’asina.
Bisogna dire che nel Medio Oriente antico e di conseguenza nella Bibbia, la cavalcatura dei re, prettamente guerrieri, era il cavallo, animale nobile e considerato un’arma potente per la guerra, tanto è vero che non c’erano corse di cavalli e non venivano utilizzati nemmeno per i lavori dei campi.
Logicamente anche il Messia, come se lo aspettavano gli ebrei, cioè un liberatore, avrebbe dovuto cavalcare un cavallo, ma Gesù come profetizzato da Zaccaria, sceglie un’asina, animale umile e servizievole, sempre a fianco della gente pacifica e lavoratrice, del resto l’asino è presente nella vita di Gesù sin dalla nascita, nella stalla di Betlemme e nella fuga in Egitto della famigliola in pericolo.
Quindi Gesù risponde a quanti volevano considerarlo un re sul modello di Davide, che egli è un re privo di ogni forma esteriore di potere, armato solo dei segni della pace e del perdono, a partire dalla cavalcatura che non è un cavallo simbolo della forza e del potere sin dai tempi dei faraoni.
La liturgia della Domenica delle Palme, si svolge iniziando da un luogo adatto al di fuori della chiesa; i fedeli vi si radunano e il sacerdote leggendo orazioni ed antifone, procede alla benedizione dei rami di ulivo o di palma, che dopo la lettura di un brano evangelico, vengono distribuiti ai fedeli (possono essere già dati in precedenza, prima della benedizione), quindi si dà inizio alla processione fin dentro la chiesa.
Qui giunti continua la celebrazione della Messa, che si distingue per la lunga lettura della Passione di Gesù, tratta dai Vangeli di Marco, Luca, Matteo, secondo il ciclico calendario liturgico; il testo della Passione non è lo stesso che si legge nella celebrazione del Venerdì Santo, che è il testo del Vangelo di s. Giovanni.
Il racconto della Passione viene letto alternativamente da tre lettori rappresentanti: il cronista, i personaggi delle vicenda e Cristo stesso. Esso è articolato in quattro parti: l’arresto di Gesù; il processo giudaico; il processo romano; la condanna, l’esecuzione, morte e sepoltura.
Al termine della Messa, i fedeli portano a casa i rametti di ulivo benedetti, conservati quali simbolo di pace, scambiandone parte con parenti ed amici. Si usa in molte regioni, che il capofamiglia utilizzi un rametto, intinto nell’acqua benedetta durante la veglia pasquale, per benedire la tavola imbandita nel giorno di Pasqua.
In molte zone d’Italia, con le parti tenere delle grandi foglie di palma, vengono intrecciate piccole e grandi confezioni addobbate, che vengono regalate o scambiate fra i fedeli in segno di pace.
La benedizione delle palme è documentata sin dal VII secolo ed ebbe uno sviluppo di cerimonie e di canti adeguato all’importanza sempre maggiore data alla processione. Questa è testimoniata a Gerusalemme dalla fine del IV secolo e quasi subito fu accolta dalla liturgia della Siria e dell’Egitto.
In Occidente giacché questa domenica era riservata a cerimonie prebattesimali (il battesimo era amministrato a Pasqua) e all’inizio solenne della Settimana Santa, benedizione e processione delle palme trovarono difficoltà a introdursi; entrarono in uso prima in Gallia (sec. VII-VIII) dove Teodulfo d’Orléans compose l’inno “Gloria, laus et honor”; poi in Roma dalla fine dell’XI secolo.
L’uso di portare nelle proprie case l’ulivo o la palma benedetta ha origine soltanto devozionale, come augurio di pace.
Da venti anni, nella Domenica delle Palme si celebra in tutto il mondo cattolico la ‘Giornata Mondiale della Gioventù’, il cui culmine si svolge a Roma nella Piazza S. Pietro alla presenza del papa.



Stellina788
00sabato 27 marzo 2010 10:21

Beata Giovanna Maria de Maillé Vedova

28 marzo

Castello di La Roche, Francia, 14 aprile 1331 - Tours, Francia, 28 marzo 1414

Etimologia: Giovanna = il Signore è benefico, dono del Signore, dall'ebraico

Martirologio Romano: A Tours in Francia, beata Giovanna Maria de Maillé, che, dopo aver perso il marito in guerra, ridotta in povertà e scacciata di casa dai suoi, abbandonata da tutti, visse quasi reclusa in una piccola cella presso il convento dei Minori, mendicando il pane, ma piena di fiducia nel Signore.

Sposa controvoglia a 16 anni, vedova a poco più di 30, cacciata di casa e rifiutata dai parenti del marito, per i restanti 50 anni della sua vita costretta a vivere senza fissa dimora: così tante disavventure sono concentrate nella vita della Beata Giovanna Maria de Maillè, nata fortunata, ricca e coccolata nel castello di La Roche, nei pressi di Saint-Quentin de Touraine. il 14 aprile 1331. Nel panorama generalmente religioso e devozionale della famiglia spicca particolarmente lei, che cresce con l’accompagnamento spirituale di un francescano, dimostrando una particolare devozione mariana, tanto che al castello si sussurra di vere o presunte apparizioni della Madonna, di estasi, di preghiere prolungate, di precoci voti di verginità. Al compimento dei sedici anni si affaccia sulla scena della sua vita un parente da parte di mamma che diventa suo tutore, il che fa presumere che i genitori siano prematuramente morti. In questa veste combina, secondo l’uso del tempo, il matrimonio di Giovanna con il barone Roberto di Silly, un bravo ragazzo, poco più grande di lei, suo compagno di giochi fin da bambino. E tutto questo malgrado sia a conoscenza dell’inclinazione di Giovanna per la vita religiosa e del suo voto di verginità: un matrimonio forzato, dunque. Destino vuole che il tutore muoia improvvisamente proprio la mattina del giorno delle nozze e l’impressione sullo sposo è tale che propone a Giovanna di vivere in perfetta continenza, cioè come fratello e sorella. Ovvio il di lei consenso, a ciò già predisposta dal suo precoce voto di verginità.. Malgrado le premesse il matrimonio funziona, e anche bene: come base hanno messo il vangelo, da vivere in tutta la sua integralità, e lo traducono in tante opere di bene, che allora come oggi non mancano: “adottano” alcuni bimbi abbandonati, sfamano e curano i poveri, assistono gli appestati, insomma si danno un sacco da fare. Mai si è visto tanto movimento nel loro castello, da quando si è sparsa la voce che i due sposi tanto ricchi sono anche tanto caritatevoli. E pensare che i problemi anche a loro non mancano, come quando Roberto va in guerra (siamo all’epoca della guerra dei Cent’anni), resta ferito e viene imprigionato dagli Inglesi. Per liberarlo Giovanna deve pagare un forte riscatto che intacca pesantemente il loro patrimonio. Eppure non perdono né slancio né fede e, una volta sistemate le cose, marito e moglie sono ancora fianco a fianco, prima per curare i contagiati dalla peste nera e poi i lebbrosi. Roberto muore nel 1362 e Giovanna, vedova poco più che trentenne, si trova contro gli suoceri e tutto il casato di suo marito. L’accusano principalmente di aver sprecato il patrimonio di famiglia e la cacciano senza tanti complimenti. Si trova così senza una casa, senza uno spicciolo, costretta a vivere di carità ma perfino per strada i ricchi parenti continuano a perseguitarla, e mandano i servi a lanciare insulti al suo passaggio, perché loro non vogliono abbassarsi al punto da farlo personalmente. Giovanna soffre e trangugia, con una carità senza limiti che non le lascia neppure un’incrostazione di risentimento. E per sapere dove trova tanta forza e tanta bontà, basta vedere le sue lunghe ore di preghiera, la sua tanta penitenza, i suoi sacrifici. Per vestito si è scelta una tunica grossolana e ruvida, tanto simile al saio dei suoi amati Francescani, di cui vive intensamente la spiritualità fino al giorno in cui diventerà terziaria. Continua a far carità ad ammalati, prigionieri, condannati a morte: se non più con i soldi, che non ha, sicuramente con la sua persona e i suoi umili servizi, consolandoli quando non può far di meglio, intercedendo per la loro liberazione quando la sua popolarità ha raggiunto l’apice e può spenderla a loro vantaggio. Perché la sua fama di donna di Dio si è estesa da Tours a gran parte della Francia. sono in molti a consultarla per avere consigli e suggerimenti e tra quelli che si mettono in fila alla sua porta ci sono anche alcuni di quelli che l’avevano a suo tempo insultata, che lei accoglie come gli altri, con carità e pazienza infinite. Malgrado la salute malandata e i disagi della sua vita di senzatetto, arriva fino alla soglia degli 82 anni e muore il 28 marzo 1414, circondata da una solida fama di santità che fa concludere in appena dodici mesi il processo diocesano informativo per la sua canonizzazione. Ma anche dopo morte Giovanna deve attendere, e fino al 1871, quando Pio IX la proclama beata.

Autore: Gianpiero Pettiti



La sua vita attraversa uno dei peggiori momenti della storia francese ed europea, dalla guerra franco-inglese dei Cent’anni alla grande peste di metà secolo, alla rivolta popolare di Parigi e all’insurrezione contadina (Jacquerie) nel Nord della Francia.
Giovanna Maria è di casato nobile. Nasce in un castello della regione di Tours e riceve l’istruzione religiosa da un francescano, confessore della famiglia. Deve però aver perduto presto i genitori, perché a sedici anni la troviamo già maritata (da un tutore, contro la sua volontà) al nobile Roberto de Sillé (o Silly): un matrimonio combinato per interesse sulla testa dei due sposi, i quali decidono di convivere in castità.
Il marito poi va in guerra, e nella sanguinosa battaglia di Crécy viene ferito e fatto prigioniero dai vincitori inglesi. Giovanna Maria riesce a farlo liberare secondo l’uso del tempo, ossia pagando un riscatto, che intacca gravemente il loro patrimonio. Al tempo della peste nera, poi, marito e moglie assistono i malati e soccorrono le famiglie in miseria, spendendo ancora i loro beni. Cessata l’epidemia, si dedicano ai lebbrosi. E quando nel 1362 Roberto muore, i suoi parenti scacciano Giovanna Maria, con l’accusa di avere sperperato il patrimonio di famiglia.
Lei si va a stabilire a Tours, nell’ospizio cittadino, dove assiste i malati e vive come una religiosa: ha fatto voto di castità perpetua nelle mani dell’arcivescovo locale. Ma incontra nuove ostilità e diffidenze e cerca allora di trovare pace dedicandosi alla vita eremitica, in solitudine. Una soluzione ideale per lei, se non fosse per la salute molto fragile: nel 1386, infatti, eccola di ritorno a Tours. Qui va a stabilirsi vicino al convento dei Francescani (che il popolo chiama abitualmente Cordiglieri) e prende come direttore spirituale uno di loro, padre Martin de Bois-Gaultier. Forse si fa anche terziaria, ma la cosa non è sicura.
Intraprende comunque una vita quasi da reclusa, che durerà ventisette anni. In città nessuno la vede, ma sono sempre più numerosi quelli che la vanno a cercare. E’ sorprendente l’autorevolezza di questa donna, che un po’ tutti si erano divertiti a umiliare: dal tutore ai suoceri, ai maldicenti di Tours. Ora, invece, la gente accorre a chiederle consiglio. Anche per liberare prigionieri o per salvare un condannato a morte si ricorre a lei: vada, corra a corte, convinca lei alla clemenza il re Carlo VI, che è pure malato di mente...
La sua fama di santità è così diffusa, che a un anno appena dalla morte (1414) il procedimento per canonizzarla è già concluso in diocesi, e i fedeli la venerano spontaneamente. Ma per le vicende della Chiesa prima e della Francia poi, si arriverà alla sua beatificazione con grande ritardo: solo nel 1871, per opera di papa Pio IX.

Stellina788
00sabato 27 marzo 2010 10:22

San Giuseppe Sebastiano Pelczar Vescovo

28 marzo

Korczyna, 17 gennaio 1842 - 28 marzo 1924

Giuseppe Sebastiano Pelczar fu allo stesso tempo uomo di alta cultura e vescovo attento ai bisogni del popolo polacco. Era nato nel 1842 in un paesino ai piedi dei Carpazi, Korczyna. Fu ordinato sacerdote a Przemysl, diocesi di cui sarebbe divenuto vescovo nel 1900. Studiò a Roma tra 1866 e 1868 e, tornato in patria, fu professore per 22 anni al seminario di Przemysl, docente universitario a Cracovia e rettore. Si impegnò nella Società di san Vincenzo de'Paoli e nella Società dell'educazione popolare, che diffondeva decine di migliaia libri tra le persone e istituiva biblioteche a centinaia. Nel 1891 fondò la Confraternita della Santissima Vergine Regina della Polonia. Infine, nel 1894 diede vita alla congregazione delle Ancelle del Sacro Cuore di Gesù. Nominato vescovo, nonostante la salute malferma, si prodigò nelle opere sociali, sulla spinta del magistero di Leone XIII: asili, mense e ricoveri per poveri e senza tetto, avviamento professionale delle ragazze, insegnamento gratuito per i ragazzi meno abbienti. Morì nel 1924.

Martirologio Romano: A Przemyśl in Polonia, san Giuseppe Sebastiano Pelczar, vescovo, fondatore della Congregazione delle Ancelle del Sacro Cuore di Gesù e insigne maestro di vita spirituale.

Giuseppe Sebastiano Pelczar nacque il 17 gennaio 1842 a Korczyna, un piccolo paese ai piedi dei monti Carpazi, presso Krosno. Passò l’infanzia nel paese natio, crescendo in un’atmosfera permeata dall’antica religiosità polacca che regnava nella casa dei suoi genitori, Adalberto e Marianna Mi?sowicz. Questi accortisi presto dell’intelligenza eccezionale del loro figlio, dopo due anni trascorsi nella scuola di Korczyna, lo inviarono a proseguire gli studi in quella di Rzeszów e in seguito al ginnasio.
Mentre era studente ginnasiale, Giuseppe Sebastiano prese la decisione di dedicarsi al servizio di Dio, poiché come possiamo leggere nel suo diario, “gli ideali terreni impallidiscono, l’ideale della vita lo vedo nel sacrificio e l’ideale del sacrificio lo vedo nel sacerdozio”. Completato il sesto anno di scuola entrò nel Seminario Minore e, nel 1860, iniziò gli studi teologici presso il Seminario Maggiore di Przemy?l.
Il 17 luglio del 1864 venne ordinato sacerdote, e per un anno e mezzo fu vicario della parrocchia di Sambor. Negli anni 1866-1868 proseguì gli studi a Roma contemporaneamente nel Collegium Romanum (oggi Università Gregoriana) e nell’Istituto di Sant’Apollinare (oggi Università Lateranense), dove, oltre ad acquisire una profonda cultura, sviluppò un grande e mai sopito amore per la Chiesa e per il suo capo visibile, il Papa. Subito dopo il ritorno in patria, fu docente nel Seminario di Przemy?l e in seguito, per 22 anni, professore dell’Università Jaghellonica di Cracovia. Come professore e preside della Facoltà di Teologia si guadagnò la fama di uomo illuminato, di ottimo insegnante, di organizzatore e amico dei giovani. Un segno di riconoscimento da parte della comunità accademica fu indubbiamente la sua nomina a rettore della Almae Matris di Cracovia (1882-1883).
Desiderando realizzare l’ideale di “sacerdote – Polacco che pone generosamente la sua vita al servizio del prossimo“, ideale che si era prefissato sin dai primi anni, Don Pelczar non si limitò soltanto a svolgere un lavoro scientifico, ma si dedicò con passione anche ad attività sociali e caritative. Diventò membro attivo della Società di San Vincenzo de’ Paoli e della Società dell’Educazione Popolare della quale fu preside sedici anni. In quel periodo, la Società dell’Educazione Popolare fondò centinaia di biblioteche, organizzò molti corsi gratuiti e distribuì tra la gente più di centomila libri, come pure aprì una scuola per le persone di servizio. Nel 1891, per iniziativa di Don Pelczar, venne fondata la Confraternita della Santissima Maria Vergine Regina della Polonia, che, oltre agli scopi religiosi, svolgeva funzioni sociali, come l’aiuto agli artigiani, ai poveri, agli orfani e ai servi malati, e specialmente a quelli disoccupati.
Sotto la spinta dei gravi problemi sociali del tempo, sicuro di interpretare la volontà di Dio, nel 1894 fondò a Cracovia la Congregazione delle Ancelle del Sacro Cuore di Gesù, ponendo come suo carisma la diffusione del Regno dell’amore del Cuore di Gesù. Era suo desiderio che le suore della nuova Congregazione diventassero segno e strumento di tale amore verso le ragazze bisognose, i malati e quanti avessero bisogno di aiuto.
Nel 1899 venne nominato vescovo ausiliare di Przemy?l e un anno dopo, in seguito alla morte di Mons. Luca Solecki, Ordinario di quella Diocesi della quale per venticinque anni ne fu un pastore zelante, promuovendo il bene delle anime a lui affidate.
Nonostante le condizioni di salute non buone, il vescovo Pelczar si dedicò con impegno instancabile ad attività religiose e sociali. Per ravvivare nei fedeli lo spirito della fede visitava spesso le parrocchie, si prodigava per accrescere il livello morale e intellettuale del clero dando egli stesso l’esempio di una profonda pietà che si esprimeva nel culto del Sacratissimo Cuore di Gesù e della Madonna. Essendo un ardente adoratore del Santissimo Sacramento, invitava i fedeli a partecipare assiduamente alle funzioni eucaristiche. Grazie ai suoi sforzi, durante il suo episcopato crebbe il numero di nuove chiese, di cappelle e vennero restaurate molte delle chiese più vetuste. Malgrado una situazione politica sfavorevole, presiedette tre sinodi diocesani ponendo le basi giuridiche per diverse nuove iniziative e rendendole in tal modo più stabili e durature.
Il vescovo Giuseppe Sebastiano Pelczar si immedesimò nei bisogni dei suoi fedeli ed ebbe molta cura degli abitanti più poveri della sua diocesi. I giardini d’infanzia, le mense per i poveri, i ricoveri per i senza tetto, le scuole d’avviamento professionale per le ragazze, l’insegnamento gratuito nei Seminari per i ragazzi poveri: sono soltanto alcune delle opere nate grazie alle sue iniziative. In particolare, ebbe molto a cuore la condizione degli operai, i problemi dell’emigrazione, molto attuali in quel periodo, e quelli dell’alcoolismo. Nelle lettere pastorali, negli articoli pubblicati ed in altri numerosi interventi, indicava sempre la necessità di attenersi fedelmente all’insegnamento sociale del Papa Leone XIII.
Dotato da Dio di singolari doti non soffocava le sue capacità ma le moltiplicava e le faceva fruttare. Fu un lavoratore instancabile. Ne dà prova, tra l’altro, la sua ricchissima eredità letteraria di cui fanno parte numerose opere teologiche, storiche e di diritto canonico, nonché manuali, libri di preghiere, lettere pastorali, discorsi e omelie.
Il vescovo Giuseppe Sebastiano Pelczar morì la notte tra il 27 e il 28 marzo del 1924 lasciando il ricordo di un uomo di Dio, che nonostante i tempi difficili in cui ebbe a vivere ed operare, faceva sempre la volontà del suo Signore. Don Antonio Bystrzonowski, suo alunno e successore sulla cattedra universitaria, nel giorno dei funerali disse: “Il defunto vescovo di Przemy?l ha unito nella sua persona gli attributi e i talenti più belli e cioè uno zelo pastorale indistruttibile, lo spirito di iniziativa, il dinamismo d’azione, il lume di una grande scienza e una santità di virtù ancora più grande. E’ stato esempio luminoso di eccezionale laboriosità e di entusiasmo sempre giovanile”.
Il 2 giugno del 1991, durante il quarto pellegrinaggio in patria, il Santo Padre Giovanni Paolo II ha proclamato beato il vescovo Giuseppe Sebastiano Pelczar. Oltre che nella cattedrale di Przemy?l dare si trovano le sue reliquie, egli è particolarmente venerato nella chiesa della Congregazione delle Ancelle del Sacro Cuore di Gesù, a Cracovia.
E' stato canonizzato da Papa Giovanni Paolo II a Roma il 18 maggio 2003.
La memoria liturgica del Beato cade il 19 gennaio.



Stellina788
00sabato 27 marzo 2010 10:23

San Gontranno (Guntramno) Re dei Franchi

28 marzo

525 - Chalon-sur-Saone, 28 marzo 592

Gontrano era un re francese del VI secolo. Figlio di Clotario I, era nato intorno al 525. Morto il padre, ereditò parte del suo regno (spartito con due fratelli), comprendente Borgogna, Marsiglia e Arles. Governò con saggezza (e anche con il pugno di ferro), soffocando le pretese dei nobili. Fu munifico con la Chiesa, ricoprendo di doni comunità e monasteri. Visse in semplicità e morì nel 592 nella sua residenza di Chalon-sur-Saone. (Avvenire)

Emblema: Corona, Scettro

Martirologio Romano: A Châlon-sur-Saône in Burgundia in Francia, deposizione di san Guntramno, re dei Franchi, che distribuì i suoi tesori alle chiese e ai poveri.

Figlio di Clotario I, nato nel 525, Gontranno divise coi suoi fratelli il regno paterno. Egli ebbe il regno di Orléans e di Borgo­gna, il Berry e una parte della Provenza. Questo nipote di Clodoveo e di s. Clotilde era per natura furbo, violento, amante del piacere e della buona tavola. La sua vita sarebbe poco edificante se non avesse manifestato una fede solida, un sincero pen­timento delle sue colpe e se non avesse compiuto molte buone azioni che dimostravano in lui la volontà di praticare le virtù della giustizia e della religione. Si sposò tre volte con ancelle, ma non ebbe figli.
Questo personaggio fu nondimeno assai presto venerato come un santo, perché, in tutta la sua vita mostrò una reale volontà di mettere la propria condotta in accordo con la sua fede e questo rude figlio di barbari che si civilizza diventando cristiano, fu in qualche modo un simbolo della forza e del­l'opera della grazia. Gontranno si tenne fuori dalle lotte e dalle questioni che divisero continuamente i suoi fratelli e i suoi nipoti e intervenne solo come mode­ratore. Verso il 567-70 scelse come capitale del suo regno Chalon-sur-Saòne e si preoccupò dell'evange­lizzazione dei suoi territori, in particolare delle montagne del Giura. Fondò nei sobborghi della sua capitale l'abbazia dei SS. Pietro e Paolo divenuta poi S. Marcello. Inviò religiosi di S. Benigno di Digione a fondare case a Pontarlier e a Salins, poi ne inviò altri nell'abbazia di Agauno (St-Maurice-en-Valais). In questo stesso periodo (570-575) accolse s. Colombano ad Annegray prima di donargli Luxeuil, una ventina di anni dopo. A Gontranno si attribuisce anche la fondazione del monastero di Baume-les-Dames e dì altre abbazie, e si dice che dotasse anche generosamente quelle che esistevano qua e là nel suo regno: S. Sinforiano di Autun, S. Benigno di Digione, Cestre, N. D. di Sales a Bourges e S. Mau­rizio di Agauno, che ricostruì, senza contare i mona­steri di Chalon e di Macon, S. Marcello e S. Cle­mente. Fece inoltre donazioni ad Agauno e S. Beni­gno, perché vi si potesse celebrare la salmodia perpetua, anzi, sembra che volesse porre alle dipen­denze di Agauno un certo numero di monasteri. Fece costruire la chiesa di S. Pietro a Ginevra; a Moriana fondò una chiesa nel 565 per conservarvi reliquie di s. Giovanni Battista, portate da Alessan­dria e vi istituì poi un seggio episcopale che esiste ancor oggi. Gontranno fu anche il protettore dei vescovi e si mostrò sempre molto reverente nei loro confronti; sottopose a un concilio le divergenze che egli aveva avuto con alcuni vescovi e con suo fratello Sigeberto; volle anche riparare alle violenze commesse da Chilperìco a detrimento delle chiese e dei poveri. Convocò sei concili in circa venti anni nelle prin­cipali città del suo stato: Lione, Chalon, Macon, Valence e si mostrò rispettoso dei canoni per le nomine episcopali e il diritto d'asilo. Ebbe sempre cura del suo popolo e volle sollevare le miserie dovute ai flagelli naturali e al tempo stesso, nella penitenza e nel digiuno, offriva se stesso a Dio come vittima per i suoi sudditi, secondo quanto riferiscono i cronisti.
Morì il 28 marzo 592 e fu sepolto a S. Marcello di Chalon, dove si credette per molto tempo che si fosse fatto monaco. La sua pietà e generosità hanno fatto sì che, a partire dal sec. VII, fosse conside­rato come un santo. Il suo nome figura in qualche ms. del Martirologio Geronimiano. Il suo corpo restò a Chalon ed il culto si sviluppò dopo che, nel 1435, Giovanni Rolin, vescovo di Chalon e priore di S. Marcello, ebbe restaurato la sua tomba. La Chiesa di Chalon ne ha celebrato la festa, come le diocesi di Moriana, Orléans, Besancon e Losanna; oggi figura nel Proprio di molte diocesi francesi. Nel sec. XVI gli Ugonotti devastarono la sua tomba e dispersero le reliquie; solo il capo fu salvato ed è conservato in un reliquiario d'argento. A Mo-riana è stato anche conservato un braccio, da epoca imprecisata fino al 1793. Il Martirologio Romano, dopo il Martirologio Geronimiano, celebra la sua memoria il 28 marzo.



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00sabato 27 marzo 2010 10:24

Sant' Ilarione di Pelecete Egumeno (Abate)

28 marzo

sec. VIII

Governò il monastero di Pelecete, situato nell'attuale Grecia. Fu perseguitato per la sua lotta contro i costumi iconoclasti.

Martirologio Romano: Presso il monte Olimpo in Bitinia, nell’odierna Grecia, sant’Ilarione, egúmeno del monastero di Pelecete, che difese strenuamente il culto delle sacre immagini.


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00sabato 27 marzo 2010 10:25

Santi Prisco, Malco e Alessandro Martiri

28 marzo

m. 260

Martirologio Romano: Commemorazione dei santi martiri Prisco, Malco e Alessandro: al tempo della persecuzione dell’imperatore Valeriano, essi abitavano in un podere alla periferia di Cesarea in Palestina, città in cui si offrivano allo sguardo numerose corone di celeste martirio; mossi da divino ardore, si presentarono spontaneamente davanti al giudice e, avendolo biasimato perché infieriva soltanto contro il sangue dei pii, furono da lui immediatamente dati in pasto alle fiere in quanto cristiani.


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00sabato 27 marzo 2010 10:26

San Proterio Patriarca di Alessandria

28 marzo

m. 454

Martirologio Romano: Ad Alessandria d’Egitto, san Proterio, vescovo, che tra il tumulto del popolo fu crudelmente ucciso il Giovedì Santo dai monofisiti, seguaci del suo predecessore Dióscoro.


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00sabato 27 marzo 2010 10:27

Beata Renata Maria Feillatreau Martire

28 marzo

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Angers, Francia, 8 febbraio 1751 – 28 marzo 1794

Renée-Marie Feillatreau (épouse Dumont), laica coniugata della diocese di Angers, morì nel tragico contesto della Rivoluzione Francese. E’ stata beatificata da Papa Giovanni Paolo II il 19 febbraio 1984.

Martirologio Romano: Ad Angers in Francia, beata Renata Maria Feillatreau, martire, che, sposata, durante la rivoluzione francese, morì ghigliottinata per la sua fedeltà alla Chiesa cattolica.



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00sabato 27 marzo 2010 10:28

Santo Stefano Harding Abate

28 marzo

Meriot, Sherborne, Inghilterra, 1060 ca. – Citeaux, Francia, 28 marzo 1134

La storia di Stefano Harding rimanda alle origini dell'ordine monastico dei cistercensi, tra la fine dell'XI e l'inizio del XII secolo. Questo monaco inglese originario di Shelburne è infatti accanto a san Roberto di Molesme e ad Alberico quando nel 1098 fondano il nuovo monastero a Citeaux in Borgogna. Il principio ispiratore di questa nuova comunità era la volontà di ristabilie l'obbedienza alla Regola benedettina nella sua integrità. Di Citeaux Stefano Harding diverrà anche abate. E sarà lui ad accogliere qui san Bernardo, la figura che col suo carisma contribuirà alla grande fioritura del nuovo ordine monastico. Già sotto la guida di Stefano Harding furono dodici le fondazioni nate da Citeaux. Morto nel 1134, è stato canonizzato nel 1623. (Avvenire)

Etimologia: Stefano = corona, incoronato, dal greco

Emblema: Bastone pastorale

Martirologio Romano: A Cîteaux in Burgundia, nell’odierna Francia, santo Stefano Harding, abate: giunto da Molesme insieme ad altri monaci, resse questo celebre cenobio, istituendovi i fratelli laici e accogliendo in esso il famoso Bernardo con trenta suoi compagni; fondò dodici monasteri, che vincolò tra loro con la Carta della Carità, affinché non esistesse tra i monaci discordia alcuna e tutti vivessero sotto il medesimo dettame della carità, sotto la stessa regola e secondo consuetudini simili.

Ascolta da RadioMaria:
  

La sua fama è stata in parte oscurata, dall’opera del grande riformatore cisterciense s. Bernardo di Chiaravalle (1090-1153); ma non bisogna dimenticare che fu s. Roberto di Molesme (1029-1111) con s. Stefano Harding (1060-1134) a fondare il celebre monastero di Citeaux, da cui prese il nome l’Ordine Cisterciense (da Cistercium, nome latino di Citeaux).
Fu lo stesso Stefano, terzo abate di Citeaux, ad accogliere nella comunità monastica s. Bernardo, che poi andrà a fondare nel 1135, l’abbazia di Chiaravalle (Piacenza).
Stefano sarebbe nato verso il 1060, dalla nobile famiglia degli Harding, a Meriot nei dintorni di Sherborne nella contea del Dorset (Inghilterra Meridionale).
Ebbe una gioventù alquanto avventurosa, ancora giovane entrò nell’abbazia benedettina di Sherborne, dove fece la professione religiosa, ma durante gli sconvolgimenti che fecero seguito alla conquista normanna, abbandonò la vita religiosa e partì per la Scozia; poi si spostò a Parigi per dedicarsi agli studi.
In seguito fece un pellegrinaggio a Roma, con lo scopo di ottenere il perdono della sua rinuncia; con lui era un giovane chierico e insieme recitavano strada facendo l’intero Salterio.
Sulla strada del ritorno, si fermarono nell’abbazia cluniacense di Molesme in Borgogna, da poco fondata (1075) dal monaco francese Roberto che ne era l’abate; la vita povera ed austera della comunità, attrasse Stefano Harding che volle rimanervi come monaco.
L’abbazia di Molesme prosperò, fondò filiali e divenne ricca e potente; ma a poco a poco lo spirito che ne aveva animato la riforma e la fondazione, prese a decadere fino a scomparire.
L’abate fondatore Roberto, con un piccolo gruppo di monaci fedeli, fra cui Stefano Harding, rimaneva fermo alla spiritualità dei primi tempi benedettini, mentre la maggioranza dei monaci era favorevole alle regole di Cluny, in quel tempo diffuse nella gran parte delle abbazie.
Alla fine, visto i contrasti che dividevano la comunità di Molesme, l’abate Roberto, ottenuta l’autorizzazione dell’arcivescovo di Lione, Ugo, nel 1098 lasciò l’abbazia con i monaci fedeli e si trasferì a Citeaux, a circa 20 km a sud di Digione, per fondare un nuovo monastero, su un terreno donato dal visconte Rinaldo di Bearne, con l’aiuto del duca Eudes di Borgogna, che divenne uno dei più generosi benefattori della nuova abbazia.
La partenza dell’abate fondatore da Molesme, sconvolse la comunità che ne fu screditata in tutta la regione; i monaci allora si rivolsero al papa per ottenerne il ritorno; il papa invitò Roberto a ritornare e lui non poté rifiutarsi; al suo posto a Citeaux, subentrò come abate il monaco Alberico.
Seguirono anni difficili, pur destando l’ammirazione per la loro vita austera, i monaci non aumentavano di numero, tanto da far temere per il futuro del nuovo Ordine religioso; dopo 10 anni di governo, l’abate Alberico morì nel 1109 e fu eletto suo successore il monaco cofondatore Stefano Harding.
Se Roberto di Molesme ne fu l’anima fondatrice, Alberico il continuatore degli anni più sofferti, Stefano Harding fu il grande riformatore e organizzatore del nuovo Ordine Cistercense; ne tracciò le linee guida della vita monastica, compose gli statuti dell’Ordine (Charta Caritatis, approvata nel 1119); col suo coraggio seppe superare le difficoltà in cui versava la comunità, anche per la morte di molti religiosi.
Si dedicò alla riforma dei libri liturgici e volle fissare un testo autentico della Bibbia, impresa considerevole che egli riuscì a portare a termine, nello stesso tempo Stefano intraprese la revisione del Graduale, dell’Antifonario e dell’Innario.
Fu lui per primo, ad avviare e consolidare, secondo l’idea di Roberto di Molesme, l’esperienza riformatrice di Citeaux, con la sua vita povera ed austera, in una rigorosa fedeltà alla Regola benedettina, di cui si adottava l’invito a sostenersi con il lavoro delle proprie mani.
Con lui, l’Ordine Cisterciense per tutto il XII secolo e parte del XIII, osservò una semplicità di vita che si rifletteva in tutti i campi, i monaci vestivano una veste bianca (per devozione alla Madonna) semplicità nei riti liturgici, nell’arredamento delle chiese; nei chiostri e negli edifici non vi erano pitture né sculture, né pavimenti o vetrate colorate, cioè nulla che potesse distrarre l’attenzione dei monaci; la chiesa non aveva campanile e nessuno era ammesso agli uffici divini, riservati solo ai monaci.
Gli edifici del monastero erano disposti in modo che tutto fosse subordinato alla vita dei monaci e nel punto più alto vi era sempre la chiesa; l’acqua era abbondante, proveniente da cisterne, serviva oltre che per gli usi domestici, anche per far funzionare le officine, la birreria, il mulino, i laboratori, ecc. non mancavano le fognature.
Durante il suo governo (1109-1134), Stefano Harding, accolse nel monastero nel 1112, s. Bernardo signore di Fontaine-les-Dijon, il quale si presentò con una trentina di compagni, parenti ed amici, per prendere l’abito cistercense.
Questa provvidenziale iniezione di linfa vitale, salvò il futuro del monastero, che nonostante tutti gli sforzi dei fondatori-abati, sembrava ormai destinato al fallimento per mancanza di discepoli.
Ben presto altri monaci si aggiunsero, tanto che a partire dal 1113, Stefano mandò un gruppo di religiosi a fondare l’abbazia di La Ferté, nella diocesi di Chalon-sur-Saône, seguirono nel 1114 e nel 1115 le fondazioni di Pontigny, Clairvaux con s. Bernardo come abate e Morimond, questi quattro monasteri o abbazie, furono dette “le quattro figlie di Citeaux”.
Con s. Stefano e s. Bernardo (che pur non essendone il capo, dominò l’Ordine con la sua forte personalità), i monasteri cistercensi raggiunsero una grande diffusione e prosperità in tutta Europa.
Ritornando all’abate Stefano, egli istituì un ordine gerarchico per unire i vari monasteri in un legame di carità e di unità, coordinato dall’abbazia madre, ecco perché redasse gli Statuti dell’Ordine, chiamandoli “Carta della Carità”, dove si stabilirono le regole di convivenza dei vari monasteri.
Ogni abbazia doveva restare unita giuridicamente all’abbazia-madre; l’abate fondatore doveva visitare ogni anno le sue abbazie-figlie, per vegliare sul rispetto delle regole; inoltre ogni anno nel mese di settembre, tutti gli abati dovevano riunirsi a Citeaux in un Capitolo Generale, per mantenere la disciplina e l’unità in tutte le abbazie.
Questa saggia costituzione fu approvata il 23 dicembre 1119 da papa Callisto II, confermando così la fondazione dell’Ordine Cisterciense. La Santa Sede propose questa costituzione come modello, a tutti gli Ordini religiosi, nel IV Concilio Lateranense del 1215.
E fu ancora l’abate Stefano Harding, che nel 1115 dette gli statuti e gli usi cistercensi ad un gruppo di monache di Jully-les-Nonnains, presso Digione, che da poco avevano fondato l’abbazia di Notre-Dame di Tart, sottomessa a Citeaux; era il primo monastero di monache cistercensi, che si moltiplicheranno in seguito.
Inoltre Stefano scrisse la prima storia del nuovo Ordine, partendo dagli inizi, intitolata “Exordium Cisterciensis Coenobii”, dove il programma della riforma era esposto nei suoi particolari, specie riguardo l’osservanza della regola di s. Benedetto da Norcia nella sua purezza originale; ad uso dei monaci, attese poi ad una revisione della ‘Vulgata’.
L’abate Stefano fu in rapporti stretti con i papi del tempo e da loro ricevé incarichi di sanare controversie sorte fra varie abbazie, ma anche benefici economici per tutto l’Ordine.
Dopo 24 anni di governo, l’abate Stefano, stanco ed ammalato, si dimise nel 1133 e morì il 28 marzo 1134; alla sua morte l’Ordine Cisterciense contava già più di settanta monasteri diffusi in tutta Europa.
Fu sepolto nella chiesa abbaziale di Citeaux, dove era deceduto, accanto al suo predecessore Alberico; ambedue le salme furono poi spostate in una tomba all’angolo del chiostro, tra la chiesa e il capitolo, quando fu costruita una chiesa più grande.
A partire dal 1491, il nome del terzo abate dell’Ordine Cisterciense, fu inserito nel “Compendio dei Santi dell’Ordine Cisterciense”; il cardinale Cesare Baronio, ne inserì il nome nel suo “Martirologio Romano” al 17 aprile, ma solo nel 1623 la sua festa religiosa, fu confermata dal Capitolo Generale al 17 aprile.
Poi la celebrazione di s. Stefano Harding ebbe altri spostamenti nel tempo, dal 17 aprile al 16 luglio, poi al 26 gennaio, festa dei santi Fondatori dell’Ordine: s. Roberto, beato Alberico e s. Stefano.
Infine la recente edizione del “Martirologio Romano”, riporta la sua celebrazione al 28 marzo, cioè nella ricorrenza del giorno della sua morte.



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00sabato 27 marzo 2010 10:29

Beato Venturino di Bergamo

28 marzo

Bergamo, 9 aprile 1304 - Smirne, 28 marzo 1346

Nacque in Bergamo il 9 aprile 1304: erroneamente si credeva appartenesse alla famiglia Cerasoli; invece discendeva da quella degli Artifoni di Almeno (lo chiamavano anche Venturinus de Lemen): suo padre era il celebre maestro Lorenzo de Apibus (con questo cognome aveva sostituito quello degli Artifoni), doctor in grammaticalibus et logicalibus e precettore dei nipoti del cardinal Longo (sepolto in S. Maria Maggiore) alla Curia Romana di Avignone; la madre fu Caracosa, non altrimenti nota, ma considerata fra le più illustri e stimate gentildonne della città. Ebbe fratelli: Pierina, Caterina e Jacopo-Domenico detto poi Magister Crottus e famoso anche per l'amicizia col Petrarca, al quale prestò un'opera di Cicerone.
A quattordici anni Venturino si fece domenicano nel Convento di S. Stefano in Bergamo; ma terminò gli studi a Genova, vi fu ordinato sacerdote e fu eletto maestro dei novizi. Si iscrisse, poi, alla Società dei frati peregrinanti, istituita dall'Ordine domenicano per le missioni di Oriente. Arrivato a Venezia per imbarcarsi fu, invece, mandato nel convento di Chioggia, poi in quelli di Vicenza, e di Bologna, già imponendosi quale eccellente oratore, costretto non raramente a predicare all'aperto per l'angustia delle chiese in rapporto allo straripante uditorio.
In Bologna, prima del 1334, predicò il culto a s. Marta e riuscì a farvi costruire un convento e una chiesa a lei dedicati; nel 1334 predicò in Bergamo dal 21 settembre al 30 novembre e vi fece edificare un monastero e una chiesa per le domenicane, pure dedicati a s. Marta (oggi, ne rimane solo il fabbricato, restaurato nel 1936): le monache ne presero possesso il 29 luglio del 1340 (anche una sorella di Venturino, soror Catalina de Apibus de Lemine, si fece monaca in S. Marta).
Nel 1335 organizzò un pellegrinaggio di penitenza da Bergamo a Roma, con l'intento di facilitare la conversione dei peccatori alla penitenza, di indurre guelfi e ghibellini alla pacificazione e di riconciliare col papa i numerosi scomunicati bergamaschi.
La partenza avvenne il 5 febbraio 1335: la numerosa «processione» che lo seguì, fece sosta anche in Firenze (lo stesso Giovanni Villani ne testimonia).
Giunto a Roma, vi dimorò e vi predicò per dodici giorni (per es. a S. Maria della Minerva e al Campidoglio). Ne partì, poi, coi fratello Jacopo Domenico, per presentarsi in Avignone al papa, Benedetto XII, il quale forse diffidò (come parve diffidare, in seguito, anche Clemente VI) del temperamento entusiasta (facile a essere ritenuto utopistico) di Venturino e delle sue apparenze di agitatore. Ne seguì un interrogatorio nel quale gli furon fatte trentanove domande; poi la sospensione (il De Peregrinis dice che ciò avvenne Diaboli persuasione) dalla facoltà di predicare e di confessare e l'esilio a Aubenas in Francia (v. Lettera di Benedetto XII al vesc. di Anagni relativa al pellegrinaggio di Venturino, in Archivio Segreto Vaticano, Epistolae Secretae, ar. I, Reg. 130, n. 142, f. 29).
Negli otto anni di pena e di esilio Venturino scrisse lettere e trattatelli spirituali come De Spiritu Sancto, In Psalterio decacordo, De humilitate (frammento), De Profectu spirituali, De remediis contra tentationes spirituales.
Egli fu, in seguito, liberato nel 1343 da Clemente VI che in pubblico concistoro lo riabilitò, restituendogli la facoltà di predicare e confessare e lo inviò in Italia a predicare la Crociata nell'archidiocesi di Milano.
Tornato ad Avignone, nel 1344 accompagnò i crociati da Marsiglia in Oriente, circondato da straordinario entusiasmo. Ma non appena arrivato a Smirne, sfinito dalle fatiche apostoliche e dalle penitenze, Venturino morì il 28 marzo 1346, a quarantadue anni.

Venturino fu maestro di grammatica come suo fratello e come suo padre, che egli, fin dai quattordici anni di età, fu in grado di sostituire sulla cattedra; fu, però, soprattutto predicatore popolare efficacissimo, contemplativo di rude temperamento, convinto e ardente nella propria missione di riformatore; fu anche taumaturgo.
Macilenta e asciutta la figura; facile e pronta la parola, sia in latino, sia in italiano (conosceva il francese e un poco anche il tedesco). I suoi sermoni avevano tinte terribili, il suo temperamento era appassionato, la vita spirituale intensa, il misticismo ardito, accentuato il profetismo.
La Legenda, scritta da un contemporaneo, serve a darcene un genuino ritratto esteriore, soprattutto nei capitoli in cui è indotta la testimonianza autobiografica dello stesso Venturino; mentre le sue lettere scavano più a fondo nella sua fisionomia spirituale. Purtroppo, a causa delle molte peripezie, se ne son salvate poche: al presente, dieci, più una indirizzata come risposta da Venturino a un canonico inglese della chiesa di Oxford e ritrovata dal Kaeppeli.
Tali lettere comprendono l'arco di tempo che va dal 1332 al 1340. Nella sua corrispondenza, Venturino aveva destinatari in Italia. Germania, Francia, Inghilterra, Spagna: ecco alcune intestazioni delle sue lettere: «Ihesu Xristus onor meus, oppure, Ave Maria, oppure, In nomine Patris et Fuji et Spiritus Sancti Amen». In esse egli definisce se stesso «frater Venturinus peccator, oppure, ille pauperculus Venturinus, o anche, ille homo tepidus, homo peccator ignotus, e perfino, velut rana loquax, praesuniptuosus et garrulus »...
Si rilevano notevoli affinità tra la struttura delle lettere di Venturino e quella delle lettere di s. Caterina da Siena.
Alla fine delle lettere, inoltre, Venturino dipingeva le insegne della passione; diceva talvolta «Crux Christi signum meum»; sembra, infatti, che fosse un discreto e appassionato cultore del disegno. Con le lettere, inviava anche strumenti di penitenza.
Estraneo a interessi politici, egli era sostenuto dalla consapevolezza di essere ispirato da Dio. Benché competente nella grammatica e nella retorica, l'impulso che lo spingeva a scrivere era soprattutto l'ardore (bulliunt intima cordis) dello spirito: talora confessa che, pur trovandosi a giacere in letto per dormire, si sente costretto a balzar fuori e a impugnare la penna «spiritu ad charitatis exercitia vehementius instigato».
Venturino contava, tra gli amici, fra' Giovanni di Tambach (oggi Dambach) presso Strasburgo e fra' Giovani Taulero, tutt'e due domenicani e grandi apostoli (anche per influsso di Venturino). Si deve, anzi, riconoscere che nella cerchia dei mistici tedeschi del sec. XIV, il santo entrò più come maestro che come discepolo. Manca, però, tuttora una caratterizzazione esauriente della sua mistica e un pieno confronto di essa, sia con quella degli amici tedeschi, sia con quella di altre correnti spirituali del tempo.
Egli è commemorato il 28 marzo.
Una tela (forse del Ceresa), situata nella sagrestia della grande chiesa dei Domenicani in Bergamo, lo rappresenta in atto di assorta meditazione con un libro aperto tra le mani; sotto c'è la scritta: Beatus Venturinus Ceresolus. Forse la sua figura è riconoscibile anche in una tela di Francesco Zucchi, collocata al secondo altare di sinistra (per chi entra) della medesima chiesa: vi si celebra il SS. Nome di Gesù adorato dai Beati dell'Ordine Domenicano.



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