4 giugno

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Stellina788
00sabato 4 giugno 2011 09:30

Sant' Alonio Anacoreta

4 giugno

IV-V secolo


Visse nel deserto egiziano verso la fine del IV e la prima metà del sec. V, coevo, ma più anziano, degli abati del deserto Poimene (Pastore) e Agatone. Di lui si con­servano alcuni detti sparsi negli Apophtegmata Pa-trum, che lo dimostrano sagace maestro nella so­luzione di questioni sottili. In un'occasione sembra ammettere la liceità della menzogna per salvare dalla morte un criminale. Nei sinassari e nei menei greci è commemorato il 4 giugno


Stellina788
00sabato 4 giugno 2011 09:31

Beato Antonio Zawistowski e Stanislao Starowieyski Martiri

4 giugno

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+ Dachau, Germania, 4 giugno 1942

Antonio Zawistowski, sacerdote diocesano, e Stanislao Starowieyski, laico, entrambi di origini polacche morirono insieme nel lager di Dachau vittime dei nazisti. Furono beatificati da Giovanni Paolo II a Varsavia (Polonia) il 13 giugno 1999 con altri 106 martiri polacchi.

Martirologio Romano: Vicino a Monaco di Baviera in Germania, beati Antonio Zawistowski sacerdote, e Stanislao Starowieyski, martiri, che, in tempo di guerra, morirono per Cristo nel campo di prigionia di Dachau tra atroci tormenti.




Stellina788
00sabato 4 giugno 2011 09:32

San Filippo Smaldone Sacerdote

4 giugno

Napoli, 27 luglio 1848 - Lecce, 4 giugno 1923

Il beato Filippo Smaldone è stato un apostolo dei sordomuti per i quali aprì un istituto a Lecce nel 1885. Era nato a Napoli 37 anni prima e aveva vissuto le difficoltà dell'apostolato nel periodo di costruzione della nazione italiana. Già da studente di teologia si era dedicato ai sordomuti partenopei. Poi era stato trasferito a Rossano Calabro. Tornò poi a Napoli dove fu ordinato prete nel 1871. Visitava gli ammalti in ospedale, e durante un'epidemia si ammalò anche lui, ma fu guarito per intercessione della Madonna di Pompei. Andato a Lecce, fondò la Congregazione delle Suore Salesiane dei Sacri Cuori. L'opera si espanse anche a Bari e a Roma. Oltre ad aiutare le persone colpite nella voce e nell'udito per ciò che riguardava i loro bisogni materiali e spirituali, don Smaldone fu consigliere e confessore di molti sacerdoti e seminaristi. Morì a Lecce il 4 giugno del 1923 ed è beato dal 1996. (Avvenire)

Martirologio Romano: A Lecce, beato Filippo Smaldone, sacerdote, che si dedicò con ardente impegno alla cura dei sordi e dei ciechi bisognosi e alla loro formazione umana e cristiana, fondando la Congregazione delle Suore Salesiane dei Sacri Cuori.

Ascolta da RadioRai:
  

L’arco di vita di Filippo Smaldono, che si stende dal 1848 al 1923, fu contrassegnato da decenni particolarmente densi di tensioni e contrasti nei vari campi e settori della vita della società italiana, specialmente nella sua patria d’origine, e della stessa Chiesa. Nacque a Napoli il 27 luglio del 1848, l’anno dei famosi «moti di Napoli ». Quando egli era ragazzo di dodici anni, la monarchia borbonica, alla quale era fortemente attaccata la sua famiglia, conobbe il suo rovesciamento politico, e la Chiesa, con la conquista di Garibaldi, conobbe momenti drammatici con l’esilio del suo Cardinale Arcivescovo Sisto Riario Sforza. Non erano tempi certamente favorevoli e ben promettenti per il futuro, specialmente per la gioventù, che subiva il forte travaglio del nuovo corso socio-politico-religioso. Ebbene, fu in quella fase di crisi istituzionale e sociale che Filippo prese la decisione irrevocabile di ascendere al sacerdozio e di legarsi per sempre al servizio della Chiesa, che vedeva osteggiata e perseguitata. E, mentre era ancora studente di filosofia e di teologia, volle già dare un’impronta di servizio caritatevole alla sua carriera ecclesiastica dedicandosi all’assistenza di una categoria di soggetti emarginati, che erano particolarmente numerosi e fin troppo abbandonati in quei tempi a Napoli: i sordi.
In questa sua intensa attività benefica si applicò e si distinse molto più che negli studi, per cui ebbe scarso successo in alcuni esami premessi alla ricezione degli ordini Minori; ciò provocò il suo assaggio dalla arcidiocesi di Napoli a quella di Rossano Calabro, il cui Arcivescovo Mons. Pietro Cilento lo accolse generosamente in considerazione della sua bontà e del suo ottimo spirito ecclesiastico. Nonostante il cambio canonico di diocesi, — che peraltro durò solo pochi anni, perché in seguito, nel 1876, fu reincardinato a Napoli — con licenza del suo nuovo Arcivescovo, restò a Napoli, dove proseguì gli studi ecclesiastici sotto la guida di uno dei Maestri del celebre Almo Collegio dei Teologi, mentre proseguiva con immutata dedizione la sua opera di assistenza ai sordi. Mons. Pietro Cilento, che lo stimava, volle ordinarlo personalmente a Napoli suddiacono il 31 luglio 1870. Il 27 marzo 1871 fu ordinato diacono e finalmente, il 23 settembre 1871, con dispensa di alcuni mesi dall’età canonica dei 24 anni richiesti, fu ordinato sacerdote a Napoli con indicibile gaudio del suo animo buono e mite.
Appena sacerdote, iniziò un fervido ministero sacerdotale come assiduo catechista nelle cappelle serotine, che da fanciullo aveva frequentato con profitto, come collaboratore zelante in varie parrocchie, specialmente in quella di Santa Caterina in Foro Magno, come visitatore assiduo e ricercato di ammalati in cliniche, in ospedali e in case private. La sua carità raggiunse l’acme della generosità e dell’eroismo in occasione di una forte pestilenza a Napoli, dalla quale restò anche lui colpito e portato in fin di vita, e dalla quale fu guarito dalla Madonna di Pompei, che divenne la sua devozione prediletta per tutta la vita. Ma la cura pastorale privilegiata di Don Filippo Smaldone era quella per i poveri sordi, ai quali avrebbe voluto dedicare le sue energie con criteri più idonei e convenienti, diversi da quelli che vedeva applicati dagli addetti a quel settore educativo. Gli causava, infatti, grande pena che, per quanti sforzi e tentativi si facessero, l’educazione e la formazione umano-cristiana di quegli sventurati, equiparati ai pagani, di fatto, rimanevano per lo più frustrate.
Ad un certo punto, forse per dare una espressione più diretta e concreta al suo sacerdozio, pensò di partire missionario nelle missioni estere. Ma il suo confessore, che l’aveva guidato costantemente fin dall’infanzia, gli fece conoscere che la sua «missione » era fra i sordomuti di Napoli. Da allora si tuffò interamente in questo tipo di apostolato. Lasciò la casa paterna e andò a vivere stabilmente con un gruppo di sacerdoti e laici, che intendevano istituire una Congregazione di Preti Salesiani senza peraltro venirne mai a capo. Col tempo acquistò una grande competenza pedagogica nel settore e gradatamente andò progettando di realizzare lui stesso, se così al Signore fosse piaciuto, una istituzione stabile e idonea per la cura, l’istruzione e l’assistenza umana e cristiana dei sordi. Il 25 marzo 1885 partì per Lecce per aprire, insieme con Don Lorenzo Apicella, un istituto per sordi. Vi condusse alcune « suore », che egli era andato formando in precedenza, e gettò così le basi della Congregazione delle Suore Salesiane dei Sacri Cuori, che, benedetta e largamente sostenuta dai Vescovi di Lecce, Mons. Salvatore Luigi dei Conti di Zola e Mons. Gennaro Trama, ebbe una rapida e solida espansione. All’istituto di Lecce, con sezioni femminile e maschile, che ebbe sedi sempre più ampie per il crescente numero degli assistiti fino all’acquisto del celebre ex-convento delle Scalze, che divenne la sede definitiva e Casa Madre, fece seguito nel 1897 quello di Bari.
Poiché il cuore compassionevole del sacerdote Smaldone non sapeva dire di no alle richieste di tante famiglie povere, ad un certo punto cominciò ad ospitare, oltre le sorde, anche le fanciulle cieche e le bambine orfane ed abbandonate. Né dimenticava i bisogni umani e morali della gioventù in genere. Aprì, infatti, diverse case con annesse scuole materne, con laboratori femminili, con pensioni per studentesse, tra le quali una anche in Roma. Durante la sua vita, l’Opera e la Congregazione, nonostante le dure prove, cui andò soggetta sia dall’esterno sia dall’interno medesimo, conobbero un discreto allargamento e consolidamento. A Lecce dovette sostenere una furibonda lotta da parte di una Amministrazione Comunale laica e avversa alla Chiesa. All’interno poi conobbe l’amarezza di una delicata e complessa vicenda di secessione da parte della prima Superiora Generale, che provocò una lunga Visita Apostolica. Fu soprattutto in questi due gravi frangenti che rifulsero le virtù esimie dello Smaldone, ed apparve che la sua fondazione era voluta da Dio, il quale purifica con la sofferenza i suoi figli migliori e le opere nate nel suo nome. Per circa un quarantennio Don Filippo Smaldone fu sempre sulla breccia senza tirarsi mai indietro, prodigandosi in tutti i modi per sostenere materialmente ed educare moralmente i suoi cari sordi, verso i quali aveva affetto e cure di padre, e per formare alla vita religiosa perfetta le sue Suore Salesiane dei Sacri Cuori.
A Lecce, oltre alla universale benemerenza come direttore dell’Istituto e fondatore delle Suore Salesiane, ebbe anche quella di un intenso, molteplice ministero sacerdotale. Fu assiduo e stimato confessore di sacerdoti e seminaristi, confessore e direttore spirituale di diverse comunità religiose, fu fondatore della Lega Eucaristica dei Sacerdoti Adoratori e delle Dame Adoratrici, fu Superiore della Congregazione dei Missionari di San Francesco di Sales per le missioni popolari. Non per nulla fu decorato della Croce pro Ecclesia et Pontifice, annoverato tra i canonici della cattedrale di Lecce, decorato da una Commenda dalle Autorità civili. Finì i suoi giorni a Lecce, sopportando con ammirata serenità, una diuturna malattia diabetica complicata da disturbi cardiocircolatori e da generale sclerosi. Si spense santamente alle ore ventuno del 4 giugno 1923, dopo aver ricevuto tutti i conforti religiosi e la benedizione dell’Arcivescovo Trama, attorniato da diversi sacerdoti, dalle sue Suore e dai sordi, all’età di 75 anni. È stato beatificato da Giovanni Paolo II il 12 maggio 1996.

E stato canonizzato dal papa Benedetto XVI il 15 ottobre 2006, a Roma in Piazza san Pietro.



Stellina788
00sabato 4 giugno 2011 09:33

San Francesco Caracciolo Sacerdote

4 giugno

Villa S. Maria, Chieti, 13 ottobre 1563 - Agnone, Isernia, 4 giugno 1608

Si chiamava Ascanio Caracciolo e aveva il recapito presso la Congregazione dei Bianchi della Giustizia, che si dedicava all'assistenza dei condannati a morte, dove operava anche un altro sacerdote suo omonimo. Un giorno giunse una lettera, scritta dal genovese Agostino Adorno e da Fabrizio Caracciolo, abate di Santa Maria Maggiore di Napoli. I due si rivolgevano ad Ascanio Caracciolo - ma a quale dei due? - per chiedergli di collaborare alla fondazione di un nuovo Ordine, quello dei Chierici Regolari Minori. Il postino recapitò la lettera al giovane sacerdote, nato il 13 ottobre 1563 a Villa Santa Maria di Chieti e trasferitosi a Napoli a ventidue anni di età per completarvi gli studi teologici. All'eremo di Camaldoli scrisse la Regola, approvata poi nel 1588. L'anno dopo Ascanio emetteva i voti religiosi assumendo il nome di Francesco. Nel 1593 la piccola Congregazione tenne il primo capitolo generale e Francesco dovette accettare per obbedienza la carica di preposito generale. Intanto la congregazione approdava a Roma, alla chiesa di Sant'Agnese in piazza Navona. Francesco morì il 4 giugno 1608. (Avvenire)

Patronato: Napoli

Etimologia: Francesco = libero, dall'antico tedesco

Martirologio Romano: Ad Agnone in Molise, san Francesco Caracciolo, sacerdote, che, mosso da mirabile carità verso Dio e il prossimo, fondò la Congregazione dei Chierici regolari Minori.

Ascolta da RadioVaticana:
  
Ascolta da RadioMaria:
  

Questo santo nacque il 13-10-1563 a Villa Santa Maria (Chieti), dalla nobile e ricca famiglia dei Caracciolo, celebre nella storia per i cardinali e i vescovi dati alla Chiesa, per i guerrieri e i governatori forniti alla patria. Fin dall'infanzia, Ascanio si sentì attratto verso l'Eucaristia e nutrì una tenera devozione alla Madonna che onorava portando l'abitino del Carmine, recitando il rosario e l'ufficio, digiunando rigorosamente ogni sabato, anche tra gli esercizi cavallereschi. Da giovane esercitò una grande carità verso i poveri per i quali chiedeva soccorsi al padre o si privava della migliore parte dei suoi alimenti.
A 22 anni fu colpito da una gravissima elefantiasi che lo deturpò in tutto il corpo. Alla considerazione della vanità dei beni terreni, egli propose di lasciare il mondo se avesse recuperato la salute. Il suo voto fu esaudito. Dopo aver distribuito ai poveri quanto era di suo uso, si recò a cavallo a Napoli, per lo studio della teologia. Nei tempi liberi, vestito dell'abito ecclesiastico, visitava le chiese meno frequentate, per darsi più facilmente all'orazione. Fu ordinato sacerdote a 24 anni. Benché così giovane, il santo esercitò subito il sacro ministero tra i reclusi nelle prigioni e i malati negli ospedali. Nei processi si legge che ne sanò molti facendo un semplice segno di croce sulla loro fronte. Se qualcuno ardiva ringraziarlo, esclamava: "Fratello, datene grazia a Dio e non a me, che sono il più tristo e malvagio peccatore che si trovi".
Quando scriveva qualche lettera, si firmava abitualmente: Francesco peccatore. A Napoli, nell'ospizio degl'Incurabili, sorgeva la Compagnia dei Bianchi per l'assistenza ai condannati a morte e ai galeotti. Il Caracciolo chiese di farne parte (1588). Verso quel tempo un nobile genovese, Don Agostino Adorno, e Don Fabrizio Caracciolo, abate di Santa Maria Maggiore di Napoli, lo scelsero come compagno per la fondazione dell'Ordine dei Chierici Regolari Minori. Ai i soliti tre voti, ne aggiunsero un quarto, di non ricevere cioè dignità ecclesiastiche. Il loro scopo era di erigere collegi per l'educazione della gioventù, ed eremitaggi per i membri che avessero preferito condurre vita contemplativa. Per redigere le costituzioni, si ritirarono 40 giorni presso i Camaldolesi di Napoli. Mentre a Roma essi ne attendevano l'approvazione da parte del papa Sisto V, il Santo andava pellegrinando da una basilica all'altra, mendicando alle porte dei conventi e dormendo con un lebbroso nella portineria dei Cappuccini.
Di ritorno a Napoli essi ottennero l'uso dell'Oratorio dei Bianchi nel quale fecero la professione religiosa il 9-4-1589. Per la grande devozione che il Caracciolo nutriva verso il Poverello d'Assisi, cambiò il nome di battesimo con quello di Francesco. Ben presto numerosi sacerdoti abbracciarono quel loro genere di vita che comportava la recita dei divino ufficio in comune e l'adorazione perpetua a turno del SS. Sacramento. La loro prima sede a Napoli fu la chiesa parrocchiale della Misericordia.
L'Adorno, che aveva importanti affari da regolare in Spagna, dov'era già stato come ambasciatore straordinario della sua Repubblica, volle condurre Francesco con sé (1589) nell'intento di stabilirvi l'Ordine. Il loro soggiorno a Madrid non approdò a nulla. Ritornati un anno dopo in patria, Francesco si ammalò gravemente, e l'Adorno morì (1591) dopo aver trasferito l'Ordine alla chiesa di Santa Maria Maggiore in Napoli e averlo fatto confermare da Gregorio XIV. Il Caracciolo ne fu eletto Preposito Generale perpetuo, ma egli, nella sua umiltà, non accettò la carica che per tre anni. Ricusando tutti gli onori inerenti ad essa, continuò a questuare per soccorrere i poveri, a portare le vesti lise rifiutate dagli altri religiosi, a servire gl'infermi, a rassettare i letti, a pulire la chiesa, a scopare la casa, a scegliere per sé le stanze più disadorne e scomode. Quando si recava nelle città in cui non c'erano i suoi religiosi, ai ricchi palazzi di ammiratori e congiunti preferiva le portinerie dei conventi o le corsie degli ospedali nei quali si prestava a lavare panni e a rattoppare vesti.
Nel 1594, il Santo ripartì per Madrid dove, nell'attesa di aprire una casa, albergò nell'ospedale degli Italiani e si mise al servizio degl'infermi. Poco mancò che rapporti di malevoli al re Filippo II ne provocassero la chiusura, ma Dio era con lui. In un viaggio che fece dall'Escoriale a Madrid, il Santo cadde sfinito ai margini della strada per l'eccessivo dolore ad una gamba. All'improvviso gli si presentò un giovane che si offerse ad accompagnarlo con il suo cavallo fino al di lui Istituto. Smontato di sella, Francesco si voltò per ringraziare il generoso benefattore, ma cavallo e cavaliere erano già scomparsi. Quando ritornò in Italia (19-6-1596), a Roma i suoi religiosi avevano ottenuto la Chiesa di S. Leonardo che, due anni dopo, cambiarono con S. Agnese a piazza Navona. Andò a visitare la nuova sede e, nel ritornare a Napoli, passò per il suo paese natale. I concittadini gli manifestarono la loro ammirazione inginocchiandosi al suo passaggio e baciandogli le mani. Confuso per quei segni di stima, egli prese un crocifisso, s'inginocchiò sulla pubblica piazza e confessò i cattivi esempi che aveva dato in gioventù.
Nel capitolo del 1597 S. Francesco fu ancora rieletto Priore generale . Convinto di essere un servo inutile, per ubbidienza accettò di rimanere in carica ancora un anno, poi fu eletto Proposito di Santa Maria Maggiore in Napoli e Maestro dei Novizi. Dotato del dono di profezia e del discernimento degli spiriti, più volte a giovani secolari predisse la vocazione allo stato religioso, ad altri l'apostasia. Grazie ad un Breve di Clemente VIII, Filippo II era diventato più favorevole a Chierici Minori e suo figlio, Filippo III, che gli era succeduto, era pronto non solo a ricevere Francesco, ma ad offrirgli dignità ecclesiastiche. Il santo partì dunque ancora una volta per la Spagna con 4 confratelli. Nel 1601 fondò una casa a Valladolid e un collegio di studi presso l'Università di Alcalà. Poi fu eletto maestro dei novizi a Madrid, e nel 1604 fu mandato in Italia in qualità di Visitatore delegato.
L'anno seguente accettò, per ubbidienza, l'ufficio di Vicario generale in Italia e di Proposito della Casa di Santa Maria Maggiore in Napoli; nel 1606 ottenne da Paolo V, che avrebbe voluto farlo vescovo, la chiesa di San Lorenzo in Lucina in Roma dove stabilì opere di zelo e compì segnalati prodigi; nel 1607, ottenuta l'esenzione da ogni carica, si diede ad una vita di maggior austerità. Nella bolla di canonizzazione è detto che niente a Francesco fu più dolce che il parlare di Dio, niente fu più abituale che l'esortare all'amore di lui, motivo per cui veniva chiamato il promotore e il predicatore del divino amore. In lui, il fuoco della divina carità era talmente grande che gli traspariva anche dal volto. Fu solito protrarre l'adorazione del SS. Sacramento per intere notti, durante le quali s'infiammava e versava abbondanti lacrime.
Per promuovere il culto dell'Eucaristia, stabilì che gli alunni del suo Ordine ogni giorno, a turno, s'avvicendassero nell'adorare il SS. Sacramentato. Questo pio esercizio volle che fosse il loro principale distintivo. Non si stancava mai di esortare i sacerdoti a celebrare ogni giorno la Messa e i fedeli a comunicarsi frequentemente, di promuovere l'esposizione del SS. Sacramento in forma di Quarantore a ogni prima domenica del mese. Per questa sua pietà eucaristica i vescovi dell'Abruzzo lo dessero a protettore del movimento eucaristico della loro regione.
La veemenza degli affetti e le abbondanti lacrime versate impedivano al santo di proseguire la celebrazione della Messa. Tornando in sacrestia domandava umilmente perdono dello scandalo che credeva avere dato con quelle interruzioni. I fedeli, invece, ne rimanevano edificati. Un giorno, mentre celebrava in Alcalà con il suo solito fervore, accese in una sua penitente il desiderio di comunicarsi con un fragmento dell'ostia da lui consacrata. Iddio si compiacque di esaudirla palesemente con grande meravigliata dei circostanti.
Il grande amore che il Caracciolo nutriva per il Signore si riversava sul prossimo. Era tanta la sua sollecitudine per la conversione dei peccatori, delle meretrici e dei condannati a morte che lo chiamavano "il cacciatore delle anime". Era talmente sollecito a visitare gl'infermi, ad assistere i moribondi, a raccogliere elemosine per provvedere all'educazione o al matrimonio delle fanciulle che lo chiamavano "il padre dei poveri". Era talmente infaticabile nell'ascoltare le confessioni, nel fare la dottrina ai fanciulli, nel predicare le verità eterne ai fedeli, nell'organizzare Pie Congregazioni che lo chiamavano "l'uomo di bronzo".
Pur essendo di costituzione infermiccia, viaggiava sempre a piedi, viveva di elemosine e non si riparava dalle intemperie anche se gli causavano catarri eccessivamente penosi. Nel camminare teneva sempre gli occhi fissi a terra. Non fu mai visto alzarli per guardare le donne, fossero pure parenti. Di notte si disciplinava con corde tramezzate di spille e rosette di ferro fino a tramortirne. Prendeva tre o quattro ore di sonno, vestito, sopra nude assi o un ruvido saccone dopo aver a lungo meditato sulla passione di Gesù e pregato con le braccia distese a forma di croce. Il santo indossava ogni venerdì e le vigilie delle feste principali, un cilicio a forma di giubbone, tessuto di peli irsuti, con il quale fece pure lunghi viaggi fino a sanguinarne. Ai fianchi portava cinte di setola e catenelle, quando l'ubbidienza glielo permetteva. Dopo la morte gli fu trovata sul petto una piastra di ferro, forata e internata talmente nelle carni che non si vedeva quasi più. Frugalissimo nel vitto, soleva lasciare a mensa le pietanze che più gli piacevano. Digiunava a pane e acqua tre giorni la settimana, le vigilie e dal primo al quattordici agosto in onore dell'Assunta.
Nel 1608, Francesco si recò con il fratello teatino, P. Antonio, ad Agnone (Campobasso), chiamatovi dai Padri Filippini, desiderosi di unirsi all'Ordine da lui fondato. Giunto da Loreto alle porte della cittadina, esclamò d'improvviso: "Ecco il luogo del mio riposo". Fu assalito tosto da così violenta febbre che fu costretto a mettersi a letto. Riuscì ancora a ricevere il Viatico in ginocchio, ma poco dopo cadde in agonia. Le sue ultime parole furono: "Andiamo, andiamo!". Gli fu chiesto dove voleva andare. Con voce forte egli rispose: "Al cielo, al cielo".
Morì il 4-6-1608 dopo aver invocato in modo speciale San Michele, San Giuseppe e San Francesco d'Assisi. Le espressioni che maggiormente risuonarono sul suo labbro furono: "Sangue preziosissimo del mio Gesù, tu sei mio, e per te e con te soltanto spero di salvarmi. O sacerdoti, sforzatevi di celebrare la Messa ogni giorno e di inebriarvi di questo sangue!". Tre giorni dopo la morte fu fatta l'autopsia del suo corpo. Attorno al cuore di lui furono trovate impresse le parole: "Lo zelo della tua casa mi ha consumato!".
Il Caracciolo fu beatificato da Clemente XIV il 4-6-1769 e canonizzato da Pio VII il 24-5-1807. Le sue reliquie furono traslate a Napoli e collocate nella chiesa detta di Monteverginella.



Stellina788
00sabato 4 giugno 2011 09:33

Beato Francesco Pianzola Sacerdote

4 giugno

Sartirana (Pavia), 5 ottobre 1881 - Mortara (Pavia), 4 giugno 1943


Nato a Sartirana Lomellina, in provincia di Pavia, il 5 ottobre 1881, Francesco viene a contatto già da piccolo alle fatiche e alle sofferenze degli agricoltori, dei braccianti agricoli e soprattutto delle mondariso che giungono da lonatno in Lomellina per trovare lavoro.
Ragazzo pio, aperto e riflessivo, sente nascere in sè la vocazione sacerdotale. Studia presso il Seminario di Vigevano (PV) e il 16 marzo 1907 viene ordinato sacerdote.
Da sacerdote, Francesco non dimentica i lavoratori dei campi, e, la passione di essere annunciatore del Vangelo nella sua terra, prediligendo gli umili, i dimenticati delle campagne e ora anche delle fabbriche, lo spinge alla predicazione itinerante rivolgendosi al popolo e ai giovani.
Dal contatto vivo e profondo con la sua gente, della quale conosce la fame di verità e dalla conoscenza sofferta della situazione della donna dei campi e nelle fabbriche, percepisce la voce di Dio che lo chiama a realizzare nuove iniziative apostoliche al fine di arrivare a tutti e spezzare per ciascuno il pane del Vangelo.
Fonda perciò la Congregazione delle Suore Missionarie dell'Immacolata Regina della Pace, stabilendo la casa madre a Mortara, il "capoluogo" della Lomellina, perchè "piccoli e poveri Gesù, serve di anime povere" andassero a cercare i più lontani nelle fabbriche e in campagna, nei cortili, nelle periferie, per assisterli e confortarli, per ripetere "con semplicità e amore" la Parola che salva, collaborando al sacerdozio cattolico.
Padre Pianzola, circondato da grande affetto e fama di santità, consumato dalle fatiche e dalla carità, muore nella casa generalizia delle sue suore a Mortara il 4 giugno 1943, dove oggi riposa.
E' stato definito: " l'apostolo della Lomellina" dalle autorità ecclesiali, e semplicemente della gente: "al pref sant di mundini", il prete santo delle mondine.
Papa Benedetto XVI lo ha dichiarato "venerabile" il 26 giugno 2006 e proclamato beato il 4 ottobre 2008 nel Duomo di Vigevano dal cardinale Josè Saraiva Martins, prefetto emerito della Congregazione per le Cause dei Santi, davanti ad una folla di 6 mila persone.



Stellina788
00sabato 4 giugno 2011 09:34

San Gualterio Abate

4 giugno

sec. VIII

Martirologio Romano: A Servigliano nelle Marche, san Gualterio, abate del monastero del luogo.



Stellina788
00sabato 4 giugno 2011 09:35

Beata Menda Isategui Vergine mercedaria

4 giugno

Illustre religiosa mercedaria e gloria del monastero di Santa Maria della Pietà in Marquina (Spagna), la Beata Menda Isategui, visse per 80 anni nella preghiera e nell’austerità. Dio le concesse il dono delle guarigioni e le sue preghiere ridavano la salute ai malati quando le medicine erano impotenti .
Si alimentava e si sosteneva quasi esclusivamente del solo cibo eucaristico perché per i suoi pasti si accontentava soltanto di pochi legumi. Da parte del demonio ebbe a soffrire grandi prove perché per i suoi pasti si accontentava soltanto di pochi legumi. Da parte del demonio ebbe a soffrire grandi prove perché la tentava continuamente facendo sorgere nel suo cuore orribili dubbi. Finché provata da molte infermità e assistita dagli angeli all’arrivo dello Sposo entrò con lui alle nozze eterne.
L’Ordine la festeggia il 4 giugno.




Stellina788
00sabato 4 giugno 2011 09:35

San Metrofane di Bisanzio Vescovo

4 giugno

+ Costantinopoli, 325 circa

Martirologio Romano: A Costantinopoli, san Metrófane, vescovo di Bisanzio, che consacrò al Signore la Nuova Roma.


La tradizione vuole che sia stata proprio la vita del santo vescovo Metrofane uno dei principali motivi che portarono l’imperatore San Costantino il Grande a scegliere proprio Bisanzio quale nuova capitale dei possedimenti romani. I sinassari greci considerano Metrofane di stirpe nobile, probabilmente figlio Domezio, fratello dell’imperatore Probo.
Convertitosi al cristianesimo, Domezio si trasferì a Bisanzio con tutta la sua famiglia, allora piccola città sul Mar di Marmara. Ricevette l’ordinazione presbiterale dal suo amico Tito, vescovo di Eraclea, ed alla sua morte ne divenne il successore. A sua volta fu poi sostituito dai suoi figli: prima il primogenito Probo, così chiamato in onore dello zio imperatore, e poi dall’ultimogenito Metrofane.
Non è storicamente accertabile se la cattedra episcopale venne poi spostata a Bisanzio, oppure semplicemente sdoppiata quando nella nuova capitale si insediò la corte di Costantino. In tale periodo Metrofane era già sicuramente vescovo della città, della quale era considerato primate.
L’età ormai avanzata e la salute malferma gli impedirono di partecipare direttamente al concilio di Nicea, per cui delegò il sacerdote Alessandro, che nominò anche suo successore.
Secondo quanto tramandò Fozio, Costantino si recò al capezzale del santo vescovo morente, che gli raccomandò la successione al soglio patriarcale per Alessandro ed in un secondo momento per il giovane lettore Paolo, suo assistente. Sette giorni dopo la visita imperiale, nel 325 circa Metrofane spirò e Sant’Atanasio, allora giovane diacono, esclamò: “Ecco il nobile campione di Cristo”.
Tutta la cristianità orientale venera in Metrofane un grande santo, commemorato comunque anche dal Martyrologium Romanum in data odierna. In suo onore subito dopo la scomparsa di Costantino venne edificata una chiesa, restaurata poi da Giustiniano nel VI secolo.



Stellina788
00sabato 4 giugno 2011 09:36

Santi Nicola e Trano Anacoreti

4 giugno

Martirologio Romano: In Sardegna, santi Nicola e Trano, eremiti.



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00sabato 4 giugno 2011 09:37

Sant' Ottato di Milevi Vescovo

4 giugno

m. Milevi (Africa), fine IV secolo

A capo della diocesi di Milevi, nel Nordafrica, si distinse nella lotta ai donatisti. Scrisse diverse opere, tutte molto apprezzate da Sant'Agostino.

Martirologio Romano: A Mila in Numidia, nell’odierna Algeria, commemorazione di sant’Ottato, vescovo, che con i suoi scritti contro l’eresia donatista sostenne l’universalità della Chiesa e il profondo bisogno di unità dei cristiani.


Vescovo cattolico vissuto all’epoca dei papi Damaso e Siricio, ma anche santo celebrato il 4 giugno dal Martyrologium Romanum, Ottato di Milevi fu il primo fiero avversario del donatismo. Una solida preparazione culturale che spaziava dall’esegesi biblica alla teologia, senza disdegnare discipline propriamente profane come la retorica e la giurisprudenza, deve aver sostenuto quell’ecclesiastico mentre si cimentava nella sua attività letteraria e pastorale.
Di fronte al rifiuto della Chiesa dissidente di partecipare a un pubblico contraddittorio, il vescovo di Milevi rispose all’Adversus ecclesiam traditorum del già famoso Parmeniano con l’Adversus donatistas. Verosimilmente tra il 364 e il 367, subito dopo aver assunto la carica episcopale (361-363), egli sentì l’esigenza di confutare il vescovo scismatico di Cartagine, per arginare il crescente prestigio che la Chiesa dissidente stava traendo dalla politica filo-pagana di Giuliano, e molto probabilmente quando il vicario dell’Africa Flaviano, convinto restauratore del paganesimo, veniva nominato praefectus praetorio Italiae Illyrici et Africae (383), e molti approfittavano della situazione per screditare ulteriormente i successori di Ceciliano, decise di rivedere e approfondire quello che aveva già scritto. Il suo Adversus donatistas, che ci è giunto con un’Appendix di dieci documenti ecclesiastici e civili relativi agli anni immediatamente successivi allo scisma, analizza i prodromi dello scisma (libro I), mette a fuoco gli elementi costitutivi della vera Chiesa (libro II) e cerca di ricostruire le dinamiche che nel 347 provocarono l’intervento armato dell’impero contro la Chiesa donatista (libro III). Inoltre alla luce del fatto che solo Dio può effettivamente giudicare le coscienze degli uomini, dedica ampio spazio alla definizione di chi sia il peccatore (libro IV), ma si occupa anche dettagliatamente del battesimo (libro V), degli atti sacrileghi commessi dai donatisti (libro VI), per concludere con un appello all’unità e di conseguenza al perdono dei cosiddetti traditores, vale a dire di quegli ecclesiastici che durante la persecuzione di Diocleziano avevano consegnato i libri sacri alle autorità imperiali (libro VII).
La lotta al donatismo doveva essere la preoccupazione dominante di Ottato, che nell’arco di vent’anni sembra aver lavorato esclusivamente alla composizione dell’Adversus donatistas. Del resto se già Girolamo (De viris illustribus 110, TU 14/1, p. 50) ci riferisce che egli scrisse solo quell’opera contro il donatismo, di tutti gli scritti di incerta paternità, quali sono i Sermones sul Natale, sull’Epifania e sulla Pasqua, che sulla base di varie affinità contenutistiche e stilistiche in passato gli sono stati attribuiti, si può dire ormai conclusa in senso negativo la questione della paternità. Il Sermo sul Natale che comincia con le parole Advenit ecce dies qua sacramentum (PLS 1, cc. 288-294) è risultato opera di un anonimo donatista, i Sermones sull’Epifania che comin¬ciano con le parole Meminit sanctitas vestra, dilectissimi fratres, ante paucos dies (Revue Bénédictine 35 [1923], pp. 233-236), Sicut dies hodiernus anniversario reditu (PL 39, cc. 2005-2007) e Domini et Salvatoris nostri Iesu Christi adventus (PL 39, cc. 2007-2008), in quanto dipendenti dal Sermo 199 di Agostino, sono stati datati con sicurezza dopo il IV secolo, e i Sermones sulla Pasqua che cominciano con le parole Solemne tempus devota religione peregrinus (PLS 1, cc. 295-296) e Maria veniens ad Christi Domini monumentum (Revue Bénédictine 80 [1970], pp. 42-46), già inizialmente valutati con molte riserve, in questi ultimi anni non sono mai stati più attribuiti all’autore dell’Adversus donatistas.
In effetti vari studiosi hanno notato che la Numidia dopo Costantino si stava trasformando in una roccaforte del donatismo, ma di Ottato, che pure è stato ritenuto come “un vescovo cattolico di venerabile memoria” e un “santo” di notevole statura morale, non sappiamo quasi nulla. Stando ancora a Girolamo (ibidem), poteva essere nato in Africa, magari nella stessa città che ospitava il suo seggio episcopale (Milevi l’attuale Mila in Algeria), allora piccolo centro lontano dalle principali vie di comunicazione, ma già intorno al 385, quando sembra aver portato a termine la seconda redazione dell’Adversus donatistas, si perdono le sue tracce. Agostino nel Contra epistulam Parmeniani (I,3,5, CSEL 51, p. 24) si riferì con profondo rispetto all’autorità di Ottato, venerabilis memoriae Milevitanus episcopus catholicae communionis Optatus, nell’Epistula ad catholicos (19,50, CSEL 52, p. 297) lo ricordò insieme ad Ambrogio, e nel De doctrina christiana (II,40,61, CCL 32, p. 74) parlò di lui a proposito di una serie di autori cattolici provenienti dal paganesimo, che potevano essere paragonati agli Israeliti che nell’Esodo avevano portato l’oro e l’argento degli egiziani, cioè i tesori della cultura pagana. Quindi Fulgenzio di Ruspe nell’Ad Monimum (II,15,2, CCL 91, pp. 51-52) qualificò Ottato come sanctus e lo additò ai fedeli come un valido esempio accanto ad Agostino. Infine Onorio di Autun nel De scriptoribus ecclesiasticis (I,111, PL 172, c. 208) dichiarò che verso il 1122 era ancora venerata la sua memoria. Tuttavia nessuno di questi autori si è pronunciato esplicitamente su qualche aspetto di carattere biografico. Solo la testimonianza del De doctrina christiana lascia pensare che Ottato, prima di convertirsi al cattolicesimo e intraprendere la carriera ecclesiastica, sia vissuto in una fami¬glia pagana e abbia ricevuto una formazione culturale di tipo profano.
Sicuramente per quanto si può dedurre da vari accenni sparsi qua e là nell’Adversus donatistas, non sembra fuori luogo definire il vescovo e santo di Milevi come un personaggio di elevato spessore culturale, ben informato sui temi pastorali e teologici che si dibattevano al suo tempo, anche se spesso è stato liquidato come figura secondaria e di poco conto nella temperie storico-letteraria della seconda metà del IV secolo.


Stellina788
00sabato 4 giugno 2011 09:38

Beato Pacifico Ramati da Cerano

4 giugno

Cerano, Novara, 1426 - Sassari, 1482

Nato nel 1426 a Cerano, nel Novarese, Pacifico Ramati rimase orfano dei genitori in tenera età venendo accolto nel monastero di San Lorenzo dei Benedettini. Scelse a sua volta la vita religiosa, ma optò per l'Ordine dei Frati Minori Francescani, entrando nel convento di San Nazario della Costa. Diventato sacerdote, conseguì il dottorato alla Sorbona di Parigi per poi tornare in Italia dove si fece apprezzare per la capacità predicatoria tanto da essere definito «oratore apostolico famosissimo». Molto attivo contro l'ignoranza religiosa pubblicò una «Summa pacifica» in lingua volgare per raggiungere il maggior numero di persone. La sua opera apostolica si svolse soprattutto in Piemonte e Lombardia ma anche in Sardegna dove fu inviato nel 1471 da papa Sisto IV e poi nel 1480 durante l'invasione araba di Maometto II. Morì il 4 giugno 1482 a Sassari e fu sepolto a Cerano. Benedetto XIV ne approvò il culto il 12 maggio 1746.

Etimologia: Pacifico = mansueto, mite, significato evidente

Martirologio Romano: A Sassari, beato Pacifico Ramati, sacerdote dell’Ordine dei Minori, che predicò in difesa dei cristiani e morì nel Signore.


Nativo di Cerano in provincia di Novara, Pacifico Ramati rimase orfano dei genitori in tenera età, accolto nel monastero di S. Lorenzo dei Benedettini, fu educato dal superiore agli studi e all’amore per il prossimo.
Ormai giovane, alla morte del superiore-benefattore, scelse di rimanere nello stato religioso, ma preferendo però l’Ordine dei Minori Francescani, entrando così nel celebre convento di S. Nazario della Costa già culla di futuri santi dell’Ordine.
Divenuto sacerdote fu inviato dai superiori alla Sorbona di Parigi, dove ottenne il dottorato, ritornato in Italia, si dedicò alla predicazione con fervore e competenza, sì da essere considerato un altro s. Bernardino e soprannominato “oratore apostolico famosissimo”.
Combatté l’ignoranza religiosa sia dei fedeli che del clero, soprattutto in materia di penitenza. Scrisse una Summa pacifica pubblicata nel 1474 in lingua volgare così da poter essere alla portata di tutti. La sua opera si svolse in particolare in Piemonte e Lombardia, ed a Cerano dove tornava spesso, fece erigere una cappella alla Madonna per accrescerne la devozione; nel 1471 papa Sisto IV lo mandò in missione speciale in Sardegna e poi una seconda volta nel 1480 durante l’invasione araba di Maometto II, con l’incarico di organizzare una crociata speciale contro i turchi.
Dopo due anni di fecondi sforzi missionari, il 4 giugno 1482, morì a Sassari consumato dalle fatiche apostoliche. Esaudendo i suoi desideri, il suo corpo fu sepolto a Cerano; è stato considerato dagli studiosi “insigne per dottrina e santità, conforto e presidio della sua patria”.
Benedetto XIV ne approvò il culto il 12 maggio 1746.



Stellina788
00sabato 4 giugno 2011 09:38

San Petroc Abate

4 giugno

VI secolo

Emblema: Bastone

Martirologio Romano: In Cornovaglia, san Petroc di Galles, abate.


Parecchie chiese del Devon ed in Cornovaglia portano il nome di San Petroc (o Pedrog), il cui culto è assai antico e ben radicato, nonostante scarseggino fonti scritte sul suo conto, ritenute tardive ed assai leggendarie.
Probabilmente Petroc era un principe gallese, figlio di un re o di un capo tribù, e William Worcestre ne parlò come di un sovrano della Cumbria, visitando il suo sepolcro nel XV secolo. Petroc si trasferì nel sud dell’isola britannica con alcuni compagni e si stabilì nel monastero di Lanwethinoc, così denominato dal nome del fondatore Wethinoc, ed in seguito conosciuto come Petrocstowe, l’odierno Padstow, con il diffondersi del santo oggi festeggiato. Altri due luoghi, Little Petheric e Trebetheric, portano questo nome. La “Vita” medioevale, redatta nell’abbazia di Saint-Méen e forse copiata da una più antica del priorato di Bodmin, racconta che Petroc ed i suoi compagni studiarono per vent’anni in Irlanda, come asserito anche dalla “Vita” di San Kevin. Terminato il periodo di formazione, s’imbarcarono all’estuario del fiume Camel, giungendo a stabilirsi a Lanwethinoc. Qui Petroc condusse per trent’anni una vita molto austera, interrotta solamente da un pellegrinaggio a Roma ed a Gerusalemme.
Di ritorno dal lungo pellegrinaggio, disse ai suoi monaci che la tormenta che colpiva la regione sarebbe terminata il giorno seguente, ma poiché il vento e la pioggia non cessarono, pensò di essere stato troppo presuntuoso nel credere che lo Spirito Santo l’avesse ispirato. Riprese allora la strada per Gerusalemme, in segno di penitenza, ed in questo secondo viaggio raggiunse secondo Nicholas Roscarrock “l’Oceano orientale”, forse il golfo di Aqaba.
Una “Vita” più antica, scritta da Giovanni di Tynmouth, che gli Acta Sanctorum classificano quale “vita suspecta”, narra che arrivò sino in India, ove in riva la mare vide volteggiare sopra di lui un globo splendente che lo trasportò in un’isola ove trascorse ben sette anni. Trascorso tale periodo il medesimo globo lo riportò dove lo aveva prelevato e sulla spiaggia trovò un lupo a custodire il bastone e la pelle di pecora che aveva lasciato lì. Non si possono però non notare molti parallelismi tra questa storia e parecchi racconti mitologici classici.
Ritornato infine in Cornovaglia, Petroc occupò il suo tempo con la preghiera e compiendo opere di carità. Crebbe così la sua fama di santità e molte leggende folcloristiche della Cornovaglia sorsero sul suo conto: guarì parecchi ammalati, salvò la vita ad un cervo durante una caccia e convertì il cacciatore ed i suoi assistenti, ammansì un mostro locale ed ordinò un medicamento per un drago presentatosi a lui con una scheggia in un occhio.
Particolari più convincenti sono contenti in un’altra versione della sua vita, proveniente dall’abbazia di Saint-Méen e scritta da un canonico di Bodmin: essa è inclusa in un manoscritto del XIV secolo scoperto a Ghota in Germania nel 1937 e conosciuto come “Vita di Ghota”. Da essa si apprende che Petroc fece edificare una cappella ed un mulino presso Little Petherick, ove aveva stabilito una seconda comunità monastica. In seguito si ritirò in un luogo remoto sul Bodmin Moor, ma nuovamente alcuni fratelli non resistettero ad unirsi a lui.
Rendendosi conto dell’approssimarsi della fine della sua vita, decise di visitare per un’ultima volta Little Petherick e Lanwethenoc. Lungo il cammino, verso metà strada gli mancarono le forze e morì nella casa di un certo Rovel, forse nel luogo su cui oggi sorge la fattoria di Treravel.
La festa di San Petroc, ancora oggi citata in data odierna dal Martyrologium Romanu, ricorreva sin dai più antichi calendari delle contee occidentali, così come nel Salterio di Bosworth e nel Messale di Roberto di Jumièges, essendo infatti anche ricordato nel calendario di Sarum. Le città di Exeter e Glastonbury rivendicano le sue reliquie.
Alla fine del X secolo i monaci si trasferirono a Bodmin, ormai divenuto il centro del culto del santo, ma le sue reliquie vennero trafugate da un certo Martino, canonico del priorato di Bodmin che, nascosto il bottino sotto l’abito, lo portò all’abbazia di Saint-Méen in Bretagna. Il priore di Bodmin fece allora appello al re Enrico II, che ordinò immediatamente la restituzione del maltolto.
Secondo Roger de Hoveden “il sopraccitato priore di Bodmin, ritornando in Inghilterra con gioia, riportò il corpo del beato Petroc in uno scrigno d’avorio”. Le reliquie furono allora prese in custodia a Winchester da Walter di Coutances, custode del sigillo reale, ed il re stesso insieme con tutta la corte si prostrarono dinnanzi ad esse. Il reliquiario suddetto, dopo vari trasferimenti, trovò infine collocazione dal 1970 nel British Museum.



Stellina788
00sabato 4 giugno 2011 09:39

San Quirino di Siscia Vescovo e martire

4 giugno

† Savaria (Croazia), 309

Etimologia: Quirino = armato di lancia, soprannome di Romolo

Emblema: Bastone pastorale, Palma

Martirologio Romano: A Szombathly in Pannonia, nell’odierna Ungheria, passione di san Quirino, vescovo di Siszeck e martire, che sotto l’imperatore Galerio, per la fede in Cristo fu precipitato nel fiume con una pietra legata al collo.


Come per quasi tutti gli antichi santi e martiri, le notizie nei secoli sono state modificate, interpretate, a volte falsificate ed è il caso di San Quirino vescovo di Siscia (Siszeck) in Croazia.
Egli è menzionato nel 309 da s. Eusebio di Cesarea nella sua “Cronaca”; una ‘Passio’ molto antica ma tutto sommato attendibile, narra che s. Quirino durante la persecuzione dell’imperatore Diocleziano (243-313), fu arrestato nel 309 per ordine del preside Massimo, dopo aver tentato inutilmente la fuga.
Sottoposto ad interrogatorio fu sollecitato ad ubbidire agli ordini imperiali e ad offrire sacrifici agli dei, ma il vescovo Quirino si rifiutò decisamente, perciò fu flagellato e rinchiuso in un carcere dove convertì il custode Marcello.
Trascorsi tre giorni fu inviato dal preside della Pannonia Iª, Amanzio (regione storica che nel 9 d. C. divenne provincia romana), il quale lo condusse a Savaria e dopo aver cercato inutilmente di fargli cambiare idea, lo condannò ad essere gettato nel fiume Sava con una pietra al collo.
I cristiani di Savaria ne raccolsero il corpo e lo seppellirono presso la porta “Scarabateus”.
Tra la fine del IV sec. e l’inizio del V, il corpo di s. Quirino vescovo fu trasferito a Roma e deposto in un mausoleo denominato ‘Platonia’, dietro l’abside della Basilica di S. Sebastiano sulla via Appia, dove fu molto venerato, come attestano gli ‘Itinerari’ del VII secolo.
Notizie non attendibili riferiscono che reliquie del santo furono poi trasferite a Milano, Aquileia e nella Basilica di S. Maria in Trastevere in Roma.



Stellina788
00sabato 4 giugno 2011 09:40

San Quirino di Tivoli Martire

4 giugno

Etimologia: Quirino = armato di lancia, soprannome di Romolo

Emblema: Palma


L’autorevole ‘Bibliotheca Sanctorum’ riporta per questo santo solo alcuni appunti: il suo corpo era custodito nella basilica di s. Lorenzo a Tivoli, ma di lui non si sa praticamente niente di certo e che il suo nome è stato inserito nel Martirologio Romano da Cesare Baronio.
Nel contempo ipotizza che trattasi dell’omonimo martire vescovo di Siscia in Croazia che si venera nello stesso 4 giugno; e di quest’ultimo diamo qualche notizia.
Quirino vescovo, nell’anno 309 durante la persecuzione di Diocleziano fu arrestato dal preside Massimo e indotto a sacrificare agli dèi, come prescriveva l’editto imperiale; si rifiutò decisamente e pertanto fu frustato e chiuso in carcere, dove poté convertire il custode Marcello.
Trascorsi tre giorni, fu condotto dal preside della Pannonia Amanzio, il quale dopo averlo inutilmente sollecitato ad ubbidire, lo fece gettare nel fiume Sava con una pietra legata al collo.
I cristiani ne raccolsero il corpo e lo seppellirono a Savaria nei pressi del luogo del martirio; verso l’inizio del V secolo il corpo di s. Quirino fu trasferito a Roma e deposto in un mausoleo noto come Platonia, dietro l’abside della basilica di S. Sebastiano sulla via Appia e qui fu venerato per tutti i due secoli successivi, come attestato dagli ‘Itinerari’ dell’epoca.
In seguito e qui le notizie sono lacunose e non certe, le reliquie furono trasferite e forse sparse a Milano, Aquileia, Roma e a questo punto potremmo ipotizzare anche a Tivoli.

Nome molto usato fra i romani, divenuto soprannome di Romolo fondatore di Roma, elevato a divinità.
Vari santi martiri per lo più romani o laziali ne portarono il nome.
Il nome designava originariamente i Sabini, Quirites e quindi il popolo romano nel suo complesso.


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