3 novembre

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Stellina788
00mercoledì 3 novembre 2010 10:31

Beata Alpaide di Cudot Vergine

3 novembre

Cudot, Francia, 1155/1157 – 3 novembre 1211

Martirologio Romano: A Cudot nel territorio di Sens in Francia, beata Alpáide, vergine, che, crudelmente percossa e abbandonata dai suoi genitori da bambina, visse poi reclusa in una piccola cella fino ad avanzata vecchiaia.

Nacque fra il 1155 e il 1157 nel villaggio di Cudot (nella diocesi di Sens) in Francia, dove morì il 3 nov. 1211. I suoi genitori erano poveri e vivevano delle rendite di un piccolo podere che coltivavano direttamente; poiché Alpaide era la primogenita, appena le forze glielo permi­sero, fu costretta ad aiutare il padre Bernardo nel suo duro lavoro. Doveva fra l'altro portare sulle gracili spalle il fimo e lo sterco nei campi e nel­l'orto, pungolare i buoi mentre tiravano l'aratro, condurre le vacche e le pecore al pascolo. In queste fatiche, che talvolta si prolungavano anche la notte, resse fino ai dodici anni; poi non ce la fece più e dovette mettersi a letto, un letto aspro, fatto di un saccone di paglia, senza cuscino e senza lenzuoli, preda di una grave malattia.
Di che genere fosse la malattia non è facile dire. Un documento ci informa che la fanciulla « gravi admodum atque diutino prius est castigata flagel­lo, adeo ut, propter affluentem de toto corpore saniem, suis quoque foret in horrorem » ; un altro documento ci dice che il Signore, per darle prova del suo amore, « tetigit os eius et carnem, percus-sitque eam ulcere pessimo, ita ut a pianta pedum usque ad verticem non esset illi sanitas » ; un altro ancora ci fa sapere che, essendosi putrefatte le carni, « tantum horrorem cernentibus ingerebat, tantumque fetorem ex se emittebat, quod etiam mater eius abhorrebat ». Si trattava forse della leb­bra, come credono alcuni? Il fatto è che i fami­liari « tantae luis impatientes, ipsam in domo vili seorsum abicerunt, et singulis diebus eam invisen-tes, pauperrimum ei victum, occlusis ob fetorem naribus, ab ostio porrexerunt ». I fratelli, che pur le volevano bene, non solo rifiutarono di avvicinar­la, ma non intendevano più somministrarle il cibo, affinché morisse di inedia; anche la misera madre (il padre era oramai morto) supplicava di conti­nuo il Signore perché ponesse termine con la morte ai tormenti della figlia, « et quia pauper erat, et aliud quid quod ei offerre posset non habebat, panem hordeaceum a longe, veluti cani, propter intollerabilem fetorem, quandoque ei proiciebat », che quella quasi mai riusciva ad afferrare con le mani paralizzate e tanto meno a portare alla bocca.
Alpaide sopportò tutto con grande pazienza e senza lamentarsi. Era circa un anno che si era ammalata, quando la vigilia di Pasqua, probabilmente del 1170, mentre paragonava sé, immersa in tanta squallida solitudine, ai suoi coetanei che, vestiti a festa, andavano gioiosamente in chiesa, le appar­ve d'improvviso la Madonna in mezzo a una gran luce e a un soavissimo profumo, « extensaque sancta dextera, singula membra contrectat, et mox ulcera quaeque curantur, fetor omnis abscedit ». Fu libe­rata dalle piaghe e dal fetore, ma rimase in uno stato di impotenza quasi totale, costretta a tenere sempre il letto in posizione supina, senza vigore nel corpo insensibile e morto, bisognosa di aiuto persino per rigirarsi. Di sano aveva solo il petto, il capo, la mano e il braccio destro; tuttavia, « ita venusta corpulentaque in vultu cernitur ac si deliciarum copia perfruatur ». La Madonna le aveva detto che sarebbe vissuta nel corpo senza bisogno di cibo corporale. Così fu : finché visse non mangiò e non bevve mai nulla, fatta eccezione della Comunione che riceveva la domenica.
La fama del suo miracoloso digiuno giunse ben presto alle orecchie dell'arcivescovo di Sens, Gu­glielmo, zio del re Filippo, il quale, dopo aver ap­purato il fatto con un'inchiesta, ordinò la costru­zione di una chiesa attigua alla camera della vergine per permetterle di assistere ai divini uffici dal suo letto attraverso una finestra che guardava l'altare. La rettorìa della chiesa fu affidata a un gruppo di canonici regolari con a capo un priore.
Dal giorno dell'apparizione Alpaide cominciò a opera­re miracoli; ebbe visioni meravigliose superiori alla umana facondia; fruì di estasi specialmente nelle solennità del Signore e della Vergine; vedeva in spirito le cose lontane, prevedeva le future; era in­signita del dono della circospezione nelle parole e della sapienza nei consigli; e come si diffuse la fama di questi prodigi cominciarono i pellegrinaggi alla sua casa. Arcivescovi e vescovi, abati ed altri prelati, semplici sacerdoti, nobili e plebei anda­rono da lei per raccomandarsi alle sue preghiere, per vederla, per ascoltarla. La regina di Francia Adele, sposa di Luigi VII, nel 1180 destinò alla chiesa di Gudot una rendita annua di un moggio di frumento per amore di Alpaide, rendita che nel 1184 fu confermata in perpetuo da Filippo Augusto con un diploma. Altre donazioni furono fatte in se­guito.
Alla sua morte il corpo della beata fu deposto nel coro della chiesa e il popolo la venerò subito come una santa. Nel 1894 esso si trovava ancora nello stesso luogo, davanti all'altare maggiore. Il 26 febb. 1874, in seguito a regolare processo istruito a Sens per ordine dell'arcivescovo, la S. Congregazione dei Riti ne approvò il culto imme­morabile e il 28 nov. dello stesso anno concesse che se ne celebrasse la festività con rito doppio minore nelle diocesi di Sens e di Orléans, e con rito doppio di seconda classe nelle chiese di Cudot e di Triguières nella diocesi di Orléans, dove qualcuno a torto la riteneva nata. Sempre verso la fine del sec. XIX (non disponiamo di informa­zioni più recenti) la devozione verso la b. Alpaide era ancor più viva a Gudot e nei dintorni, dove si organizzavano pellegrinaggi alla sua tomba. Nei pressi del paese fluiva una fonte chiamata di s. Alpaide perché, secondo la leggenda, era stata fatta sca­turire da lei un giorno che, già deforme per la sua infermità, trovandosi in un prato col gregge, aveva domandato da bere, ma invano, a una per­sona. Il popolo ne beve l'acqua, se ne bagna le piaghe, la porta a casa per devozione.



Stellina788
00mercoledì 3 novembre 2010 10:32

Sant' Amico di Avellana Monaco

3 novembre

Monaco benedettino, nato nel territorio di Camerino tra il 920 e il 930 da nobile famiglia, fu affidato dai genitori a un monastero per esservi avviato alla vita monastica. A 20 anni, però, lasciò il monastero per il clero secolare. Ordinato sacerdote, dopo aver spinto tutti i familiari ad abbracciare la vita monastica, rientrò a sua volta in un monastero.Tuttavia, non trovandovi una disciplina sufficientemente austera, si diede a vita eremitica. Per tre anni visse tutto solo in una spelonca del monte Torano dell'Aquila, in diocesi di Ascoli Piceno. Più tardi accolse nella sua solitudine anche alcuni discepoli, con i quali continuò per altri venti anni la vita eremitica. Ultranovantenne entrò nel monastero di San Pietro di Avellana, nel territorio del Sangro. Morì all'età di 120 anni tra il 1040 e il 1050, forse il 3 novembre. Particolare efficacia rivelò la sua intercessione nel sanare le ernie: fu perciò scelto come patrono dai sofferenti di questo male. (Avvenire)


Monaco benedettino, nato nel territorio di Camerino tra il 920 e il 930 da nobile famiglia, ancora giovinetto fu affidato dai genitori a un monastero per esservi educato ed avviato alla vita monastica. La situazione familiare, però, lo indusse, quando aveva da poco superato i venti anni, a lasciare il monastero per il clero secolare. Ordinato sacerdote, spinse tutti i familiari ad abbracciare la vita monastica. Il padre, i fratelli e poi i nipoti entrarono nel chiostro: la madre, distribuita ai poveri la mag,ior parte dei beni, si dedicò ad opere pie.

Liberato così da ogni preoccupazione familiare, A. rientrò a sua volta in un monastero, rivelandosi in breve un modello di virtù; ma, non trovando la disciplina del monastero sufficientemente austera, si diede a vita eremitica. Per tre anni visse tutto solo in una spelonca del monte Torano dell'Aquila, in diocesi di Ascoli Piceno. Più tardi accolse nella sua solitudine anche alcuni discepoli, con i quali continuò per altri venti anni la vita eremitica. Quando la regione fu afflitta dalla fame si prodigò in opere di carità. Ultranovantenne entrò nel monastero di S. Pietro di Avellana, fondato nel 1025 da s. Domenico di Sora, nel territorio del Sangro. Trascorse gli ultimi anni rinchiuso in una cella alla maniera dei reclusi.

Morì all'età di centoventi anni tra il 1040 e il 1050, forse il 3 novembre. Il corpo fu sepolto nel monastero di S. Pietro di Avellana e sul suo sepolcro avvennero molti miracoli. Particolare efficacia rivelò la sua intercessione nel sanare le ernie: fu perciò scelto come patrono dai sofferenti di questo male. Nel 1069 S. Pietro di Avellana venne unito a Montecassino e così i Cassinesi presero a considerar Amico come uno dei loro e ne celebrarono la festa il 3 novembre.
Il suo nome manca nel Martirologio Romano.



Stellina788
00mercoledì 3 novembre 2010 10:32

San Berardo dei Marsi Vescovo

3 novembre

Pescina, 1079 - 3 novembre 1130

Nobile abruzzese, fu canonico e poi benedettino a Montecassino. Vescovo dal 1109, combatté simonia e concubinato dei preti.

Emblema: Bastone pastorale

Martirologio Romano: Nella Marsica in Abruzzo, san Berardo, vescovo, che si distinse nella lotta contro la simonia, nell’opera di rinnovamento della disciplina del clero e nelle attività di sostegno e protezione dei poveri.


Nobile rappresentante della famiglia dei conti dei Marsi e de Sangro, nacque nel castello di Colli presso Pescina, nel 1079.
Trascorse la fanciullezza presso i canonici della chiesa di S. Sabina, allora cattedrale dei Marsi, i quali vivevano in comunità disciplinati da una regola, risiedette con loro fino a ricevere l’ordine dell’accolitato.
Sui diciassette anni, lasciò i canonici ed entrò fra i benedettini di Montecassino, dove alla loro rinomata scuola ed austera vita laboriosa, egli completò la sua formazione spirituale nei sei anni di permanenza.
Nel 1102 fu chiamato da papa Pasquale II a Roma, dove ricevette il suddiaconato e impegnato in vari incarichi, poi fu mandato ad amministrare la “Campagna”, cioè la zona rurale che si estendeva nella provincia romana, quale delegato pontificio.
Questo incarico gli procurò lo scontro con il prepotente signorotto locale, il conte Pietro Colonna, il quale lo imprigionò calandolo in un pozzo disseccato. Rientrato alla corte pontificia, fu nominato prima diacono-cardinale e poi presbitero-cardinale, secondo l’antica regola che ancora oggi persiste, anche se soltanto nel titolo cardinalizio, infatti è di recente stata emanata una disposizione pontificia che stabilisce che i cardinali debbono essere perlomeno vescovi.
A 30 anni, nel 1109 venne nominato vescovo dei Marsi, cioè di quella antica popolazione italica così denominata il cui centro abitativo era ed è intorno alla piana del lago Fucino, con capoluogo Avezzano.
La sua opera si esplicò nella lotta contro la simonia e il concubinato degli ecclesiastici, soccorrendo e proteggendo i poveri, costretto più volte all’esilio. Resse la diocesi fino alla morte, avvenuta il 3 novembre 1130; i Marsi lo venerarono sia in vita che dopo morto per i miracoli operati; papa Pio VII ne confermò il culto come beato il 10 maggio 1802.


Stellina788
00mercoledì 3 novembre 2010 10:33

Sant' Ermengold (Ermengaudio)

3 novembre

Patronato: Costruttori di ponti

Martirologio Romano: A Urgell nella Catalogna in Spagna, sant’Ermengaudio, vescovo, che fu uno degli illustri presuli che si adoperarono per ristabilire la Chiesa nelle terre liberate dal giogo dei Mori e, precipitato a terra mentre lavorava con le sue proprie mani alla costruzione di un ponte, morì fratturandosi il capo sulle pietre.



Stellina788
00mercoledì 3 novembre 2010 10:33

Sant' Eufrosino Vescovo

3 novembre

Panfilia – † Panzano, Greve in Chianti (Firenze) ?


Come per tanti santi dell’antichità, anche di sant’Eufrosino vescovo non si hanno notizie certe sulla sua vita, origine, tempo in cui visse; ma stranamente il suo culto abbastanza diffuso, ha determinato celebrazioni annuali, intestazione di associazioni, feste tradizionali, perfino l’Ordine di Malta, istituì una commenda in suo onore.
E in tanta oscurità di notizie, nel 1578 il vescovo di Fiesole, mons. Francesco Diacceto, scrisse che s. Eufrosino era un vescovo della Panfilia (regione storica dell’Asia Minore), il quale dopo un pellegrinaggio effettuato a Roma, durante il ritorno in patria, si fermò a Panzano, piccolo borgo tra Firenze e Siena, oggi frazione del Comune di Greve in Chianti (Firenze), dove predicò il Vangelo, operando molte conversioni e facendo anche miracoli, dopo una vita vissuta nella fede e nell’apostolato, vi morì all’età di 89 anni e sul sepolcro fu eretto un Oratorio a lui dedicato.
Si ignora la fonte delle notizie diffuse dal vescovo di Fiesole, nella cui giurisdizione si trovava Panzano, ma si crede che siano frutto in buona parte della sua fantasia; resta il fatto che non esiste, né sia esistita, alcuna biografia di sant’Eufrosino.
Il citato Oratorio di Panzano, già esisteva nel XII secolo, come si ricava dalle bolle di papa Pasquale II (1103) e papa Innocenzo II (1134); fu restaurato nel 1441 e il papa Eugenio IV,concesse in quella occasione una speciale indulgenza plenaria a tutti coloro che avessero contribuito al restauro; il risultato fu che l’edificio dell’Oratorio di Sant’Eufrosino, divenne un gioiello d’arte rinascimentale.
Nel XVII secolo furono effettuati degli scavi per trovare il presunto sepolcro con le reliquie del santo, ma non si trovò nulla; si suppose allora, che le reliquie, in un tempo antecedente, siano state spostate insieme ad altre presenti nell’Oratorio, in una cassetta, deposta poi sotto l’altare.
Il culto per sant’Eufrosino, si diffuse ampiamente in tutta la zona del Chianti, oltre ad essere venerato a Panzano.
Il Sovrano Ordine Militare di Malta, istituì in suo onore una commenda, che prese il nome della località in cui aveva la sede, detta della Volpiana; e nel 1852 fu fondata una Associazione con lo scopo di diffondere il culto del santo.
Anticamente, era usanza, di organizzare processioni e pellegrinaggi dai paesi intorno a Panzano, per onorare il santo e offrire doni in cera o in denaro; una fonte dei dintorni, delle cui acque si sarebbe servito il santo, porta ancora oggi il suo nome e le si attribuiscono proprietà taumaturgiche.
A Panzano la sua festa si celebra due volte l’anno, il 3 novembre e la prima domenica di maggio, questa con maggiore solennità per il gran numero di partecipanti.



Stellina788
00mercoledì 3 novembre 2010 10:34

Santi Germano, Teofilo e Cirillo Martiri

3 novembre

Martirologio Romano: A Cesarea in Cappadocia, nell’odierna Turchia, santi Germano, Teofilo e Cirillo, martiri.



Stellina788
00mercoledì 3 novembre 2010 10:35

San Giovanniccio Monaco in Bitinia

3 novembre

Martirologio Romano: Nel monastero di Antídion in Bitinia, nell’odierna Turchia, san Giovannicio, monaco, che, lasciato l’esercito dopo più di venti anni di servizio, si diede a vita solitaria su vari pendii dell’Olimpo, terminando di solito la preghiera con le parole: «Dio, mia speranza; Cristo, mio rifugio; Spirito Santo, mio protettore».




Stellina788
00mercoledì 3 novembre 2010 10:36

San Guenaele Abate in Bretagna

3 novembre

Martirologio Romano: Nella Bretagna in Francia, san Guenaele, ritenuto abate di Landévennec.

Il redattore della Vita di G., nel IX o X sec, ha voluto certamente fare opera di edificazione più che di storia.
A credergli Guanaele apparteneva ad una famiglia nobile della Cotnovaglia. Aveva sette anni quando un giorno, a Ergué-Gabéric, mentre giocava con altri fanciulli della stessa età, vide passare s. Winwaleo, il fondatore dell'abbazia di Landevennec, che gli propose di seguirlo. Il fanciullo accettò subito con gioia. Nel monastero, dove i suoi geni­tori lo lasciarono, divenne, malgrado la sua gio­ventù, un modello per gli altri religiosi; accresceva l'austerità e i rigori ascetici cari ai monaci brettoni: passava lunghe notti d'inverno nell'acqua ghiaccia del vivaio a recitare i salmi. Morendo, s. Winwaleo lo designò suo successore, ma dopo sette anni, Guanaele si dimise dalla carica, già accettata a malincuore, per andare, con undici monaci a formarsi alle vere tra­dizioni monastiche, che credeva meglio conservate in Inghilterra e in Irlanda. Qui infatti passò tren­taquattro anni a predicare, a ristabilire la disciplina nei monasteri e a fondarne altri. Ritornò poi in Bretagna, non a Landevennec, ma nell'isola di Groix, dove, al suo arrivo, le campane si misero a suonare da sole. Di là passò sulla costa del Morbihan e fondò ancora un monastero in cui morì un 3 nov., verso il 580-590.
Si è generalmente d'accordo oggi nel porre a Logunel nel Caudan, sulla sponda del Blavet (Mor­bihan) questo monastero anonimo che, aggiunge la Vita latina, non ebbe grande sviluppo e la tomba di s. Guanaele rimase senza onore, fino all'epo­ca in cui Nominoè, re di Bretagna, potenziò il culto del santo e ingrandì il monastero (verso l'850). Ma poco dopo, verso l'865, con le loro incursioni lungo le coste brettoni, i Normanni ob­bligarono i monaci ad abbandonarlo portando con sé le reliquie di s. Guanaele, che furono ricevute con onore e venerate a Corbeil, a Parigi, poi di nuovo a Corbeil. Qui sorse un'abbazia che contribuì a far conoscere il nostro santo nella regione parigina, sotto il nome di Guénault.
Nel. sec. XVII, Albert Le Grand credette oppor­tuno aggiungere ancora del suo a un racconto già abbastanza movimentato: secondo lui, s. Guanaele, dopo il suo soggiorno a Groix, ritornò a Landevennec come abate per tre anni, e dopo una nuova assen­za, vi tornò ancora una volta per morirvi. Per aggiungere una variante, il Proprio di Vannes del 1757 vuole, al contrario, che s. Guanaele sia stato sotter­rato a Vannes. Gli altri Propri dicono più sempli­cemente che un vescovo di Vannes riportò da Corbie le reliquie del santo e le depose in una tomba nella sua cattedrale, di cui Guanaele fu considerato per qualche tempo secondo patrono. Questa tomba, alta ca. un metro, fu rifatta nel sec. XV. e poi demolita nel 1721 quando si ricostruì il coro roma­nico della cattedrale. Oggi rimane soltanto una bella statua, del sec. XVII, nella cattedrale e una strada adiacente che porta il nome di Guenaele Ergué-Gaberic, Plougonvelen e Bolazec nella diocesi di Quimper, Tréguidel e Lescoat-Goarec, nella diocesi di Saint-Brieuc, lo hanno per patrono, e a lui sono dedicate anche molte cappelle nella diocesi di Vannes. La sua festa ricorre il 3 nov.; iscritta nel secolo pas­sato anche a Parigi, lo è oggi a Vannes, Quimper e nell'abbazia di Landevennec; il suo nome è ancora dato frequentemente ai bambini al Battesimo.



Stellina788
00mercoledì 3 novembre 2010 10:36

Sant' Ida (Idda) di Fischingen

3 novembre

Martirologio Romano: Presso il monastero di Fischingen nel territorio dell’odierna Svizzera, santa Idda, monaca di clausura.



Stellina788
00mercoledì 3 novembre 2010 10:37

San Libertino di Agrigento Vescovo e martire

3 novembre

Martirologio Romano: Ad Agrigento, san Libertino, vescovo e martire.


La tradizione, raccolta dagli storici e scrittori, specie agrigentini, sino al secolo XVIII, riteneva che S. Libertino fosse stato mandato da S. Pietro ad Agrigento per predicarvi il Vangelo. Nella Cattedrale della città si conserva un quadro di Francesco Narbone che rappresenta S. Pietro mentre consegna a S. Libertino la pergamena che lo istituisce vescovo di Agrigento.
Nel 1779 il can. Raimondo Gaglio, utilizzando anche i lavori del suo defunto fratello Vincenzo, sollecitato dagli accademici della Biblioteca Comunale di Palermo, inviava loro la "Serie cronologica dei Vescovi di Girgenti dai primordi al cadere del sec. XVIII" che poi venne pubblicata, dal 1901, dal Boglino nella sua Sicilia Sacra.
Il Gaglio sottopose ad una giusta critica le notizie del Gaetano, del Pirro e degli altri scrittori che lo avevano preceduto e seguito e, fondandosi sull'anonimo panegirista di S. Marciano, primo vescovo di Siracusa, scrisse: 'Non avendo altro di meglio contentiamoci dell'autorità di uno scrittore antichissimo il quale visse prima che fosse stata Siracusa, sua patria, presa da quei barbari (Saraceni), cioè a dire, nell'ottavo secolo di Cristo, tempo in cui pei monumenti che allora forse esistevano, potea probabilmente sapere se S. Libertino fu o no il primo vescovo di Girgenti. Io non voglio rendermi mallevadore presso gli eruditi della genuinità del suo codice. Altro non farò se non che rapportare le parole di questo anonimo le quali leggonsi nella sua orazione panegirica scritta in greco nel secolo suddetto in lode di S. Marciano, tradotta prima dal Gaetano in latino e pubblicata poi in autentica dai PP. Bollandisti, lasciando agli eruditi la libertà di seguire colla di lui scorta le sue riflessioni o di pensare altrirnenti".
Le parole citate in nota dal Gaglio sono queste:
"(Peregrinus) inter coeteros Dei praecones Marciani doctrina imbutus, testis perfectus Dei effectus est, sacrificium acceptabile ac voluntarium factus atque holocaustum in odorem sua vitatis in monte quod cacumen Crotaleos adpellatur, parem inortis triumphum retulit cum martyre et Agrigentinorum episcopo Libertino".
Continua poi il Gaglio:
"Asserisce egli dunque nel cennato panegirico che S. Libertino fu martirizzato insieme con S. Pellegrino sul monte Crotaleo della stessa città.
S. Pellegrino, come dicesi, fu contemporaneo di S. Marciano, primo vescovo di Siracusa, onde se S. Libertino, a dir dell'anonimo, visse a suo tempo, fu anch'egli contemporaneo di S. Marciano. Ora se vogliam passare per buona moneta la rimessa di costui dal principe degli Apostoli in Sicilia a predicarvi la fede, di cui non avevano alcun lume quegli abitanti e se S. Libertino, portossi, mentre ci vivea, in Girgenti, dir dobbiamo che, siccome colui, quando andò a Siracusa trovò i di lei cittadini sepolti fra le tenebre del paganesimo, così del pari questi rinvenne il suo gregge immerso nella credenza dei falsi numi e fu, in conseguenza, il primo vescovo della suddetta città, giacché in tempo di S. Marciano trovavasi la Sicilia tutta in seno all'idolatria. Queste, come dissi, mi sembrano congetture probabili appoggiate a qualche non inverosimile fondamento su cui possono sostenersi''. Che poi S. Libertino sia stato inviato da S. Pietro in Agrigento il Gaglio esclude, non possedendosi nessun documento né coevo né prossimo al Santo e nemmeno antico; e se, come qualcuno asserisce, per lungo tempo si venero in Agrigento il diploma di nomina di S. Libertino non citato mai da nessuno dovette essere certamente un falso. E conclude: "Ciò che potrebbe dirsi con qualche apparenza di sicurezza si è che S. Libertino fu il primo vescovo di Girgenti, che egli visse nei primi secoli di Cristo, che vi portò, prima di tutti, la luce del Vangelo, che vi sofferse il martirio, rimanendo ancora ignoto l'anno in cui portossi a Girgenti e la maniera onde fu eletto vescovo". Il Lancia di Brolo, nella sua storia, rifacendosi anche lui al panegirista di S. Marciano, cita un passo dell'orazione che egli lesse nell'unico manoscritto esistente, Vaticano greco 366 in cui viene riportata la descrizione della persecuzione di Valeriano (254 259) in Sicilia, che l'anonimo attribuisce allo stesso martire S. Pellegrino, e perciò argomenta:
"Se questo scritto è veramente di S. Pellegrino egli dunque non ha potuto morire nella persecuzione di Valeriano, ma in altra appresso; poiché il suddetto encomiasta siracusano ci dice che S. Pellegrino, ammaestrato dalla dottrina di S. Marciano, divenne perfetto testimone di Dio e nel monte che si addimanda cacume delle Crotali pari morte e uguale trionfo riportò insiem col martire S. Libertino, vescovo di Girgenti.
Quale oggi sia questo monte non si conosce ed è impossibile rintracciarlo, dal fatto che S. Pellegrino è venerato qual patrono in Caltabellotta, succeduta all'antica Triocala, credo possa congetturarsi che per una trasposizione di sillabe solita ne' molti dialetti e nel volgare siculo questo monte sia appunto quello di Triocala". Se il brano citato dall'anonimo è di S. Pellegrino questi non può essere discepolo diretto di S. Marciano e perciò il "Marciani doctrina imbutus", deve intendersi come un insegnamento morale, un discepolato ideale, altrimenti dovrebbe negarsi che S. Marciano sia vissuto nel primo secolo e sia stato mandato da S. Pietro in Siracusa.
L'altra persecuzione potrebbe essere quella di Decio, o di Diocleziano?
Il brano dell'encomio è così tradotto dal p. Agostino Amore:
"Come insegna la testimonianza scritta del vittorioso Pellegrino di cui si parlava in principio, anche lui, infatti, ripieno della dottrina di questo predicatore di Dio, Marciano, si rese perfetto testimone di Dio, fatto sacrificio accetto nella tribolazione e olocausto in odore di soavità sulla montagna della Crotala, subendo una morte simile a quella del Santo vescovo e martire Libertino della Chiesa di Agrigento. Il p. Amore, nel suo studio archeologico agiografico su S. Marciano di Siracusa, ritiene che l'encomio greco (codice Vaticano 366) "deve porsi con sicurezza tra la fine del secolo VII e la prima metà dello VIII, ma forse più in questo che in quello".
"Questo encomio non è un panegirico recitato per la sua festa, come afferma il Lancia di Brolo, ma una delle solite leggende agiografiche destinata alla lettura. La stessa intrinseca struttura lo confessa: esso è un centone di brani presi qua e là e malamente cuciti insieme". Nel testo dell'encomio si dice che S. Pellegrino subì un "omoion thànaton", (una morte simile) a quella di S. Libertino che perciò dovrebbe essere cronologicamente alquanto anteriore.

La passione dei SS. Libertino e Pellegrino

In una passione anonima pubblicata dai Bollandisti (G. van Hoof) in Acta Sanctorum Novembris si parla dei santi Libertino e Pellegrino.
Essa, secondo il p. Amore, per tanti indizi, dovrebbe datarsi tra il VI e il VII secolo. Secondo G. van Hoof essa non è del tutto indegna di fede perché il suo autore si è servito di scritti più antichi e quindi più vicini al martirio di S. Pellegrino il cui sepolcro era stato "per molti secoli illustre per miracoli
Il suo autore, pensa il p. Amore, dovrebbe essere un monaco del monastero dei "Triginta" in cui sarebbe vissuto S. Pellegrino, il quale "voleva col suo scritto non solo risvegliare e consolidare il culto di Pellegrino, ma anche dar fama al suo monastero, attribuendogli la gloria di avere ospitato il martire". Il passo riguardante S. Pellegrino è il seguente: Gli imperatori Valeriano e Gallieno (254 259) avevano scritto a Quinziano, consolare di Sicilia, di costringere i cristiani a sacrificare agli dei. Quinziano mandò in Agrigento Silvano il quale "Agrigentum ingressus Libertinum episcopum corripi jubet. Non doli, non ininae, nihil omissum quo revocaretur a Christo, simulacra veneraretur. At Libertinus in aede S. Stephani protomartyris per aras Deum laudans, oransque, spiritum coelo reddidit, nec sine luctu in foro Agrigentinorum sepultus" (Acta Sanctorum, pag. 612 n. 3: Entrato in Agrigento comandò che il vescovo Libertino fosse arrestato. Niente fu omesso, di inganni e minacce, per distoglierlo da Cristo e fargli venerare gli dei. Ma Libertino nella chiesa di S. Stefano protomartire, lodando Dio davanti gli altari, restituì la sua anima al cielo e con gran lutto fu seppellito nel foro degli Agrigentini.) Su questo passo il p. Amore che ritiene la "Passio" scritta da un agrigentino e l'encomio da un siracusano presenta alcune considerazioni:
"Sembra che la notizia della morte di Libertino non faccia parte integrante del racconto, ma che sia stata ricordata come per inciso. Oltre il modo incerto con cui è riferita, sorprende il leggere come Silvano, pur avendo usato inganni e minacce per fare apostatare Libertino, il che fa supporre che non siano mancati giudizio, carcere e forse anche tormenti, l'abbia poi lasciato tranquillamente nella chiesa di S. Stefano orans per aras spiritum coelo reddidit".
Evidentemente quando lo scrittore scriveva il corpo di Libertino era venerato in quella chiesa, e non sapendo altro di lui, scrisse che era morto lì. D'altra parte se Libertino fu veramente coevo di Peregrino e l'uno e l'altro sarebbero periti nella persecuzione di Valeriano, come possiamo ammettere che quello fosse stato "in foro agrigentino sepultus" quando le leggi romane vietavano di seppellire in città?
E ancora: come mai l'autore parla così a lungo di Peregrino, mentre a Libertino riserva appena un cenno in una frase generica? E dire che questi era un vescovo, mentre l'altro un semplice monaco. Infine se realmente Libertino mori mentre pregava in chiesa, sotto qual titolo si può chiamare martire? Mi sembra quindi legittimo pensare che l'autore della Passio niente sapeva di lui perché vissuto molto tempo dopo e che l'abbia voluto ricordare soltanto per dare maggior credito al suo scritto"
Questa ultima osservazione mi sembra interessante per la cronologia di S. Libertino: se la Passio è databile tra il VI e il VII secolo, questo "molto tempo dopo" deve abbracciare almeno qualche secolo e quindi siamo rimandati al III secolo, alla persecuzione di Valeriano e Gallieno, citata anche nella Passio.
Il Mercurelli ritarda l'epoca della composizione della Passio addirittura al tempo dei Normanni, ma gli argomenti del p. Amore mi sembrano molto più validi e probativi.
Comunque, quando, alla conclusione del suo studio sui primi vescovi di Agrigento, ne riporta un elenco, il Mercurelli pone come protovescovo S. Libertino aggiungendo: età incerta tra il primo e terzo secolo, secondo le fonti.

Il culto di S. Libertino
"Il culto di S. Libertino dovette iniziarsi abbastanza presto: al tempo di Gregorio Magno un pretore di Sicilia ed un vescovo di Sardegna ebbero quel nome, mentre nella vita di S. Gregorio, vescovo di Agrigento, scritta da Leonzio, si ricorda una casa che la Chiesa di Agrigento possedeva da moltissimo tempo in Palermo e che si chiamava Libertino: "era intatti da molto tempo della Chiesa Agrigentina ed era detta Libertino.
Sulla datazione di S. Libertino tra il I e il III secolo concordano il Lanzoni, il Kehr, oltre il Mercurelli.
Secondo la tradizione, raccolta dal Gaetano e inserita nella liturgia del Santo, al 3 novembre, la predicazione di S. Libertino fu così efficace e feconda di risultati che le autorità pagane decisero di stroncarla; non riuscendovi né con le blandizie, né con le minacce, ricorsero alla violenza.
Secondo la tradizione venne martirizzato con S. Pellegrino e poi bruciato; secondo un'altra venne lapidato o ucciso con la spada o con un colpo al petto o al capo.
Il Russo riferendo alcuni passi del p. Francesco Petronio, afferma che compì molti miracoli ed edificò una chiesa dedicandola alla Madonna, la quale potrebbe essere stata la prima cattedrale agrigentina. Una tradizione popolare racconta che S. Libertino, poco prima di morire, avesse detto agli spettatori dei suoi tormenti: 'Gens iniqua, plebs rea, non videbis ossa mea" donde sarebbe derivato il nome della porta settentrionale della città: Bibbirria. Ma giustamente il Picone osserva che un martire muore perdonando e il nome della porta è di origine araba e significa "porta dei venti", da Bab er rijah.
Circa il luogo del martirio, il Lancia di Brolo, come abbiamo detto, vorrebbe vedere nel cacume delle Crotali una corruzione della parola Triocala, mentre il Picone ritiene che possa essere corruzione della parola "Akropoleos", la fortezza degli Agrigentini ma il termine potrebbe benissimo conservare il suo significato greco di "nacchere" oppure, forse anche più opportunamente, per un colle di campagna, di "narcisi" perché coperto di narcisi.
Il luogo dell'acropoli antica fu nel passato individuato in quello che veniva chiamato "il piano degli Zingari, lu chianu delli Zingari" sull'alto della collina su cui è posta la città attuale, nella zona dove sorge la chiesetta del Santo.
Gli Agrigentini, durante la peste del 1625, poiché tanti si erano rivolti all'intercessione del Santo e ne avevano ottenuto molte grazie e miracoli, pensando che, secondo la tradizione, aveva subito il martirio in quel luogo e vi fosse stato seppellito, sull'esempio di Palermo che aveva trovato il corpo di S. Rosalia, scavarono nella zona del Piano degli Zingari, ma non trovarono nulla.
Decisero tuttavia di costruirvi una cappella.
Ad istanza del p. Michele di Agrigento e dei suoi fratelli della Osservanza, i giurati del tempo: Gaspare Di Fede, Bernardo Belguardo, Giuseppe Di Falco e Giuseppe Piemontese, concessero l'area per la cappella e per un ospizio a queste condizioni: 'che detto chiano non possa servire per altro effetto né uso, eccetto per la pianta di detto edificio e per costruzione di chiesa, sotto nome di detto santo Libertino e che si possa sempre e quandocumque in detto piano cavare per la invenzione della santa reliquia di detto santo, non obstante qualsivoglia edificio, quali fabbriche si possono in tutto o in parte dirrupare per causa di detta invenzione di detto corpo" °.
La cappella fu poi ingrandita e divenne chiesa per opera del Vescovo Francesco Trahina; fu poi restaurata da mons. Lo Jacono e da mons. Lagumina. Il Russo enumera alcuni quadri, affreschi, opere d'arte che rappresentano il Santo: tra i quadri più notevoli ricordiamo quello già citato della Cattedrale di Agrigento in cui si rappresenta S. Pietro con S. Libertino; l'altro con i santi vescovi agrigentini, tutti e due oggi conservati nel palazzo vescovile, e il quadro posto sull'altare maggiore della sua chiesa.
Michele Blasco lo pose tra gli altri santi agrigentini nel suo paradiso nel catino dell'abside della cattedrale: è anche rappresentato in un affresco accanto all'organo mentre subisce il martirio e in una trave del soffitto ligneo.
Nella chiesa di Ravanusella di conservava una statua di S. Libertino del Surrocco, afferma il Russo, sulla cui base si leggeva: Divo Libertino ob invectani religionem, Agrigentini. Oggi non vi si trova più e se ne è perduta ogni traccia.
Lo stesso Russo ricorda una medaglia posseduta dal cappuccino p. Samuele in cui erano le immagini di S. Libertino e S. Gerlando, ma non sa darne notizie più precise
Negli stucchi di scuola serpottiana della chiesa del Purgatorio si vede anche una immagine del Santo e un altra se ne scorge nel pulpito.
Il culto liturgico di S. Libertino, per quel che sappiamo, ricominciò assai tardi nella ricostituita chiesa di Agrigento, forse nel sec. XVI; nel soffitto ligneo della cattedrale, che risale all'inizio del 1500, fu allora dipinta la sua immagine, per volere del vescovo Giuliano Cybo.
Esso poi venne incrementato verso la fine del secolo e particolarmente all'inizio del seguente con la costruzione della cappelletta e della chiesa a lui dedicata. Nel 1848 mons. Domenico Maria Lo Jacono "tum sua tum Capituli Cathedralis, turn universae civitatis suppliciter retulit vota ad summum Ecclesiae Pontificeim Pium Nonum Cajetae commorantem, temporum iniquitate, atque ex apostolica indulgentia obtinuit ut hisce lectionibus et oratione etiam in missa clerus universus etiam regularis Agrigentinae diocesis uteretur" (Così si legge nella lezione storica dell'ufficio di S. Libertino negli Officio propria già citati. "Supplichevolmente portò al Sommo Pontefice della Chiesa Pio IX che, per l'iniquità dei tempi, dimorava in Gaeta, i voti suoi, del capitolo, di tutta la città e dalla apostolica indulgenza ottenne che tutto il clero della diocesi agrigentina, compreso il regolare, adoperasse queste letture e l'orazione anche nella messa").



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00mercoledì 3 novembre 2010 10:38

San Martino de Porres Domenicano

3 novembre - Memoria Facoltativa

Lima, Perù, 9 dicembre 1579 - 3 novembre 1639

Nasce a Lima nel 1579. Suo padre è l'aristocratico spagnolo Juan de Porres, che all'inizio non vuole riconoscerlo, perché la madre è un'ex schiava nera d'origine africana. Nominato governatore del Panama, il padre lascia la bimba a un parente e Martino alla madre, con i mezzi per farlo studiare. Martino diventa allievo di un barbiere-chirurgo. Lui però vorrebbe entrare fra i Domenicani, che hanno fondato a Lima il loro primo convento peruviano. Ma come mulatto viene accolto solo come terziario e gli vengono assegnati solo compiti umili. Quando i Domenicani avvertono la sua energia interiore lo tolgono dalla condizione subalterna, accogliendolo nell'Ordine come fratello cooperatore. Martino de Porres, figlio di un "conquistatore", offre così in Perù un esempio di vita esemplare. Vengono da lui per consiglio il viceré del Perù e l'arcivescovo di Lima, trovandolo perlopiù circondato da poveri e da malati. Quando a Lima arriva la peste, cura da solo i 60 confratelli. Per tutti è l'uomo dei miracoli: fonda a Lima un collegio per istruire i bambini poveri: il primo del Nuovo Mondo. Guarisce l'arcivescovo del Messico, che vorrebbe condurlo con sé. Ma Martino muore a Lima. È il 1639. (Avvenire)

Patronato: Poveri, Parrucchieri

Etimologia: Martino = dedicato a Marte

Martirologio Romano: San Martino de Porres, religioso dell’Ordine dei Predicatori: figlio di uno spagnolo e di una donna nera, fin dalla fanciullezza, sia pure tra le difficoltà derivanti dalla sua condizione di figlio illegittimo e di meticcio, apprese la professione di medico, che in seguito, diventato religioso, esercitò con abnegazione a Lima in Perù tra i poveri e, dedito a digiuni, alla penitenza e alla preghiera, condusse un’esistenza di semplicità e umiltà, irradiata dall’amore.

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"Figlio di padre ignoto": così lo registrano fra i battezzati nella chiesa di San Sebastiano a Lima. Suo padre è l’aristocratico spagnolo Juan de Porres, che non lo riconosce perché la madre è un’ex schiava nera d’origine africana. Il piccolo mulatto vive con lei e la sorellina, finché il padre si decide al riconoscimento, tenendo con sé in Ecuador i due piccoli, per qualche tempo. Nominato poi governatore del Panama, lascia la bimba a un parente e Martino alla madre, con i mezzi per farlo studiare un po’.
E Martino diventa allievo di un barbiere-chirurgo (le due attività sono spesso abbinate, all’epoca) apprendendo anche nozioni mediche in una farmacia. Avvenire garantito, dunque, per il ragazzo appena quindicenne.
Lui però vorrebbe entrare fra i Domenicani, che hanno fondato a Lima il loro primo convento peruviano. Ma è mulatto: e viene accolto sì, ma solo come terziario; non come religioso con i voti. E i suoi compiti sono perlopiù di inserviente e spazzino. Suo padre se ne indigna: ma lui no, per nulla. Anzi, mentre suo padre va in giro con la spada, lui ama mostrarsi brandendo una scopa (con la quale verrà poi spesso raffigurato). Lo irridono perché mulatto? E lui, vedendo malconce le finanze del convento, propone seriamente ai superiori: "Vendete me come schiavo". I Domenicani ormai avvertono la sua energia interiore, e lo tolgono dalla condizione subalterna, accogliendolo nell’Ordine come fratello cooperatore.
Nel Perù che ha ancora freschissimo il ricordo dei predatori Pizarro e Almagro, crudeli con la gente del luogo e poi impegnati in atroci faide interne, Martino de Porres, figlio di un “conquistatore”, offre un esempio di vita radicalmente contrapposto. Vengono da lui per consiglio il viceré del Perù e l’arcivescovo di Lima, trovandolo perlopiù circondato da poveri e da malati, guaritore e consolatore.
Quando a Lima arriva la peste, frate Martino cura da solo i 60 confratelli e li salva tutti. E sempre più si parla di suoi prodigi, come trovarsi al tempo stesso in luoghi lontani fra loro, sollevarsi da terra, chiarire complessi argomenti di teologia senza averla mai studiata. Gli si attribuisce poi un potere speciale sui topi, che raduna e sfama in un angolo dell’orto, liberando le case dalla loro presenza devastatrice. Per tutti è l’uomo dei miracoli: fonda a Lima un collegio per istruire i bambini poveri, ed è fior di miracolo anch’esso, il primo collegio del Nuovo Mondo.
Guarisce l’arcivescovo del Messico, che vorrebbe condurlo con sé. Martino però non potrà partire: colpito da violente febbri, muore a Lima sessantenne. Per il popolo peruviano e per i confratelli è subito santo. Invece l’iter canonico, iniziato nel 1660, avrà poi una lunghissima sosta. E sarà Giovanni XXIII a farlo santo, il 6 maggio 1962. Nel 1966, Paolo VI lo proclamerà patrono dei barbieri e parrucchieri.



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00mercoledì 3 novembre 2010 10:38

Santa Odrada

3 novembre

Martirologio Romano: Ad Alem nelle Fiandre, nell’odierna Olanda, deposizione di santa Odrada, vergine.


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00mercoledì 3 novembre 2010 10:39

San Papulo Martire

3 novembre

Martirologio Romano: Nel territorio di Lauragais nella Gallia narbonense, ora in Francia, san Pápulo, venerato come martire.


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00mercoledì 3 novembre 2010 10:40

San Pietro Francesco Neron Sacerdote e martire

3 novembre

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Bornay, Francia, 21 settembre - Son Tay, Vietnam, 3 novembre 1860

Sacerdote della Società per le Missioni Straniere, direttore di un seminario nel Vietnam, decapitato durante la persecuzione dell'imperatore Tu Duc.

Martirologio Romano: Nella fortezza di Xã Ðoài nel Tonchino, ora Viet Nam, san Pietro Francesco Néron, sacerdote della Società per le Missioni Estere di Parigi e martire, che sotto l’imperatore T? D?c visse per tre mesi rinchiuso in una stretta gabbia e, atrocemente percosso, rimase per tre settimane senza alcun alimento, portando infine a termine il suo martirio con la decapitazione.


Nato il 21 sett. a Bornay, presso Lons-le-Saunier, nella diocesi di St-Claude (Giu­ra), quinto di nove figli, a diciannove anni mani­festò il desiderio di essere prete; dopo aver studiato dal 1839 al 1845 nei piccoli seminari di Nozeroy e di Vaux-sur-Poligny, nell'ott. 1845 entrò nel grande seminario di Lons-le-Saunier.
II 1° ag. 1846 entrò nel seminario delle Mis­sioni Estere a Parigi, dove, il 17 giug. 1848, fu ordi­nato prete per essere inviato nel Tonchino. Durante il suo soggiorno a Parigi si recò a pregare a Nostra Signora delle Vittorie per domandare la grazia del martirio.
Il 26 marzo 1849 incontrò il Retord, vicario apostolico del Tonchino occidentale» che gli affidò il distretto di Kim-Son a Sud di Nihn-Binh. Dopo molti mesi di un'intensa fatica pastorale, sotto la minaccia della persecuzione, dovette rifu­giarsi presso mons. Retord, dal quale nel 1854 fu creato superiore di un piccolo seminario con cen­tocinquanta allievi, ai quali insegnava filosofia, traducendo per loro anche i manuali di matematica portati dalla Francia. Nonostante questo enorme lavoro Néron restava fedele a una intensa vita spiri­tuale, facendo la sua Via Crucis quotidiana, digiu­nando di Quaresima, di venerdì e nelle vigilie delle feste della Madonna.
Essendosi aggravata la situazione locale, per molti mesi fu costretto a condurre vita errabonda, finché tradito da un amico, fu catturato nella notte tra il 5 e il 6 ag. 1860. Chiuso in una gabbia da cui non usciva che per gli interrogatori, trascorse circa tre mesi nel silenzio, pregando e meditando inces­santemente, non rispondendo alle domande dei man­darini e non rispondendo neppure alle lettere che gli mandavano i suoi superiori e amici dalla Francia. Ciò che accrebbe il suo prestigio presso i pagani fu il digiuno quasi totale che egli osservò per ventun giorni; infine fu condannato a morte e la sentenza venne eseguita mediante decapitazione il 3 nov. 1860 presso Son Tay (o Song-Koi, una cin­quantina di Km. a Nord di Hanoi).
La sua testa fu gettata nel Fiume Rosso, mentre i soldati serbarono la sua veste. Il corpo, sepolto sul posto, fu riconosciuto nel 1880 da mons. Gen-dreau e deposto nella cripta di una chiesa prossima al luogo del martirio. N. fu beatificato il 2 magg. 1909; il suo culto è rimasto vivo nella parrocchia natale ove è stato solennemente celebrato il cente­nario della morte. In Francia, dove è patrono dei giovani del Giura, gli è consacrato un altare nel piccolo seminario di Vaux-sur-Poligny, mentre la diocesi di St-Claude celebra la sua festa il 3 nov. con una Messa propria.



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00mercoledì 3 novembre 2010 10:40

San Pimen di Zografo Monaco

3 novembre (Chiese Orientali)

+ 3 novembre 1618


Dalla Vita di Pimen, scritta dal discepolo Pamfilo, risulta che Pimen nacque a Sofia nella seconda metà del XVI secolo. Fu battezzato col nome Paolo, essendo nato il giorno dei santi Pietro e Paolo; il padre si chiamava Pietro. Per sei anni apprese a leggere, a scrivere e ad eseguire il canto liturgico presso la chiesa di San Giorgio. All'età di ventisei anni circa entrò nella vita monastica, nel monastero bulgaro di Zografo (Zogràphou) sul Monte Athos. Divenne noto come copista e fu un pittore di icone e affreschi tra i migliori e i più attivi del suo tempo. Invidiosi del progresso spirituale da lui compiuto, i confratelli lo sottoponevano a pesanti scherzi e a prove di ogni genere. Per impedirgli di andare in chiesa, una volta gli portarono via i vestiti, dando loro fuoco, ma, per intervento divino, il fuoco si spense e così Pimen potè rivestirsi convenientemente per partecipare al servizio liturgico.
In riconoscimento della sua pietà, e suo malgrado, Pimen venne ordinato diacono e poi sacerdote, dal vescovo Pamfilo di Voden (Lerin), in Tessaglia. Per quindici anni visse da eremita in una casetta sita nella proprietà monastica, finché un giorno gli apparve san Giorgio, il protettore di Zografo, rivelandogli che i connazionali avevano estremo bisogno di lui; per cui decise di tornare in patria. Secondo l'agiografo, viaggiò in lungo e in largo per tutta la regione di Sofia, costruendo e ornando di pitture ben trecento chiese. Morì il 3 nov. 1618 - e in quella data è commemorato - nel monastero di Cerepis, a nord-ovest di Sofia. Le sue reliquie furono traslate nel monastero di Suho-dol, nella Serbia orientale.



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00mercoledì 3 novembre 2010 10:41

San Pirmino Abate

3 novembre

Martirologio Romano: Nel monastero di Hornbach presso Strasburgo in Burgundia, deposizione di san Pirmino, vescovo e abate di Reichenau, che evangelizzò gli Alamanni e i Bavari, fondò molti monasteri e scrisse un libro per i suoi discepoli sulla catechesi degli incolti.


Le notizie che di questo santo sono in nostro possesso derivano da una Vita, redatta verso l'830 a Hornbach, ricca peraltro di tratti leggen­dari, da un'altra Vita di poco posteriore, ed infine da una Vita metrica di scarso rilievo storico. Altri punti di riferimento per la sua attività si trovano nella storia di alcuni monasteri da lui fondati.
Secondo queste fonti, Pirmino era originario di una regione occupata dai Visigoti, la Francia meridio­nale o la Spagna settentrionale, e approssimandosi l'invasione saracena fuggi in Francia dove fu vescovo di una località chiamata Castellum Meltis e dove predicava nelle lingue latina e franca. Si recò a Roma, dove ricevette dal papa il permesso di svolgere attività missionaria ed una raccoman­dazione per il re franco Teodorico. Fu quindi invitato da un nobile tedesco di nome Sintlaz a predicare nel suo territorio dove l'ignoranza ripor­tava i cristiani verso il paganesimo. Ricevette in dono l'isola di Sintlazau, sul lago di Costanza, che trasformò in fiorente territorio, chiamato poi Augia Dives, in tedesco Reichenau, dove nel 724 costruì una chiesa e fondò il suo primo monastero che, dopo quello di S. Gallo, doveva divenire uno dei più famosi.
Dopo tre anni di attività in questo luogo, Pirmino fondò in Alsazia il monastero di Murbach (727) cui fecero seguito Schuttern, Gengenbach e Schwar-zach, sulla riva destra del Reno, in diocesi di Strasburgo, Maursmiinster e Neuweiler sulla riva sinistra. Alcuni indicano anche come opera sua le fondazioni di Pfafers in Svizzera e Nieder-altaich in Baviera. La sua ultima fondazione fu il monastero di Hornbach, presso Zweibriicken, allora in diocesi di Metz, dove un nobile franco, Wernharius, lo aveva invitato ad istituire un mona­stero nel suo possedimento, chiamato in origine Gamundium. Qui Pirmino visse dal 742 ca. fino alla morte, avvenuta il 3 nov. 753.
Le fondazioni di Pirmino avevano tra l'altro per scopo il consolidamento della vita cristiana nel ducato alemanno, mentre in Alsazia erano anche sorte nell'interesse della politica franca mirante a legare sempre più strettamente Alemannia e Alsa­zia al regno franco dal punto di vista politico ed ecclesiastico. La vita dei monasteri fu regolata all'inizio dalla solita Regula mixta, ma un poco alla volta Pirmino ne accentuò l'influenza benedettina. Dal monastero pirminiano di Maursmiinster, infatti, doveva venire Benedetto di Amane, il quale, nel1'817, all'epoca di Ludovico il Pio, sottomise tutti i monasteri franchi all'osservanza benedettina.
Pirmino lasciò un'opera normalmente chiamata Sca-rapsus: si tratta di una specie di catechismo del­l'insegnamento e della vita cristiana, un breviario per il lavoro missionario. Scritta probabilmente intorno al 720, Pirmino l'aveva intitolata Incipit liber de singutis cannonicis scarapsus; più tardi venne chiamata Dieta Pirminii. Dopo una breve introdu­zione l'autore fa un riassunto della storia della redenzione dalla creazione del mondo e dal peccato originale alla redenzione; parla della passione, morte, risurrezione e ascensione di Gesù e della discesa dello Spirito Santo, Immagina poi che gli Apostoli redigano insieme il Credo. La prima parte dello Scarapsus si chiude con il mandato agli apostoli di evangelizzare tutto il mondo. Segue l'insegnamento sul sacramento del Battesimo, che qui appare come pactum, come contratto fra l'uomo e Dio. La seconda parte fornisce istruzioni per la vita cristiana e respinge gli usi pagani ancora in voga. Raccomanda la santificazione della domenica, la frequenza alla Messa e alla predica, l'Eucaristia e la Penitenza. Per la sua opera Pirmino si basa sulla Sacra Scrittura e sui Padri della Chiesa, soprattutto su s. Agostino, Cesario di Arles e Martino di Braga. Lo Scarapsus ci presenta il suo autore come un missionario e propagatore della fede cristiana, ed è una fonte importante per la storia della attività pastorale all'inizio del sec. VIII.
Sulla tomba di s. Pirmino a Hornbach ha inizio la sua venerazione. Già nel sec. VIII egli viene definito sanctus in un ms. di Metz del Martiro­logio Geronimiano; in un Breviario di Reichenau all'inizio del sec. IX si parla di una sua festa; la sua ultima fondazione prende nell'826 il nome di Monasterium sancii Firmimi. Miracoli e guari­gioni attirano alla sua tomba a Hornbach pelle­grinaggi di cui parla il Liber de miraculis sancii Pirminii. All'epoca della Riforma le sue reliquie vennero trasportate nella chiesa dei Gesuiti ad Innsbruck, dove fu venerato come patrono della città. La sua festa si celebrava soprattutto nei conventi benedettini della Germania meridionale e della Svizzera, ma anche nelle diocesi di Metz, Verdun e Salisburgo; ancora oggi viene celebrata a Speyer, Strasburgo, Friburgo e Coira. Era invocato dalle donne incinte e per la guarigione degli animali. A Innsbruck si benediva un'acqua « di S. Pirminio », a Holtzheim, presso Strasburgo, l'olio santo per malattie agli occhi, a Wiltz (Lussemburgo) si immergevano i bambini malati in un pozzo benedetto dedicato a s. Pirmino.
Quando nel sec. XIX Hornbach fu unito alla diocesi di Speyer, la venerazione per il santo crebbe ancora. Molte leggende, molti usi popolari si colle­gano al suo nome, specialmente nel Palatinato (dioc. di Speyer), dove nel 1953 venne celebrato solennemente il milleduecentesimo anniversario della sua morte e in tale occasione la sua tomba, nel territorio che era appartenuto una volta all'abbazia, fu trovata vuota. Il consiglio delle Chiese protestanti di Speyer fece costruire sul luogo un degno monumento.

Autore: Johannes Emil Gugumus

ICONOGRAFIA. L'iconografia di Pirmino abbraccia una vasta regione in cui più intenso fu il culto, dal Brabante al lago di Costanza, dal Palatinato al Tirolo. Altrove risulta rara ed occasionale.
Raffigurato in veste di abate benedettino, con aspetto benigno e solenne, appoggiato al pastorale, egli ha spesso accanto un serpente e una rana o un rospo, collegati alla sua leggenda e al patronato sui colpiti dal morso velenoso dei rettili. Con que­sti attributi infatti lo vediamo in una vetrata della chiesa di Reichenau» opera di Bartolomeo Luschez (sec. XVI) in cui è notevole la grandezza del pasto­rale.
Come abate benedettino lo rappresentano di­verse miniature fra cui una delle più antiche è quella del Sacramentario di Hornbach (Reichenau) del X sec, in cui il santo, in abiti pontificali, è in atto di offrire il Sacramentario stesso a s. Pietro.
Pure miniata su smalto è l'immagine di Pirmino nel medaglione centrale di un pastorale del XIV sec. proveniente da Reichenau ed ora nel Victoria and Albert Museum di Londra. Ancora una vetrata del sec. XVI, infine, nella cattedrale di Metz rappre­senta Pirmino nell'esercizio del suo ministero pastorale.



Stellina788
00mercoledì 3 novembre 2010 10:42

San Quarto Discepolo degli Apostoli

3 novembre

I secolo


Forse romano d'origine, come sembra indicare il nome latino Ouartus, Quarto si trovava a Corinto quando s. Paolo da lì scriveva la lettera ai Romani (a. 57), e mandava a quei fedeli, tra gli altri, il saluto di Quarto « nostro fratello » (Rom. 16, 23): Quarto era dunque conosciuto dai fedeli della capitale. Tradizioni antiche ne fanno uno dei settantadue discepoli e vescovo di Berytus (Beirut). La Chiesa latina celebra la sua festa al 3 nov., i sinassari bizantini lo pongono al 10 dello stesso mese ed i menei al 3 ag.
In Occidente è stato Adone ad introdurlo nel suo Martirologio alla data suddetta. Molto più tardi, in Spagna, si attribuì erroneamente a Quarto l'evangelizzazione della Betica, insieme a s. Gia­como, attribuzione dovuta alla confusione di Berytus, di cui Quarto era detto vescovo, con Baeticus.


Stellina788
00mercoledì 3 novembre 2010 10:42

Santa Silvia Madre di S. Gregorio Magno

3 novembre

VI secolo

Silvia è stata la madre di san Gregorio Magno, papa e dottore della Chiesa del VI secolo. Questi visse a Roma sul Celio in un ambiente cristiano esemplare anche grazie alla santità delle zie (cognate di Silvia) Tersilia ed Emiliana (o Amelia). La famiglia era importante anche dal punto di vista civile: il marito di Silvia, Gordiano, era un integerrimo senatore divenuto anche lui cristiano. Silvia seppe conciliare la guida della famiglia con le esigenze della radicalità evangelica. Dal figlio Gregorio traspare la sua santità. Su di lui, infatti, l'esempio e l'insegnamento della madre deve avere avuto un peso che non si può ignorare. Quando Gregorio non ebbe più bisogno he della sua guida, Silvia abbandonò il mondo e si ritirò a vita claustrale presso la basilica di San Paolo fuori le mura. Morì probabilmente verso il 590. (Avvenire)

Etimologia: Silvia = abitatrice delle selve, donna dei boschi, selvaggia, dal latino

Martirologio Romano: A Roma, commemorazione di santa Silvia, madre del papa san Gregorio Magno, che, secondo quanto lo stesso Pontefice riferì nei suoi scritti, raggiunse il vertice della vita di preghiera e di penitenza e fu per il prossimo un eccelso esempio.


Prima di tutto una mamma: tenera, affettuosa, premurosissima. E non lasciamoci impressionare se da lei ci separano suppergiù 1500 anni, perché certi valori e certe qualità sono eterni e sempre attuali. Silvia nasce intorno al 520, per alcuni a Roma, per altri a Subiaco o addirittura in Sicilia, in una famiglia di condizioni modeste. Verso i 18 anni va sposa ad un tal Gordiano, membro della gens Anicia: un personaggio in vista con rilevanti cariche pubbliche, un patrimonio più che discreto e una villa meravigliosa al Celio. Non è un’altra versione della storia di Cenerentola, ma la storia di un amore vero e di una profonda intesa spirituale che aiutano la coppia a costruire una famiglia veramente cristiana, illuminata anche dall’esempio delle due sorelle di Gordiano, che vivono in casa una vita ritirata e mortificata, quasi monastica., intessuta di preghiere e di penitenza. Non sappiamo quanti figli ebbero, perché la storia ha conservato solo il ricordo di due figli: il primogenito, Gregorio, che sarà destinato a diventare famoso, e un altro figlio di cui però non conosciamo neppure il nome.
Quel matrimonio funziona egregiamente per più di 30 anni, fino alla morte del marito, databile intorno al 573. I due figli hanno seguito le orme del padre, particolarmente Gregorio, che è diventato funzionario dell’impero bizantino, arrivando a ricoprire la carica di Prefetto di Roma. In cuore conserva però una profonda esigenza di vita spirituale e la segreta aspirazione di dedicarsi completamente alla preghiera e alla meditazione. La morte del padre accelera questa scelta definitiva ed egli trasforma la splendida villa paterna al Celio in un monastero, in cui egli entra per primo come semplice monaco, seguito da molti altri giovani romani.
La scelta di Gregorio fa capire a Silvia che ormai può considerare esaurita la dimensione domestica della sua vita e quasi in punta di piedi, discretamente, si ritira in una località dell’Aventino per potersi dedicare anche lei liberamente alla meditazione e alla preghiera. Ma non dimentica di essere mamma: pensando alla salute gracile del figlio e alla scarsa mensa monastica, con gesto di premura squisita che solo una mamma sa fare, ogni giorno prepara un piatto di legumi freschi o altra verdura del suo orto.per farla recapitare a Gregorio. Che intanto, per volere del papa, è stato ordinato diacono e sta servendo la Chiesa mettendo a frutto la sua vasta esperienza civile ed ecclesiastica, fino a che nel settembre 590 viene eletto papa.
La storia gli attribuirà il titolo di “magno”, la Chiesa lo canonizzerà e noi oggi lo conosciamo e veneriamo come San Gregorio Magno. Sua mamma fa in tempo a vederlo papa, perché muore un paio d’anni dopo. Il culto di Santa Silvia, che nelle varie fasi della sua vita di sposa, mamma e vedova sempre aveva saputo dare a Dio il primo posto, si è andato pian piano affermando nella Chiesa, che ne celebra la memoria il 3 novembre.



Stellina788
00mercoledì 3 novembre 2010 10:43

Beato Simone Ballacchi Domenicano

3 novembre

Sant’Arcangelo di Romagna, 1240 - Rimini, 3 novembre 1319

Simone era figlio di un nobile che voleva avviarlo alla carriera militare. Ma il giovane, vissuto alla fine del XIII secolo, rifutò le glorie delle armi e delle agiatezze mondane e decise di indossare l'abito di converso nel convento dei Domenicani di Rimini, dove avevano lasciato da poco il loro segno Pietro da Verona e Tommaso d'Aquino. Si dedicò da subito ai lavori più umili preferendo tra tutti la cura della terra. Il suo zelo rigoroso nel lavoro e nella preghiera, però, fu mitigato dal suo stesso superiore, intervenuto perché preoccupato per la sua stessa salute. Alla preghiera e alla penitenza, aggiunse un apostolato attivissimo, attraverso la catechesi ai fanciulli e la predicazione, nonché atti di profonda devozione e contrizione cui era mosso da profonda pietà per i peccatori. Gli ultimi anni della sua vita li trascorse infermo su un letto, a Rimini, dove morì nel 1319. I suoi resti, nel 1817, furono trasferiti nella collegiata di Sant'Arcangelo. (Avvenire)

Martirologio Romano: A Rimini in Romagna, beato Simone Balacchi, religioso dell’Ordine dei Predicatori, che condusse una vita tutta dedita al servizio dei fratelli, alla penitenza e alla preghiera.


Simone appartenne a nobile famiglia e fu da suo padre avviato alla carriera delle armi. Ma il giovane e brillante cavaliere, illuminato da Dio sulla vanità delle grandezze mondane, dato un addio alla divisa militare, chiese ed ottenne l’umile Abito di Converso nel Convento dei Domenicani di Rimini, dove tanto profumo di virtù avevano da poco lasciato Pietro da Verona e Tommaso d’Aquino. Comprese subito che il lavoro formava l’obbligo principale del suo stato, e ci si applicò con ardore indefesso. Gli uffici più umili e faticosi erano suoi, specialmente la cultura dell’orto, nella quale spendeva la maggior parte del tempo. Nonostante il peso della fatica, si alzava tutte le notti per il Mattutino, passando lunghe ore in preghiera, e sfinendosi nei digiuni, tanto che il Superiore fu costretto a intervenire per moderare tanto rigore. Con lo stesso fervore, ci tramandano le antiche cronache, per vent’anni si flagellò per la conversione degli eretici e dei peccatori. Alla preghiera e alla penitenza, aggiunse un apostolato attivissimo, catechizzando i fanciulli, esortando i peccatori e adoperandosi in mille modi per distruggere il regno del male. Le continue lacrime versate per le anime perdute gl’inaridirono gli occhi, riducendolo alla cecità all’età di cinquant’anni. Gli ultimi anni della sua vita li trascorse infermo su un letto, a Rimini, spesso circondato di luce, dove morì nel 1319. I suoi resti, nel 1817, furono trasferiti nella collegiata di Sant’Arcangelo. Papa Pio VII il 14 marzo 1820 ha concesso la Messa e l’Ufficio propri.



Stellina788
00mercoledì 3 novembre 2010 10:44

Santi Valentino e Ilario di Viterbo Martiri

3 novembre

Martirologio Romano: A Viterbo, santi Valentino, sacerdote, e Ilario, diacono, martiri.


Come tanti documenti, che in qualche modo parlano di martiri dei primi secoli, anche quello inerente i santi Valentino ed Ilario, è del secolo VIII, cioè scritto 3-4 secoli dopo il presunto periodo della loro morte e ciò comporta per questi documenti, una certezza storica ipotetica.
La ‘passio’ composta nell’VIII secolo racconta che Valentino era un prete e Ilario un diacono e durante la persecuzione di Diocleziano (243-313) furono uccisi e sepolti il 3 novembre, in un luogo chiamato “Camillarius”.
Chi fossero nella vita è difficile accertarlo, ma data la loro dignità, si potrebbe pensare che fossero addetti alla cura di una chiesa rurale e qui uccisi.
In un documento del 788 si ha qualche conferma di quanto detto, in esso si parla di una ‘cella s. Valentini in Silice’, cioè una chiesetta con sepolcro posta sulla via Cassia, a due km da Viterbo.
Ma anche se non è nominato nel documento, nella chiesetta vi era anche il corpo di s. Ilario, perché l’abate di Farfa Sicardo (831-842) li trasportò ambedue nella chiesa dell’abbazia.
I corpi dei due martiri rimasero nella celebre abbazia di Farfa, fino al secolo XV, ma alcune tradizioni di Viterbo dicono fino al 1303, quando le reliquie sarebbero state portate nella cattedrale della città.
Alcuni antichi Martirologi, portano la celebrazione al 4 novembre, mentre altri, compreso il ‘Martirologio Romano’, la portano al 3 novembre.



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