DOCUMENTO: "Analisi del progetto di legge sul testamento biologico"

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Anam_cara
00sabato 18 aprile 2009 05:33
8 Aprile 2009

Analisi del progetto di legge sul testamento biologico
approvato dal senato il 26 marzo 2009

di Giacomo Rocchi


1. Le ragioni di una legge.

     

Prima di analizzare il testo è necessario tornare alle origini: ai motivi per cui è stata ritenuta necessaria l’approvazione di una legge sul testamento biologico (o dichiarazioni anticipate di trattamento).

Quali erano le esigenze, le urgenze che spingevano all’adozione di una norma?

La prima è stata senza dubbio la necessità di evitare che quanto accaduto a Eluana Englaro si ripetesse nei confronti di altri soggetti che si trovano o si troveranno nella sua stessa condizione (stato vegetativo): questa, almeno, è la volontà manifestata dalla maggioranza parlamentare che ha approvato il testo al Senato (e di cui fa parte il relatore, sen. Calabrò).
 

 Vi erano altre esigenze?

Analizziamo il nuovo titolo
: “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento” dobbiamo evidentemente ritenere di sì.

In effetti nella vicenda di Eluana Englaro non vengono in evidenza
né un problema di alleanza terapeutica
(ella non ha mai avuto alcun rapporto con i medici relativamente alla patologia che l’ha colta e nemmeno il padre ha fondato le sue decisioni e le sue azioni sulla base di un rapporto con i medici, strumentalizzati solo al fine di procurare la morte alla figlia),
né un problema di consenso informato (nessuno ha mai contestato la legittimità delle terapie d’urgenza a suo tempo erogate ad Eluana Englaro),
né, infine, di dichiarazioni anticipate di trattamento che Eluana Englaro – come è pacifico – non ha mai fatto, né oralmente né per iscritto.  

Più in generale viene da chiedersi quali risultati voglia ottenere il legislatore.

Forse ha sentito gli anziani che affollano gli ambulatori e li ha sentiti lamentarsi che il medico di base, prima di prescrivere loro la medicina per i loro malanni, non li informava adeguatamente e non faceva firmare loro il foglio del consenso informato?

Forse ha sentito coloro che devono sottoporsi ad interventi seri e ha colto, come esigenza principale, il fatto di non essere stati adeguatamente informati di quanto sarà fatto dai chirurghi sul loro corpo? 

Non è che anziani o operandi hanno chiesto, piuttosto, ambulatori e ospedali meglio attrezzati, medici più motivati e specializzati, infermieri più premurosi, cibo delle mense mangiabile … 

Lo sanno tutti: se la maggioranza avesse voluto impedire “un’altra Eluana” avrebbe scritto una legge molto semplice e molto corta:

“È vietato interrompere la nutrizione e l’idratazione erogata con mezzi artificiali ai soggetti in stato vegetativo”.  

     
Tutti sanno anche un’altra cosa:

l’unico punto che interessa a maggioranza e opposizione è la regolamentazione della morte procurata dei soggetti incoscienti
:

se
è
possibile
, quando è possibile, con quali presupposti è possibile,

chi
potrà disporla, chi dovrà eseguirla, chi ne sarà esentato.

     
Tutto il resto è fumo:

a nessuno interessa sapere se il genitore del figlio minore deve dare il consenso per un apparecchio dentistico,

o se il medico può rifiutarsi
di erogare cure “naturali” e inefficaci ad un paziente “fissato”,

o se il medico di base
, prima di scrivere la ricetta di un antibiotico al bambino o all’anziano, chiederà alla madre o al paziente: “preferisce il prodotto X o Y?”.  


Riconosciamo, quindi
, già nel titolo del progetto di legge quell’ipocrisia che ben conosciamo da quando è stata approvata la legge 194 sull’aborto:

dell’alleanza terapeutica
e del consenso informato
(così come della tutela della maternità) al legislatore non interessa nulla (se non nella misura in cui serve a raggiungere lo scopo principale).

Tutti sappiamo che, se di un medico non siamo soddisfatti, perché non è abbastanza disposto ad ascoltarci e a consigliarci o se diffidiamo della sua reale capacità professionale, possiamo cambiarlo e scegliere un altro;
così come tutti sappiamo che il medico di cui noi ci fidiamo, quando gli porremo domande più approfondite su malattia, analisi, medicinali e cure, non avrà difficoltà a spiegarci più in dettaglio il motivo delle sue scelte.  

Ciò che interessa, quindi, sono le dichiarazioni anticipate di trattamento:
o meglio, solo quella parte del testamento biologico che farà sì che il soggetto incosciente venga lasciato morire o sia curato e possa continuare a vivere (eventualmente anche contro o a prescindere da una volontà precedentemente manifestata).  

     

2. Il divieto di accanimento terapeutico.

     
In realtà, poiché lo scopo di una legge sul testamento biologico (come dimostrano ampiamente le esperienze di altri paesi che le hanno introdotte) non è affatto (o almeno: quasi per nulla) quello di far sì che il medico rispetti le volontà espresse in precedenza da un paziente divenuto incosciente, ma piuttosto quello di permetterea prescindere da un’espressione di volontà dell’interessato la soppressione dei soggetti in stato di incoscienza mediante la mancata erogazione delle terapie salvavita e dei sostegni vitali, vale la pena di cercare subito quelle disposizioni che puntano direttamente al risultato e che dimostrano come la autodeterminazione dell’individuo sia un valore ritenuto del tutto secondario.

    
 All’art. 1 lettera f) la legge “garantisce” che,

“in caso di pazienti in stato di fine vita o in condizione di morte prevista come imminente, il medico debba astenersi da trattamenti sanitari straordinari, non proporzionati, non efficaci o non tecnicamente adeguati rispetto alle condizioni cliniche del paziente od agli obiettivi di cura.”
 

Il divieto è assoluto: sono scomparsi gli altri riferimenti al divieto di accanimento terapeutico, tranne quello dell’art. 6 comma IV, secondo cui il fiduciario di colui che ha redatto delle dichiarazioni anticipate di trattamento, deve vigilare per evitare che “si creino situazioni sia di accanimento terapeutico, sia di abbandono terapeutico”.

Sembra quindi assodato che il tema del divieto di accanimento terapeutico sia estraneo a quello delle dichiarazioni anticipate di trattamento che devono
“essere conformi a quanto prescritto dalla legge e dal Codice di Deontologia medica” (art. 3 comma 2)
 e, quindi, non possono contrastare con il divieto stesso.  

 Il verbo “garantire e la natura oggettiva del divietonon dipendente né dalle convinzioni del medico curante, né dalla volontà del pazientecomporta la possibilità di controllo giudiziale sulle terapie erogate al paziente:

il paziente
(così come fece Welby) potrà agire, in ragione del suo diritto a non essere sottoposto a terapie integranti accanimento terapeutico, chiedendo che le stesse cessino;
e
(soprattutto) analoga azione potrà essere promossa dai tutori degli interdetti, dai genitori dei minori, dagli amministratori di sostegno, dai fiduciari di coloro che hanno sottoscritto dichiarazioni anticipate di trattamento (articolo 5 comma 4);

d’altro canto un medico o una Direzione sanitaria potrà rifiutarsi di procedere a determinati trattamenti sanitari richiesti dal paziente o dai suoi familiari se riterrà che essi integrino un accanimento terapeutico.

     

 I medici, quindi, saranno sotto controllo e a rischio di azione giudiziale (e di responsabilità disciplinare nel caso, ad esempio, abbiano posto in essere terapie nell’ambito di un ospedale).  

Questo sistema avrebbe senso se il concetto di accanimento terapeutico fosse agganciato alla fase terminale di una malattia: ad esempio se il concetto fosse del tipo:

“l’erogazione, ad un paziente in stato terminale, di terapie di carattere straordinario e comunque di interventi terapeutici o diagnostici inutili o superflui rispetto all’andamento del processo in corso. I trattamenti di sostegno vitale di nutrizione, idratazione o ventilazione forzata non costituiscono accanimento terapeutico, salvo quando sono oggettivamente incompatibili con lo stato fisico del morente e gli procurino inutili sofferenze”
.

Il Consiglio Superiore di Sanità (parere 20/12/2006), negando che la respirazione artificiale erogata a Welby configurasse accanimento terapeutico, definì l’accanimento terapeutico

“la somministrazione ostinata di trattamenti sanitari in eccesso rispetto ai risultati ottenibili e non in grado, comunque, di assicurare al paziente una più elevata qualità della vita residua, in situazioni in cui la morte si presenta imminente e inevitabile”.
 

Pur nell’ambito di una discrezionalità tecnica, quindi, la definizione può essere oggettiva, nel senso che spetterebbe ai medici stabilire se la morte è imminente e inevitabile e se i trattamenti sono efficaci o eccessivi.

     

 Al contrario la definizione contenuta nella legge:

“in caso di pazienti in stato di fine vita o in condizione di morte prevista come imminente” dimostra che si vuole estendere il concetto e quindi il controllo giudiziale sull’operato del medico anche:
a) alla condizione di morte non prevista come imminente;
b) alla condizione di morte non prevista come inevitabile. 
 

In sostanza il concetto di “fine vita” è il grimaldello per estendere enormemente l’ambito della previsione: tutti siamo in fine vita se non ci curiamo o non ci nutriamo!

Si tratta di un’osservazione paradossale:
ma occorre ricordare che Beppino Englaro qualificava con gli stessi aggettivi le cure prestate alla figlia;

e che Karen Ann Quinlan
(che era sopravvissuta per dieci anni al distacco del respiratore artificiale ottenuto per via giudiziale) morì per una polmonite che non venne curata perché, nelle sue condizioni, ogni terapia veniva considerata accanimento, terapia sproporzionata.

     
Se il punto di partenzaesplicito o menoè che i soggetti in stato vegetativo hanno una condizione di vita non degna di essere considerata umana, evidentemente le terapie possono essere ritenute straordinarie o non proporzionate agli obbiettivi di cura.  

     
La previsione, in realtà, ha quindi una radice profonda nel caso Englaro nel senso di permettere, su richiesta dei tutori degli incapaci, che gli stessi non vengano curati.


Paradossalmente qui il legislatore sconfessa quella “prudenza” mostrata dalla Cassazione nel Caso Englaro nel 2007 quando i supremi giudici dicevano che, in assenza di una prova dell’irreversibilità della perdita della coscienza e della prova della volontà presunta del paziente di morire,
“deve essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato”;


prudenza già smentita dalla Corte d’Appello di Milano quando sottolineava che, al contrario,

“[…] nulla impedisce di ritenere che il tutore possa adire l’Autorità Giudiziaria quando, pur non essendo in grado di ricostruire il pregresso quadro personologico del rappresentato incapace che si trovi in Stato Vegetativo Permanente, comunque ritenga, e riesca a dimostrare che il (diverso) trattamento medico in concreto erogato sia oggettivamente contrario alla dignità di qualunque uomo e quindi anche di qualunque malato incapace, o che sia aliunde non proporzionato, e come tale una non consentita forma di accanimento terapeutico, e quindi un trattamento in ogni caso contrario al best interest il quale, è appena il caso di notarlo, avendo sempre come referente l’utilità del malato, non può restare confinato in senso meramente soggettivistico solo nell’area di un’indagine riguardante la volontà/personalità”.  

     
Via libera, in definitiva, alle azioni tese ad intimidire i medici e a obbligarli a non spingersi troppo oltre nelle cure, così da estendere il controllo su di loro ed ottenere la riduzioneobbligatoria! delle terapie rispetto ai pazienti scomodi:

anziani ricoverati nelle case di cura,
malati mentali, soggetti in stato vegetativo ecc.

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