Enzo Bianchi, Priore della Comunità di Bose, intervista di Monica Mondo

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lazzaro2004
00sabato 9 maggio 2015 19:32



Enzo Bianchi: studioso della Bibbia, saggista, comunicatore instancabile, Consultore del Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani secondo il volere di Papa Francesco, è innanzitutto un monaco, un fondatore. Piemontese verace, dopo la laurea in Economia sceglie l’eremitaggio sulla serra di Ivrea, dove accoglie i primi compagni che lo aiutano a ristrutturare una pieve romanica, e ad aprire una casa, un convento ecumenico, luogo di pace e di incontro per cristiani di diverse confessioni. “Sono un uomo che viene dalla campagna e che ha avuto l’avventura di poter ascoltare tanti uomini, tante culture, tante persone nelle realtà più diverse: realtà umane, religiose, culturali e devo dire che questo ascolto mi ha plasmato. Sono nient’altro che un po’ di ascolto di altri.” “La mia Comunità è un monastero dove degli uomini e delle donne tentano, lo sottolineo, tentano di vivere il Vangelo, perché nessuno può dire che lo vive”. “L’obbedienza è innanzitutto obbedienza e se stessi e a ciò che uno è, ci vuole molta capacità di aderire alla realtà per essere obbedienti …Nella misura in cui l’obbedienza edifica una persona la rende più libera, la rende più se stessa, non è contro la libertà, non è una mortificazione, è qualcosa che permette a uno di stare meglio nella sua pelle, di sentirsi a suo agio, e questa è un’esperienza di grande consolazione interiore.” E poi nell’intervista di Monica Mondo aggiunge:“Per me maestro è colui che insegna, nel senso che fa segno, dà un orientamento, non chiede, non obbliga, non impone. Ecco, io ho sempre incontrato persone che mi hanno fatto segno, che hanno avuto fiducia in me e che erano affidabili a tal punto che io potevo mettere fiducia in loro.”

A COME AMORE

La Stampa, 8 maggio 2015
di ENZO BIANCHI

Partendo da quattro parabole evangeliche, Enzo Bianchi svela all’uomo incredulo della nostra era l’attualità della buona novella cristiana. Lo fa nel suo ultimo libro «Raccontare l’amore» (Rizzoli). Ecco un estratto

Gesù sta compiendo il suo viaggio dalla Galilea verso Gerusalemme, dove vivrà le sue ultime ore prima della passione e della crocifissione. [...] Durante questo viaggio è raggiunto da notizie di cronaca riguardo a fatti accaduti in quei giorni. C’è stata una rivolta da parte di alcuni galilei, e la polizia di Pilato l’ha repressa nel sangue; è caduta la torre di Siloe, e diciotto persone che erano nelle vicinanze sono state uccise (cfr. Lc 13,1.4).

Di fronte a queste «disgrazie», i religiosi di quel tempo (di ogni tempo?) pensavano subito al castigo di Dio e dunque giudicavano le vittime di quegli eventi quali colpevoli di peccato: al peccato deve corrispondere il castigo, il castigo è una pena e solo così la giustizia di Dio può regnare.

Il castigo

Sollecitato da queste notizie, Gesù interviene per dire una semplice verità: non è vero che dietro un evento luttuoso vi sia il peccato, la colpa di qualcuno. Dio non è perverso e «spione», così da scrutare e cercare chi pecca per castigarlo; Dio, qui sulla terra, non castiga né condanna nessuno. Quanto a Gesù, nel suo comportamento attraverso il quale vuole narrare Dio (cfr. Gv 1,18), non condanna (cfr. Gv 8,11) né tanto meno castiga. Mai e poi mai.

La libertà

Se così avvenisse, l’uomo non sarebbe più nello spazio della libertà e dell’obbedienza, ma sarebbe costretto con la violenza da Dio a evitare il male. Certo, questa era un’immagine perversa di Dio, ma gli uomini religiosi la custodivano e la predicavano, anche perché, sentendosi ministri di Dio, si ritenevano in tal modo autorizzati a condannare e a castigare.
Gesù invece, venuto a consegnarci un altro volto di Dio, se condanna, condanna il peccato, non il peccatore, e in ogni caso, come tutti i profeti, rimanda la possibilità del castigo di Dio al giudizio finale, all’aldilà della morte. Egli infatti sa bene che ogni peccato che l’uomo compie, essendo male, ha in sé una potenza mortifera e già qui, nella vita, causa il male di chi lo compie. È una verità elementare: chi sceglie di fare il male, vive nel male, e il male gli impedisce di vedere e di beneficiare di tutto ciò che è bene. Dio non interviene né deve intervenire. Gesù dunque avverte: le vittime della violenza di Pilato, le persone schiacciate dal crollo della torre non erano più colpevoli di quelle che sono sfuggite a tali disgrazie. Ma resta vero che, se non c’è conversione, mutamento di mentalità e di vita, se non c’è un ritorno a Dio, allora nel giudizio ci sarà perdizione per tutti (cfr. Lc 13,2-5). Qui sulla terra il male colpisce giusti (se mai ci possono essere!) e ingiusti, innocenti e peccatori, ma ciò che è decisivo è il giudizio di Dio, che guarderà alla conversione. Questo significa il monito di Gesù, ripetuto due volte: «Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo» (Lc 13,3.5).

La conversione

Occorre dunque decidersi qui e ora, è urgente fare ritorno al Signore, perché nessuno sa quando incontrerà il Giudice che viene come un ladro nella notte, senza farsi preannunciare (cfr. Lc 12,39-40).
Ma di fronte a tale urgenza, non ci sono avvertimenti, non c’è da parte di Dio la capacità di dilazione, non c’è pazienza? Ecco allora che Gesù racconta una breve parabola, che è un gioiello e che tanto ci consola. È la parabola del fico che un uomo ha piantato nella sua vigna (cfr. Lc 13,6). Piantare un fico nella propria vigna è un’azione straordinaria, è come mettere un anello al dito dell’amata. Perché chi va nella vigna non vi trova sempre grappoli da gustare, ma solo nell’ora della vendemmia. La stagione dei fichi, invece, è più lunga, dura tutta l’estate e tutto l’autunno, e così raccogliere un fico e gustare la sua dolcezza è una delle esperienze più straordinarie per la bocca e per il palato.

La pazienza

Un uomo, dunque, pianta un fico e poi lascia al contadino, al vignaiolo, di prendersi cura del fico e della vigna. A un certo punto viene a cercare fichi e non ne trova: quell’albero piantato con speranza, cura e amore, non produce... La delusione è grande! Che fare? Questa la sua reazione, nelle parole da lui rivolte al vignaiolo: «Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?». (Lc 13,7). Ma il vignaiolo, di fronte a questa decisione del padrone della vigna, si mette dalla parte del fico e osa supplicare: “Padrone [kýrios], lascialo ancora quest’anno, perché io possa zappargli attorno e mettergli il concime. Così vedremo se porterà frutti per l’avvenire» (Lc 13,8-9). . [...]

Dalla parte dell’uomo

Per questo il vignaiolo della parabola dice con audacia al padrone: «Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai» (Lc 13,9). Ovvero: «Lo taglierai tu, non io!». Il padrone è paziente e il vignaiolo intercede perché lo sia ancora di più. [...] Una gara nella pazienza, un’emulazione nella misericordia! E non dimentichiamo chi è colui che sta narrando la parabola: Gesù. Egli sembra dire a Dio suo Padre: «Io, disceso da te sulla terra e divenuto compagno degli uomini e delle donne, sto dalla loro parte, e a te chiedo solo pazienza, misericordia, perdono per loro». Anche in questa parabola, dunque, Gesù «evangelizza Dio», nel senso che svela che il suo Dio, non quello fabbricato dalle religioni, è Vangelo, buona, bella, gioiosa notizia per tutti, in particolare per i peccatori.

Pubblicato su: La Stampa

www.monasterodibose.it/…/9158-a-come-amo…


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