IL MATTUTINO - Pensieri quotidiani di Mons. Ravasi

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Anam_cara
00mercoledì 14 settembre 2011 14:24
auroraageno, 14/09/2011 12.25:


I fiori di plastica



Il nonno stava per morire. Figli e nipoti erano al suo capezzale angosciati. Egli aprì gli occhi ed essi approfittarono per fargli capire che desideravano che non morisse. Allora il nonno con pacata serenità disse lentamente: «Quello che è veramente vivo deve morire. Guardate i fiori: solo quelli di plastica non muoiono mai!». Riescono a farli così simili a quelli veri da costringerci a toccarli per scoprire che in verità sono finti. Che sia questo un simbolo del nostro tempo, fatto di artificiosità e di inganno? Certo è che il fiore o la pianta di plastica non appassiscono né muoiono; eppure noi tutti li consideriamo come un segno di cattivo gusto e di kitsch. Questa volta la nostra riflessione va, però, nella direzione che ci è suggerita dall'episodio sopra citato. L'ho ritrovato nel riquadro di una rivista americana ove si mettono le "battute di spirito" in senso non umoristico ma "spirituale". La morte, comunque, ha sempre due volti, uno tragico e uno liberatorio. Persino in Cristo si ritrova questa duplicità: per Matteo e Marco egli lancia quell'urlo: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»; per Luca si rivolge serenamente a Dio: «Padre, alle tue mani affido il mio spirito». Vita e morte sono due passi costanti nella nostra esistenza. Ogni minuto è un istante pieno di vita, ma è anche un avanzare verso la morte. C'è un verso indimenticabile messo in bocca a Beatrice da Dante che parla «del viver ch'è un correre a la morte» (Purgatorio XXXIII, 54). È, quindi, necessaria la lezione di Leonardo da Vinci che confessava nei suoi Pensieri: «Quando io crederò a imparare a vivere, io imparerò a morire». Una lezione di sapienza che permette alla fine di condividere la frase di quel nonno. Un frase che si carica di luce ulteriore per il credente che vede la morte come una soglia aperta sull'eternità di Dio.


card. Gianfranco Ravasi

"Il Mattutino" - da L'Avvenire


auroraageno
00giovedì 15 settembre 2011 09:08
BUONI E CATTIVI


BUONI E CATTIVI


Tutti amano i buoni, ma li sfruttano. Tutti detestano i cattivi, ma li temono e li ubbidiscono. «I pensieri del grillo parlante»: era questo il titolo di una sezione del libro La vita è bella nonostante di un giornalista e scrittore molto apprezzato ai suoi tempi per la sua leggibilità e sincerità, Vittorio Buttafava (1918-1983). Lo incontrai per caso in una casa di amici e ricordo ancora la vivacità delle sue battute, capaci di addentare i vizi della società di quegli anni. Il suo era un moralismo spumeggiante, non aggressivo e intransigente, ma bonario e genuino. È il caso del passo che ho voluto proporre oggi da quella sezione del «grillo parlante», un vero e proprio aforisma sapienziale che non ha bisogno né di note in calce né di commenti applicativi tanto è limpido nella sua amara verità. Era ciò che già osservava Foscolo nelle Ultime Lettere di Jacopo Ortis, quando notava che «l'uomo dabbene in mezzo ai malvagi rovina sempre; e noi siamo soliti associarci al più forte, a calpestare chi giace, e a giudicare l'evento». Nella frase di Buttafava vorrei mettere l'accento su un verbo applicato ai buoni, «sfruttare». C'è il detto proverbiale secondo il quale se dai una mano, ti prendono il braccio. È un'esperienza, ahimè, quotidiana che colpisce proprio i buoni, i generosi. Ci si imbatte spesso in una spudoratezza che rasenta l'indecenza e l'arroganza: ci sono persone che esigono senza nessun diritto o titolo e non danno tregua fino alla meta raggiunta. Vittime sono di solito proprio i buoni, i miti, i mansueti, i caritatevoli. La sfrontatezza degli uni abusa della magnanimità degli altri. E purtroppo bisogna riconoscere che di fronte all'improntitudine, alla faccia tosta quasi insolente ci si ritrova impotenti e deboli.


card. Gianfranco Ravasi

"Il Mattutino" - da L'Avvenire.it


Anam_cara
00giovedì 15 settembre 2011 20:19



Dal Vangelo di Matteo 5, 1-12


Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli.
Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo:
Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati gli afflitti, perché saranno consolati.
Beati i miti, perché erediteranno la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.
Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.
Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi.

AMEN!

auroraageno
00venerdì 16 settembre 2011 08:43



LODATE, LODATE!


Lode: è l'omaggio da noi reso a opere che somigliano alle nostre, ma che naturalmente non le eguagliano. «Lodate, lodate: questo è il mio consiglio. Non abbiate riguardi, urlate i vostri complimenti in faccia alla gente e ripeteteli anche alle sue spalle, se avete motivo di credere che verranno riferiti». Questa esortazione, presente nella Fiera delle vanità dello scrittore inglese dell'Ottocento, William M. Thackeray, sarà pure ironica ma ha un'indiscussa applicazione nella realtà. Se, infatti, è ben diffusa la calunnia, lo è altrettanto l'adulazione laudativa. Ci sono alcuni che, per ottenere il favore del potente di turno, sono pronti a prostituire l'anima e l'intelligenza. È, questa, una malattia sociale che si ramifica dappertutto, varca anche i recinti ecclesiastici, rende artificiose molte relazioni e riesce a falsare il merito genuino. Se, però, proviamo a scavare anche nella lode autentica, ci imbattiamo in un'altra sottile dimensione, ben illustrata dalla voce «Lode» che abbiamo desunto e tradotto da quel satirico e divertente Dizionario del diavolo, approntato nel 1906 da un sulfureo e avventuriero personaggio americano, Ambrose Bierce. Ora, se c'è la lode ipocrita dispensata per nutrire la vanità altrui, c'è anche la lode a cui si è costretti a ricorrere, a denti stretti, quando si è di fronte a figure e opere straordinarie. Eppure, sotto sotto, c'è sempre una riserva implicita: sarà pure un grande risultato quello raggiunto da altri, ma noi siamo capaci di valicarlo. Si fa strada il serpente dell'orgoglio che - come ben sappiamo dalla Genesi - non esita a metterci in concorrenza persino con Dio («sarete come Dio»). Attenzione: in agguato c'è, però, anche il ridicolo. Il pur compassato Cicerone non ha resistito a scrivere nel suo De consulatu meo questa autolode: «O Roma fortunata, nata sotto il mio consolato!».


card. Gianfranco Ravasi

"Il Mattutino" - da L'Avvenire


auroraageno
00sabato 17 settembre 2011 08:53


IL LUSSO E IL NECESSARIO


Nella società del benessere non si fa più nessuna valida distinzione tra il lusso e le necessità. Ci sono dei centri commerciali così immensi da essere diventati vere e proprie cittadelle: ne intravedo uno ogni volta che mi reco all'aeroporto di Fiumicino e mi si dice che ci sono famiglie romane che là trascorrono l'intera domenica, perché la varietà delle offerte – anche di divertimenti – è tale da coprire tutte le esigenze. Ecco, è proprio questa parola «esigenze» ad essere al centro della nostra riflessione odierna. Mi aiuta a svilupparla la frase che ho tratto dal saggio The affluent society di un famoso economista americano dell'era kennediana, John K. Galbraith (1908-2006). La società opulenta, «affluente», come si è soliti dire con un anglicismo (o persino «superaffluente»), ha travolto il tradizionale concetto di «esigenze». Esso rimandava alle nostre necessità primarie che, certo, variavano da epoca a epoca e secondo i diversi contesti culturali e ambientali, ma si basavano sui fondamentali dell'esistenza. Il superfluo era considerato un «lusso», un di più non necessario ma solo voluttuario: è significativo che in inglese «lusso» si dica luxury! Ora si è compiuta una svolta: la società dei consumi non conosce quella distinzione e il concetto di «esigenze» o di «necessario» si è dilatato fino ad abbracciare anche l'opulenza, la sovrabbondanza, il superfluo, l'accessorio. Si ha, così, una mentalità sfrenata nell'«esigere» e questo si rivela non solo in sede commerciale, ma anche semplicemente umana. Si pretende tutto, fino all'eccesso, e l'idea di felicità è nel poter comperare tutto quello che brilla e che è piacevole. Invano l'antica sapienza dei Ricordi dell'imperatore Marco Aurelio ci ammonisce: «La maggior parte delle cose che diciamo e facciamo non sono necessarie: chi le elimina dalla sua vita sarà più tranquillo e sereno».


card. Gianfranco Ravasi

"Il Mattutino" - da L'Avvenire

auroraageno
00domenica 18 settembre 2011 12:15


DISSOTTERRARE DIO


Dentro di me c'è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c'è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente è coperta di pietre e di sabbia: in quel momento Dio è sepolto, bisogna allora dissotterrarlo di nuovo. Non è la prima volta che abbiamo lasciato la parola a Etty Hillesum, giovane donna ebrea olandese, deportata ad Auschwitz: per due anni, alle soglie della sua morte nelle camere a gas di quel lager, ci ha lasciato un diario spirituale emozionante, tradotto in italiano da Adelphi (Diario 1941-43). In questa domenica facciamo risuonare la sua parola cristallina perché ci aiuta a incontrare Dio. Tanti sono i crocevia nei quali egli ci attende. Etty, cioè Ester, ce ne ricorda uno vicinissimo e sempre aperto al passaggio di Dio, quello della nostra anima, di quell'interiorità che è simile a una sorgente zampillante. C'è una straordinaria freschezza in questo incontro, c'è intimità, spontaneità, immediatezza, come dice il Salmista: «L'anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente… È in te la sorgente della vita… O Dio, ha sete di te l'anima mia in terra arida, assetata, senz'acqua» (42,3; 36,10; 63,2). Ma giunge il giorno in cui sulla fonte si deposita una frana di detriti e Dio rimane sepolto. È la valanga delle cose, dell'esteriorità, della superficialità, della colpa che ricopre l'anima di una coltre pesante fatta di relitti, di scorie, di rifiuti. Bisogna, allora, con impegno, anche a mani nude, scavare per «dissotterrare Dio», riportarlo ancora al centro della coscienza, liberare dal fango le sue labbra perché ci parlino di nuovo, aiutare le sue mani ad accarezzarci. Anche Dio ha bisogno di noi per essere lasciato libero di muoversi nello spazio della nostra anima e della nostra vita. È per questo che ci ha creati liberi come lo è lui, per un abbraccio spontaneo, schietto, tenero.


card. Gianfranco Ravasi

"Il Mattutino" - da L'Avvenire


auroraageno
00martedì 20 settembre 2011 10:19


La delusione di Satana


Il diavolo è un ottimista, se pensa di poter peggiorare gli uomini. Beffardo nel suo sarcasmo, ma sempre tagliente nella sua intelligenza, lo scrittore austriaco Karl Kraus (1874-1936) ci spinge, con questo suo aforisma della raccolta Casi, Idee, ad avere un po' di pietà per Satana: gli uomini sanno fare meglio di lui. Vorrei qui proporre due considerazioni. La prima riguarda la resistenza umana a qualsiasi influsso, positivo e negativo. È quella che si chiama «ostinazione»: la nostra dotazione di volontà libera e autonoma ci può far impuntare come un mulo, con una caparbietà invincibile. Questa nostra realtà ha un esito bifronte. Da una parte, può essere una tenacia positiva nella coerenza secondo le proprie idee e convinzioni: è la tradizionale «perseveranza», che è fedeltà a sé stessi e può raggiungere persino la vetta del martirio. D'altro lato, però, c'è anche l'irremovibilità nel male, l'accanimento nel vizio, il puntiglio ottuso. Su quest'ultimo versante ha difficoltà persino Dio - e non solo Satana - sebbene con finalità e prospettive diverse, perché il Creatore non vuole prevaricare con la sua grazia sulla libertà della sua creatura. L'altra nota riguarda il protagonista del detto di Kraus, il diavolo, per molti il relitto di un paleolitico teologico. Eppure, un agnostico come lo scrittore francese André Gide confessava: «Non credo nel diavolo; ma è proprio quello che il diavolo spera: che non si creda in lui». E il suo connazionale e altrettanto scettico Charles Baudelaire sosteneva che «la più grande astuzia del diavolo è farci credere che non esiste». Ebbene, non entriamo nel merito del discorso sull'esistenza e sulla funzione del Tentatore. Accontentiamoci solo di ripetere contro le ironie sul tema quello che Goethe metteva in bocca al suo Faust: «Hanno voluto scacciare il Maligno e ci sono restati tutti i mascalzoni più piccoli!».


card. Gianfranco Ravasi

"Il Mattutino" - da L'Avvenire


auroraageno
00mercoledì 21 settembre 2011 09:44


LE RUGHE


Se non si possono evitare le rughe del volto, è però possibile evitare le rughe dello spirito. Diciamo ai giovani: «Gli uomini, come il vino, migliorano invecchiando». Ma diciamo ai vecchi: «Attenti all'acidità!». «Come d'autunno si levan le foglie / l'una appresso de l'altra, fin che 'l ramo / vede a la terra tutte le sue spoglie…»: molti avranno riconosciuto in questa comparazione, poeticamente fragrante ed echeggiante l'Eneide di Virgilio, la voce di Dante che raffigura in quelle foglie morte autunnali le anime perverse guidate da «Caron dimonio, con occhi di bragia» (Inferno III, 112-114). Noi, invece, scegliamo, per l'ingresso in questa dolce stagione dai colori tenui e delicati, una curiosa riflessione del letterato parigino Jean-Baptiste-Alphonse Karr (1808-1890), che abbiamo scoperto in un'antologia. Brioso, talora incline alla satira, finì la sua vita nei pressi di Nizza dedicandosi alla floricoltura. Ritorniamo, così, alla natura da cui siamo partiti con Dante; ora, però, di scena è l'autunno della vita umana, la vecchiaia che ha come emblema la ragnatela di rughe che si distende sul nostro volto. Tanto temuta dai vanitosi (che non sono solo le donne), essa permette un'applicazione che si addice a tutti. Ci sono, infatti, anche le «rughe dello spirito», come giustamente osservava Karr, ed esse sono equamente distribuite in tutte le età. Ecco, allora, quel duplice consiglio. Ai giovani: non temete il flusso degli anni, perché esso porta con sé esperienza, sapienza, consiglio e, quindi, migliora la persona, come accade al vino. Agli anziani: attenzione, non è così automatico che vecchiaia e maturità siano sinonimi, perché ci può essere anche la degenerazione, proprio come avviene a certi vini inaciditi o abboccati. Ogni età è bella purché l'anima (e non tanto il corpo) abbia poche rughe.




card. Gianfranco Ravasi

"Il Mattutino" - da L'Avvenire

auroraageno
00mercoledì 21 settembre 2011 14:01

E' verissimo. E ciò che impedisce al vino dell'anima di inacidire è la grazia divina.

Ho conosciuto molte persone, di varia età, con un pensare, uno 'stare'... veramente acido, di fronte alla vita; e cioè nei giudizi dei fatti della vita, nella visione delle cose.


Il mio volto è ancora piuttosto liscio, nonostante l'età, ma, a conferma di quanto detto sopra, anche per me ci sono stati periodi di acidità... Solo l'aiuto amorevole dello Spirito d'Amore, la Grazia divina, me ne ha liberato Spero tanto di non inacidire più.


Aurora

auroraageno
00giovedì 22 settembre 2011 10:58

L' ALFABETO ORANTE



Un vecchio ebreo, giunto a tarda età con la mente e la vista appannate, non riusciva più a leggere il suo libro di preghiere e la memoria, dopo aver iniziato anche l'orazione più comune, latitava e si confondeva. Allora decise di fare così: «Reciterò ogni giorno al mattino e alla sera l'alfabeto ebraico per cinque volte e tu, Signore, che conosci tutte le nostre preghiere, metterai insieme le lettere perché compongano le orazioni che non so più ricordare e dire». Le vie del collezionismo sono infinite. Un mio conoscente ha una straordinaria raccolta di alfabeti antichi e moderni, trascritti su fogli o tavolette. Come emblema ideale egli ha adottato questo apologo ebraico che trovo bellissimo nella sua ingenuità e innocenza di cuore. Lo sfarfallio delle lettere è affidato a Dio perché lo ricomponga in un inno di lode. Se pensiamo alla potenza di quei segni, dobbiamo restare incantati. Con essi si sono intessuti i più dolci colloqui d'amore, i canti più armoniosi, le invocazioni più drammatiche di salvezza, i racconti più affascinanti, le memorie decisive della storia di una persona e di un popolo e si potrebbe proseguire a lungo in questo catalogo di meraviglie create attraverso gli alfabeti umani, non sempre scritti (si pensi a quelli gestuali di certe culture o dei sordomuti). Eppure, a causa di quelle stesse lettere sono scoppiate guerre, si sono alimentati odi tra fratelli, si è prodotta una valanga di pornografia, si sono ingannate tante menti con false ideologie e così via, in un altrettanto sterminato catalogo di orrori verbali e grafici. È bella, allora, la scelta di quel vecchio ebreo che fa salire al cielo il minimo che ancora conosce e lo mette nelle mani e sulle labbra di Dio perché possa ricreare la più meravigliosa di tutte le preghiere. È, questa, la potenza della semplicità di cuore che Dio ama con infinita tenerezza più dell'eloquenza dei dotti.


card. Gianfranco Ravasi

"Il Mattutino" - da L'Avvenire

auroraageno
00venerdì 23 settembre 2011 09:43


LA FOLLA E LA VERITÀ



Quest'uomo avrà sempre la folla dalla sua parte. È sicuro di sé come lo è del mondo. È questo che piace alla moltitudine: essa non cerca prove ma asserzioni. Le prove la inquietano e la mettono a disagio. La folla è semplice e comprende solo le cose semplici. Non bisogna spiegarle né il come né il perché, ma dichiarare solo il sì e il no. Non conosceva né la televisione né le attuali tecniche pubblicitarie lo scrittore francese Anatole France, quando nell'Ottocento scriveva queste righe. Eppure, difficile è descrivere meglio di quanto abbia fatto lui la raffinata grammatica del consenso di massa, usata da alcuni politici, dai capipopolo, dalle agenzie di pubblicità, dai giornalisti soprattutto televisivi e persino da certi predicatori. Intendiamoci subito: la chiarezza di parola e di pensiero contro ogni esoterismo oracolare e ogni cripticità indecifrabile è una virtù e una dote preziosa. Ciò che qui si denuncia è l'appiattimento cerebrale e spirituale in un riduttivismo tale da umiliare la verità e la realtà, invece di farle brillare. Purtroppo è vero che la folla ama la pigrizia della semplificazione; non vuole affaticarsi lungo i sentieri ardui in cui bisogna argomentare, discutere, dedurre, essere coerenti e documentati. Preferisce l'asserzione netta e talora banale, nella convinzione che questo superficiale «parlar chiaro» sia sinonimo di verità e di lucidità. Così, tra l'altro, essa si illude di essere intelligente e dotata. L'analisi dell'esistenza e dell'umanità, la stessa fede esigono invece ricerca e approfondimento. Chiaro ma impegnativo il citatissimo appello che san Pietro rivolge ai cristiani di essere: «pronti sempre a rispondere a chiunque domandi ragione della speranza che è in voi» (1 Pietro 3,15). È, questo, un segno di rispetto verso l'intelligenza e la dignità delle persone.


card. Gianfranco Ravasi

"Il Mattutino" - da L'Avvenire

auroraageno
00sabato 24 settembre 2011 11:58



TASSE CERTE?



In questo mondo non vi è nulla di sicuro tranne la morte e le tasse. Aveva ragione Benjamin Franklin (sì, proprio l'inventore del parafulmine) quando scriveva questa riga il 13 novembre 1789 in una lettera che stava indirizzando a un amico, un certo Leroy. Avrebbe ragione ancora oggi, ma soltanto perché era americano e scriveva negli Stati Uniti ove il rigore fiscale e la coscienza collettiva erano e sono un dato reale e non fantomatico. La frase non varrebbe, invece, in Italia ove le tasse sono certe solo per alcuni, mentre per altri sono del tutto ipotetiche e ove - bisogna pure riconoscerlo - siamo lontani anni luce dall'affermazione del presidente Luigi Einaudi (1874-1961) che, in un articolo sul Corriere della Sera, dichiarava che «il denaro dei contribuenti deve essere sacro». Evasori e corruttori e corrotti sono in gioiosa combutta per smentire queste e altre dichiarazioni. Non è male, allora, riproporre un simile tema etico e non meramente legale, come purtroppo anche qualche moralista in passato rubricava la questione, fornendo così un ulteriore alibi di indole religiosa, qualora ce ne fosse bisogno. Un tema che ha appunto i due estremi in connessione: chi non paga le tasse e chi sperpera il denaro pubblico sono entrambi immorali e devono finirla i primi di allegare i secondi per giustificarsi e i corrotti devono semplicemente smetterla di rubare, anche perché l'attuale sfacciataggine non ha più neppure il pretesto politico dei partiti, come accadeva al tempo di «Mani pulite». A questo punto non c'è altro da aggiungere, se non rispolverare le parole che san Paolo indirizzava ai cristiani di Roma: «Pagate le tasse: quelli che svolgono questo compito sono a servizio di Dio. Rendete a ciascuno ciò che è dovuto: a chi si devono le tasse, date le tasse; a chi l'imposta, l'imposta!» (13,6-7).


card. Gianfranco Ravasi

"Il Mattutino" - da L'Avvenire


auroraageno
00domenica 25 settembre 2011 14:56



SE CRISTO TORNASSE



Se Cristo tornasse oggi tra noi, la gente non lo metterebbe più in croce. Lo inviterebbe a cena, lo ascolterebbe e gli riderebbe dietro le spalle. Non sono pochi i film che hanno immaginato un ritorno di Cristo per le strade di oggi, all'interno dei palazzi delle nostre metropoli e persino nelle chiese a lui consacrate. Un titolo per tutti: Jesus of Montreal del regista Denys Arcand (1989). Jaroslav Pelikan scriveva nel 1985: «Al di là di ciò che ognuno possa personalmente pensare o credere di lui, Gesù di Nazaret è stato per quasi venti secoli la figura dominante nella storia della cultura occidentale». Ma se dovessimo immaginare un suo ritorno in mezzo a noi, potremmo forse correre il rischio di dar ragione allo storico scozzese Thomas Carlyle a cui dobbiamo la frase sopra proposta. Eppure lui faceva questa affermazione nell'Ottocento. Oggi sarebbe ancor peggio. Potrebbe capitare a Gesù, con quei lineamenti un po' "orientali", di essere fermato per un controllo dei documenti. L'elemento che vorrei sottolineare è, però, quello della derisione benevola. No, non è un'esagerazione teatrale o narrativa. Tanti cristiani – lasciamo perdere la società secolarizzata – non prendono sul serio il cristianesimo con le sue verità e le scelte che esige. Un'infarinatura di preghiere e di qualche opera buona non è una risposta al Discorso della montagna e ai suoi appelli, così come una vaga conoscenza dei Vangeli non copre la richiesta che Cristo avanza di adesione alla sua rivelazione di verità, di amore, di libertà. Le sue parole, se ridotte a dialogo di società, si spengono, perché esse in realtà hanno il fuoco dentro e vorrebbero invece accendersi nelle menti e nelle anime. Non si può solo lasciarlo parlare e poi irriderlo perché è "esagerato". Eppure è questo il rischio che stiamo correndo nel grigiore dei nostri giorni.


card. Gianfranco Ravasi

"Il Mattutino" - da L'Avvenire


auroraageno
00martedì 27 settembre 2011 09:54


PERLE DI SAGGEZZA



I suoi discepoli avevano definito i suoi discorsi e i suoi scritti «perle di saggezza». Il maestro non si dimostrò molto entusiasta di questa definizione. Gli chiesero la ragione di questa sua riserva. «Avete mai visto perle che crescono se sono seminate in un campo?», fu la sua replica. Se qualcuno si mette a esaltare una tua azione, è spontaneo sentire nell'anima quel languore che non è ancora superbia, ma è soddisfazione, fierezza, appagamento. Nella magniloquenza del passato, per scritti o discorsi di maestri dello spirito o delle lettere si usava l'espressione «perle di saggezza». È quello che fanno nei confronti del loro maestro anche i discepoli di questo apologo orientale che trovo evocato nella lettera affettuosa di un lettore. La replica è, però, illuminante. Troppe parole e azioni hanno, infatti, la funzione di abbellire coloro che le pronunciano o compiono. Sono appunto collane di perle che, certo, brillano ma sono da indossare per essere più appariscenti. Anche per questo, Cristo - che pure non ignora il paragone delle perle («Non gettate le vostre perle davanti ai porci…», Matteo 7,6) - preferisce ricorrere a immagini vive come quella del seme di grano (o di senapa) che, «caduto in terra, muore e produce molto frutto» (Giovanni 12, 24). Bisogna, quindi, dire e fare cose belle ma anche buone, affascinanti ma anche feconde, luminose ma anche calorose. In questa linea, vorrei concludere con un'altra parabola orientale. Si accorreva per ascoltare un maestro dall'eloquio incantevole. Ma un ascoltatore rimase attratto solo dal flusso mirabile delle frasi e non fu toccato nel cuore. Allora un discepolo del maestro spiegò: «Devi fare come se si trattasse di un albero autunnale: scuoti l'albero del discorso, fa' cadere a terra tutte le foglie delle parole; quello che rimarrà è il frutto che nutrirà la tua anima».


card. Gianfranco Ravasi

"Il Mattutino" - da L'Avvenire


auroraageno
00mercoledì 28 settembre 2011 08:42

COMINCIARE



L'unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante. E invece, una dozzina d'anni dopo, chi scriveva questa annotazione nel suo diario alla pagina del 23 novembre 1937 si toglieva la vita in un afoso agosto torinese del 1950. Sto parlando di Cesare Pavese e del suo Il mestiere di vivere, pubblicato postumo nel 1952. Eppure queste due frasi sono di una freschezza e di una vitalità straordinarie e sanno cogliere il midollo stesso del vivere. Sì, perché ogni alba che si schiude è un inizio analogo a quello del giorno in cui siamo usciti dalla notte del grembo materno e ci siamo avviati a percorrere la strada e l'avventura della vita. Io, per primo, devo essere grato al Creatore perché da anni ogni mattina si apre su una giornata quasi mai uguale alla precedente, in una sorta di galleria di sorprese sempre mutevoli. Sono sicuro, però, che - pur nella monotonia del ritmo casa-lavoro - anche molti lettori ricominciano le loro giornate con una carica implicita, quella ad esempio dell'amore per la loro famiglia a cui stanno donando il loro tempo e le loro energie. Ma non possiamo ignorare che per molti la vita è come un fuoco spento: forse c'è ancora qualche brace sotto il velo della cenere; ma non c'è più la voglia o la forza di soffiare. Quando si giunge a questa apatia, si è ormai «ombre che passeggiano», per usare una forte espressione del Macbeth di Shakespeare. Senza il desiderio di ricominciare si è già cadaveri ambulanti, per dirla più brutalmente, privi di vigore per pensare, creare, donare. A costoro lasciamo le parole di Isaia: «Dio dà forza allo stanco, moltiplica il vigore dello spossato. Anche i giovani faticano e si stancano, gli adulti inciampano e cadono. Ma quanti sperano nel Signore mettono ali come aquile e camminano senza stancarsi» (40, 29-31).


card. Gianfranco Ravasi

"Il Mattutino" - da L'Avvenire


auroraageno
00giovedì 29 settembre 2011 11:34




Lo pseudonimo di Dio



Se pensassimo a tutte le fortune che abbiamo avuto senza meritarle, non oseremmo lamentarci. «Il caso è lo pseudonimo di Dio quando non si firma personalmente». A dire questo era uno scrittore francese non particolarmente religioso, Anatole France. A ribadire l'idea, ma da un'altra angolatura, è il suo conterraneo e contemporaneo (Ottocento) Jules Renard al cui Diario abbiamo già attinto in passato. Egli parla piuttosto di «fortuna» che regge tanti momenti della nostra vita, ma non osa esplicitare il nome sottinteso, Dio. Se in un'ideale doppia partita oggettiva dovessimo con rigore elencare beni e mali della nostra vita, siamo proprio sicuri di aver diritto a quella tiritera inesorabile di lamenti che ci scambiamo quando ci incontriamo? Facile è segnare le prove perché si infiggono nell'anima e nella carne; i doni e le gioie sono, invece, come acqua che scorre su una pietra. Cerchiamo, allora, di esercitarci ogni giorno a dire almeno un grazie e non solo a Dio, ma anche a tutti coloro che ci riservano un gesto di cordialità, un aiuto, una parola calorosa. Proviamo a ricordare un evento grande della nostra vita che ci è stato donato e che abbiamo forse archiviato, quasi ci fosse dovuto: lo farò io per primo, ricordando la grazia dell'episcopato che ho ricevuto proprio oggi, il 29 settembre di quattro fa, dalle mani di Benedetto XVI. Tentiamo anche di cogliere il valore dei favori che consideriamo ovvi e scontati: l'aria, l'acqua, la bellezza del mondo, le amicizie e così via. Lunga è la lista "bianca" da accostare a quella "nera" delle amarezze. Aristotele - narra Diogene Laerzio - interrogato «su che cosa invecchia e muore presto», rispose lapidario: «La gratitudine».


card. Gianfranco Ravasi

"Il Mattutino" da L'Avvenire


auroraageno
00venerdì 30 settembre 2011 08:52


LA GRAMMATICA



Il rabbí di Gher raccontava: «Da ragazzo non volevo applicarmi allo studio della grammatica perché la consideravo una scienza come tante altre. Più tardi, invece, mi ci sono dedicato con passione perché ho visto che i segreti della Bibbia sono legati ad essa». Sono stato per anni docente di esegesi biblica; ho passato buona parte della mia vita a studiare le Sacre Scritture e, anche se ora la mia missione è un'altra, considero sempre il santo di oggi, Girolamo, il mio ideale patrono. Non c'è bisogno di spiegare che questo personaggio dal carattere piuttosto rubesto, morto il 30 settembre del 420 nell'aspra solitudine delle grotte di Betlemme, è stato il più famoso traduttore e studioso antico della Bibbia. Io, però, sono ricorso - per commemorarlo - a uno degli apologhi che il filosofo Martin Buber ha raccolto nei suoi Racconti dei Chassidim. Un maestro ebreo, appartenente a questa corrente mistica mitteleuropea, ammoniva il suo discepolo sulla necessità dello studio della grammatica. Apparentemente essa è arida, è un sistema di regole, è un minuzioso gioco a incastro di elementi variabili secondo le diverse lingue. Eppure, è l'ossatura senza la quale il pensiero si sfalda, la bellezza si scolora, il messaggio si estingue. Un altro scrittore cristiano del VII secolo, Massimo il Confessore, dichiarava: «Se non conosci le parole [umane] della Scrittura, come potrai raggiungere la Parola [divina]?». Come accade in Cristo che è Verbo divino ma è anche «carne», cioè linguaggio e realtà umana, così è per la Bibbia. Per questo, l'antica tradizione ecclesiale ha sempre esaltato come fondamentale - prima di ogni senso «spirituale» - il senso «letterale», e Lutero ribadiva che il «grammaticale» è il primo dato teologico e non solo letterario. Riflettano quelli che si vantano di letture bibliche solo «spiritualistiche», senza «grammatica»!


card. Gianfranco Ravasi

"Il Mattutino" - da L'Avvenire


auroraageno
00sabato 1 ottobre 2011 10:41


I DUE VERSANTI


Il maestro disse a un suo allievo: Yu, vuoi sapere in che cosa consiste la conoscenza? Consiste nell'essere consapevole sia di sapere una cosa sia di non saperla. È un po' come essere su quei crinali dei monti così taglienti da sembrare capaci di segare il cielo. Se si è lassù in equilibrio, si vede da un lato distendersi il versante battuto dal sole, forse con la neve accecante e, in basso, il verde delle prime pendici; d'altro lato, ecco, invece, l'ombra che rende tutto triste e scuro. Eppure è necessario avere una visione d'insieme per abbracciare il monte. Così è appunto la conoscenza umana: riusciamo solo a vedere un versante della realtà; ma è necessario sapere che ne esiste un altro a noi ignoto. L'immagine che usava Gandhi è illuminante: la verità è come un diamante, ha molte facce; noi ne vediamo solo una per volta, Dio le vede tutte insieme. Dall'Oriente lontano giunge a noi, con la stessa lezione, questa mini-parabola dei Dialoghi di quel grande maestro di morale e spiritualità che è stato il cinese Confucio: sapere di sapere e, al tempo stesso, di non sapere, questo è il vero sapere. Tale ignoranza non è quella becera o arrogante; è, invece, la docta ignorantia celebrata nel Medio Evo. E se è vero che una mente così raffinata com'era quella di Tommaso d'Aquino affermava che noi non riusciamo mai a cogliere in pienezza l'essenza di una mosca, quanto più dobbiamo essere umili noi, con intelligenze ben più ristrette, quando vogliamo inoltrarci nei vasti campi della natura e del mistero divino. Persino Voltaire, che è per tutti il corifeo del razionalismo trionfante, confessava: «Siamo ciechi che procedono e ragionano a tentoni». La ragione è, comunque, preziosa, ma non dev'essere considerata un idolo, perché ben presto rivela la sua impotenza di fronte all'immensità degli orizzonti dell'essere e dell'esistere.


card. Gianfranco Ravasi

"Il Mattutino! - da L'Avvenire


auroraageno
00domenica 2 ottobre 2011 14:48




NÉ LUCI NÉ LAMPADE



Non sono importanti luci e lampade, né luna e sole. Ciò che è necessario è avere occhi puri e aperti, capaci di vedere la gloria di Dio. Neanche la Gerusalemme nuova e celeste dovrà ricorrere a luci naturali o artificiali: «La città non ha bisogno della luce del sole — si legge nell'Apocalisse (21,23) — né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l'Agnello». Certamente, aveva nel cuore queste parole del grande Veggente la scrittrice svedese Selma Lagerlöf, Nobel 1909, morta nel 1940, quando dipingeva la visione propria della fede. Ricordo di aver conosciuto questa autrice da ragazzino alle elementari, leggendo in un libro scolastico un suo racconto che attingeva forse alle saghe delle sua terra. Poi, per merito dell'editrice milanese Iperborea, conobbi altri suoi testi più impegnativi come, ad esempio, L'imperatore di Portugallia, e rimasi sempre conquistato dalla sua abilità nel fondere realismo e leggenda, quotidiano e fantastico, verità psicologica e stupore cosmico. Alle parole citate ci affidiamo in questa domenica autunnale, mentre la luce si fa più delicata e meno aggressiva di quella estiva, per suggerire un'avventura dello spirito. È l'invito a chiudere gli occhi al chiarore esterno per ritrovare un altro fulgore, quello dell'anima. Sappiamo che il grande Goethe ha comparato il nostro spirito all'acqua e al vento: «Anima dell'uomo, come sei simile all'acqua! Destino dell'uomo, come sei simile al vento!». Ma si dice che, alle soglie della morte, avesse invocato: Mehr Licht!, «Più luce!». E, forse equivocando, quelli che lo assistevano gli spalancarono la seconda finestra della stanza. In realtà, quando si sta in silenzio per vivere un evento importante della vita, è necessario scoprire la luce interiore che è un riflesso di quella divina: «Dio è luce e in lui non v'è tenebra alcuna… Veniva nel mondo la luce vera» (1 Giovanni, 1,5; Giovanni 1,9).


card. Gianfranco Ravasi

"Il Mattutino" - da L'Avvenire


auroraageno
00martedì 4 ottobre 2011 10:47



AZIONI GRANDI E BUONE


Nella maggior parte dei casi gli uomini riescono meglio a compiere le grandi azioni piuttosto che fare quelle buone. Ci sono alcune alternative che si presentano nella vita e che costringono a una scelta simile a quella che si fa quando si è di fronte a un crocevia. È noto il mito classico di Ercole, narrato da Senofonte, che si imbatte a un incrocio in due donne che gli indicano strade antitetiche: i loro nomi sono emblematici, Areté, «Virtù», e Kakía, «Vizio, Malvagità». Purtroppo — come sosteneva lo scrittore Emile Cioran — «il male, al contrario del bene, ha il duplice privilegio di essere affascinante e contagioso». Cosa ribadita con la solita sua ironia dal regista americano Woody Allen il quale era convinto, certo, che «ad essere buoni si dorme meglio, ma i cattivi da svegli si divertono di più». Ha, quindi, ragione il grande Montesquieu, l'artefice settecentesco della distinzione dei tre poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) nella politica, che ci ha lasciato il motto sopra citato. Ci sono grandi azioni che sono anche buone, e la mirabile opera di san Francesco, che oggi commemoriamo, ne è un'evidente attestazione. È, però, testimonianza costante della storia che l'umanità ha compiuto uno spreco enorme di risorse in realizzazioni colossali, eppure moralmente indegne. Anzi, si è pronti a stringere i denti e a faticare senza posa per avere una porzioncina di gloria o una particina nella memoria pubblica, anche a costo di passar sopra al cadavere di altri e di strappare tutte le remore della coscienza. Compiere, invece, un nascosto e generoso atto di carità ci fa sbuffare e persino ci irrita. Questa sorta di legge che governa la fama, il successo e l'onore è ribaltata dalla logica evangelica del «non suonare la tromba come fanno gli ipocriti per essere lodati dalla gente… Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra» (Matteo 6, 1-4).


card. Gianfranco Ravasi

"Il Mattutino" - da L'Avvenire


auroraageno
00mercoledì 5 ottobre 2011 09:59


A CORTE



L'uomo che sa vivere a corte domina i suoi gesti, gli sguardi e il volto. Si mostra impenetrabile, sorride ai nemici, controlla il temperamento, maschera le passioni, smentisce il suo cuore, parla e agisce contro i suoi stessi sentimenti. Tutto questo intenso esercizio altro non è che un vizio che si chiama «falsità». Per capire queste righe parliamo un po' del loro autore, un personaggio del Seicento francese che appare in questo nostro spazio non certo per la prima volta. Si chiamava Jean de La Bruyère ed era un medio borghese assunto come precettore del duca di Borbone. Fu in quell'ambiente aristocratico, molto artefatto e ipocrita, che egli raccolse il materiale umano per comporre i suoi Caratteri (1688), una galleria di figure e figuri che incarnavano comportamenti e vizi, soprattutto delle alte classi. Abbiamo scelto questo schizzo delizioso del cortigiano, una vera e propria maschera, pronto a far calare la visiera su pensieri, sentimenti ed emozioni personali. Alla fine tutto converge verso un profilo morale, quello che senza titubanze lo scrittore chiama «falsità». Le corti ora sono sempre più rare, ma resistono ancora questi esemplari di doppiezza un po' in tutti gli ambienti, anche in quelli ecclesiastici. È pur vero che ora - anche nell'alta società - impera il cosiddetto cafonal che è apparentemente il contrario dello stile descritto da La Bruyère, con la sguaiataggine e la volgarità erette a vessillo. Tuttavia, il metodo è sempre lo stesso: ostentare una faccia artificiosa per avere successo. Successo? Forse non è proprio così, nonostante qualche comparsata televisiva e l'apparizione su squallidi rotocalchi di gossip. Concludeva, infatti, il nostro autore con una nota realistica: «Questa falsità è talora altrettanto inutile al cortigiano (per sua fortuna!) quanto la franchezza, la sincerità e la virtù».


card. Gianfranco Ravasi

"Il Mattutino" - da L'Avvenire


auroraageno
00giovedì 6 ottobre 2011 09:00


Una strada a fondo cieco


Esiste una cosa sola che ci fa male ed è questa che noi desideriamo fare. Se, invece, ci sforziamo di compiere gesti buoni o virtuosi, la scelta è così grande e ampia che alla fine ci stanchiamo già prima di decidere. Questa considerazione, contenuta nei suoi Racconti di New York (Bur-Rizzoli 2010), divenne disgraziatamente proprio la guida infelice della sua vita. Bellissima, geniale, giunta in America dalla nativa Irlanda, Maeve Brennan fu una delle giornaliste più acclamate scrivendo sul prestigioso New Yorker. Ma verso i cinquant'anni imboccò la via che la poteva annientare: alcolizzata, visse un'esistenza da emarginata fino alla morte avvenuta nel 1993. Quante volte è accaduto anche a me di incontrare persone che avevano mille possibilità di realizzazione per intelligenza, bellezza, umanità e persino per mezzi concreti. E, invece, avevano scelto l'unica strada sassosa e a fondo cieco che li aveva fatti cadere nel fango e nel vuoto. L'arcobaleno del bene ha infinite tonalità che permettono creatività, fantasia, libertà, immaginazione. Il male è ripetitivo e anche quando si dice che le perversioni sono infinite, in realtà il loro colore è monocromo e cupo: si pensi solo alla bieca reiterazione della pornografia. Eppure, spesso ci si lascia comprimere in quella strettoia e si procede scivolando verso il basso in modo quasi autolesionistico. Al contrario, quando si è di fronte alla «grande e ampia scelta» del bene, si rimane in attesa, inerti, senza il coraggio di avviarsi con un balzo lungo una di quelle strade. Manzoni, nei Promessi Sposi, scriveva: «Si dovrebbe pensare più a far bene che a star bene: e così si finirebbe a star meglio».


card. Gianfranco Ravasi

"Il Mattutino" - da L'Avvenire


auroraageno
00venerdì 7 ottobre 2011 10:02



IL GIOVANE VIANDANTE



L'esempio degli antenati è come una bisaccia per il giovane viandante. «Vista dai giovani la vita è un avvenire infinitamente lungo; vista dai vecchi è un passato molto breve». Due punti di vista antitetici, entrambi con una loro verità, anche se - proprio perché ormai sono anziano - penso abbiano più ragione i vecchi. A proporci questa considerazione è il filosofo tedesco dell'Ottocento, Arthur Schopenhauer, nei suoi Aforismi sulla saggezza del vivere: forse, nel suo pessimismo, era convinto che entrambi avessero torto perché la vita, lunga o breve che appaia, è sempre un peso da portare. Al filosofo noi, invece, abbiamo accostato oggi una ben diversa riflessione riguardante sempre vecchi e giovani. Essa riflette l'antica sapienza egiziana e parla di un'eredità che non è quella materiale per cui spesso ci si accapiglia tra figli. Per il lascito di insegnamenti, di esempi, di valori non ci si batte con la stessa foga. Eppure, come ben dice il proverbio sopra citato, è questa la bisaccia colma che il giovane dovrebbe portare con sé sulla strada della vita. Qualche spirito malizioso potrebbe obiettare: in questa epoca di padri assenti è mai possibile che la bisaccia riceva qualcosa? E i figli sono forse pronti ad aprire la loro moderna pochette per accogliere cose che considerano ammuffite e retrive? Nonostante questo, noi continuiamo a sperare che ci siano anziani che hanno qualcosa da dire e da dare di vero, giusto e bello e che ci siano ragazzi non rimbambiti da miti illusori ma sensibili a voci diverse dalle loro. Aveva ragione il vecchio Cicerone quando nel suo De senectute scriveva: «Come mi piace il giovane che ha in sé qualcosa di vecchio, così mi piace il vecchio che ha in sé qualcosa di giovane».


card. Gianfranco Ravasi

"Il Mattutino" - da L'Avvenire


auroraageno
00sabato 8 ottobre 2011 12:37

DOMANI, E DOMANI, E DOMANI


Domani, e domani, e domani, / striscia a passi lenti il tempo che ci è assegnato / di giorno in giorno fino alla sua sillaba estrema. Tomorrow, and tomorrow, and tomorrow…: lenta ma implacabile come una colata di lava avanza il fiume del tempo che ci è stato prescritto. La sua corrente trascina con sé ore e giorni, spesso simili a scatole vuote, che vagolano alla deriva verso l'estuario finale. Sembra tanto lunga la distesa di quei «domani, e domani, e domani» da permetterci di non badare al loro uso e consumo. E così, all'improvviso ci resta tra le mani solo the last syllable, la sillaba estrema del discorso della vita. C'è stato qualche teologo che ha pensato che Dio ci permette con quell'ultima parola di ribaltare il nostro destino, concedendoci una suprema istanza d'appello. Ma è anche necessario non sfidare quel Dio che pure ci ha donato tanti «domani», quando saremo giunti all'«oggi» definitivo senza più «domani» della nostra fine. Non abbiamo ancora detto chi sia l'autore della nostra citazione odierna. Forse molti l'hanno già individuato: è il grande Shakespeare dell'indimenticabile Macbeth (V,5,19-21), ove impera la terribile moglie del generale del re di Scozia, Lady Macbeth, colei che in un crescendo di odio e di sangue saprà, sì, colmare i suoi giorni, ma che alla fine si troverà davanti alla «sillaba estrema» del rendiconto con la sua coscienza e precipiterà nel suicidio. «Sempre il puzzo del sangue! E tutte le essenze d'Arabia non riusciranno più a profumare questa piccola mano!» (V, 1). Raccogliamo l'invito del poeta a non lasciar scorrere nel vuoto o, peggio, nel male il fiume della vita fino a the last syllable.


card. Gianfranco Ravasi

"Il Mattutino" - da L'Avvenire


auroraageno
00domenica 9 ottobre 2011 19:08

CINQUE CHICCHI DI RISO


1. Il frutto del silenzio è la preghiera. 2. Il frutto della preghiera è la fede. 3. Il frutto della fede è l'amore. 4. Il frutto dell'amore è il servizio. 5. Il frutto del servizio è la pace. Quand'era in vita, apriva le sue giornate proprio leggendo quel «Mattutino» che io proponevo ogni mattina: me l'aveva confessato lui stesso, Igor Man, grande giornalista scomparso un paio d'anni fa, persona di spontanea umanità e simpatia, oltre che di forte intelligenza. Un giorno mi inviò una lettera nella quale mi suggeriva questo testo, dicendomi che glielo aveva scritto in inglese su un foglietto Madre Teresa di Calcutta durante un incontro. Per ricordare entrambe queste figure, ma anche per la «verità» di questi «cinque chicchi di riso», come li aveva intitolati la stessa autrice, vorrei affidarli in questa domenica a tutti i miei lettori. La semplicità del dettato non sminuisce, anzi fa risplendere la profonda spiritualità di questo messaggio nei cui confronti l'unica reazione possibile è l'esame personale di coscienza. Sono come le stelle che dovrebbero accendersi nel cielo della vita di un cristiano: silenzio, preghiera, fede, amore, servizio, pace. Porrò l'accento solo su una coppia di termini che, a prima vista, possono sembrare sinonimi: amore e servizio. In realtà, il primo è un atteggiamento interiore radicale e permanente, è una luce costante dell'anima. Una luce che bagna e avvolge il servizio concreto che si offre. In tal modo quest'ultimo non è più mera filantropia o assistenza sociale, ma diventa un atto religioso, un gesto spirituale, un segno divino. Non è più un puro e semplice «servire» per contratto, ma un dono libero e gioioso.


card. Gianfranco Ravasi

"Il Mattutino" - da L'Avvenire


auroraageno
00martedì 11 ottobre 2011 10:21



LE PALPEBRE


Un discepolo si era macchiato di una grave colpa. Tutti gli altri reagirono duramente condannandolo. Il maestro, invece, non reagì e non lo punì. Uno dei discepoli non seppe trattenersi e sbottò: «Non si può ignorare ciò che è accaduto: dopo tutto, Dio ci ha dato gli occhi!». «È vero, ma anche le palpebre!», replicò il maestro. A proposito di occhi, come non ricordare che il miglior commento a questo bell'apologo della spiritualità indiana è proprio nel Vangelo? «Perché guardi la pagliuzza nell'occhio del tuo fratello e non t'accorgi della trave che hai nel tuo occhio?» (Matteo 7,3). Ci sono in tutti gli ambienti, anche in quelli ecclesiali, questi occhiuti censori del prossimo, implacabili nel denunciare gli errori altrui, sdegnati perché si è troppo corrivi e misericordiosi. Si ergono altezzosi nel loro compito di giudici, attestando che essi vogliono rendere un servizio alla verità e alla giustizia e che il loro sdegno è profondo e amaro ma sincero. In realtà, essi si crogiolano nel gusto di sparlare degli altri e si collocano su un piedestallo che spesso è falso e artificioso: la parabola del fariseo e del pubblicano è il miglior ritratto di questi personaggi. Il racconto indiano sopra citato è accompagnato da un paio di versi dello sterminato (almeno 106 mila distici!) poema epico indiano Mahabharata: «L'uomo giusto si addolora nel biasimare gli errori altrui, il malvagio invece ne gode». Purtroppo, si deve confessare che questo sottile e perverso piacere di aprire tutti e due gli occhi sulle colpe del prossimo è una tentazione insopprimibile che lambisce tanti. Infatti — ed è il Cortegiano dell'umanista Baldesar Castiglione a ripeterlo — «tutti di natura siamo pronti più a biasimare gli errori, che a laudar le cose ben fatte».


card. Gianfranco Ravasi

"Il Mattutino" - da L'Avvenire


auroraageno
00mercoledì 12 ottobre 2011 11:46




COLORE, OCCHIO, ANIMA



Il colore è un mezzo per esercitare sull'anima un'influenza diretta. Il colore è come il tasto, l'occhio è il martelletto che colpisce, l'anima è lo strumento dalle mille corde. Questa immagine fonde insieme visione e suono, pittura e musica, ma il suo scopo ultimo è quello di intrecciare arte e spiritualità, raggiungendo l'anima. Il simbolo è evidentemente quello del pianoforte, uno strumento meccanico che genera, però, armonia trascendente. Tutti gli elementi sono necessari e si uniscono per dare un risultato che li supera. Così è per la pittura: il colore è un impasto naturale o chimico, c'è una tecnica pittorica da seguire, la tela o il supporto materiale sono indispensabili, ma alla fine l'esito sboccia dall'anima dell'artista e colpisce l'anima del fruitore. Costui, a sua volta, segue un'operazione fisica attraverso il suo occhio, ma non solo per vedere, bensì anche per contemplare, raggiungendo un'esperienza superiore. A ricordarci tutto questo è un famoso pittore russo, Vasilij V. Kandinskij (1866-1944) nel suo saggio Della spiritualità dell'arte. Noi ci accontentiamo ora di suggerire solo una modestissima considerazione. L'Italia è un paese colmo di musei e di opere d'arte, ma purtroppo ospita un popolo distratto e spesso volgare che non riesce neppure nella scuola a insegnare l'amore genuino per l'arte e la musica (basti solo seguire una scolaresca in un museo, e io ne so qualcosa, avendo per anni diretto la Pinacoteca Ambrosiana di Milano). L'artista non rappresenta il visibile: sarebbe banale come un pittore della domenica. Egli ci invita a scoprire nel visibile l'Invisibile. Aveva ragione lo scrittore Karl Kraus: «Arte è ciò che il mondo diventerà, non ciò che il mondo è». Per questo, essa non si ferma mai ai nostri occhi, ma mira all'anima.


card. Gianfranco Ravasi

"Il Mattutino" - da L'Avvenire


auroraageno
00giovedì 13 ottobre 2011 09:57


VIAGGIO ALLA FINE DELLA NOTTE



Per incontrare la speranza, bisogna andare di là della disperazione. Quando si va sino alla fine della notte, si incontra una nuova aurora. Viaggio al termine della notte è il titolo di un romanzo provocatorio che uno scrittore francese considerato “scandaloso” e irritante, Louis Ferdinand Céline, pubblicò nel 1932. Africa, America o Francia sono per il protagonista, un reduce della prima guerra mondiale, del tutto identiche e spietate: il suo sguardo ironico e disincantato indossa costantemente le lenti offuscate del pessimismo. Ebbene, proprio in quegli stessi anni un altro autore francese, Georges Bernanos, a cui non di rado abbiamo rimandato per le nostre riflessioni, scriveva le righe sopra citate che ripropongono un altro viaggio sino alla fine della notte. Ma il suo è un messaggio antitetico: per Céline c'è sempre e solo buio, per Bernanos non può non esserci un'altra alba, come accade per ogni nostra giornata. S'incontrano o, meglio, si scontrano due concezioni antitetiche che potremmo rubricare sotto le voci «pessimismo/ottimismo», ma che in verità sono più profonde. In esse ci imbattiamo spesso non solo nelle piazze della storia, ma persino nel campo aperto della nostra anima. C'è, da un lato, il tempo del non-senso, quando il nostro pensare è esangue e sbiadito, il nostro parlare è vuoto e scipito, il nostro agire scialbo e infruttuoso. Questo pallore cadaverico che la vita acquista nasce da una crisi interiore più grave di una malattia fisica. Bisogna porvi mano, lottando a denti stretti per ritrovare, d'altro lato, una diversa tensione, quella che ti mette in cammino verso la fine della notte, rendendoti ancora desideroso dell'aurora che sta per spuntare e delle ore di una nuova giornata.


card. Gianfranco Ravasi

"Il Mattutino" -da L'Avvenire


auroraageno
00venerdì 14 ottobre 2011 09:08
Amore e vecchiaia


Amore e vecchiaia


Il vero amore: la vecchiaia lo rende ancor più forte, la morte lo consacra, l'eternità lo fa continuare. Sono tanti i nemici che stanno in agguato quando l'amore passa nella nostra vita, pronti ad assalirlo, ferirlo e umiliarlo. Tra questi ci sono anche le infinite melensaggini dette e canticchiate sull'amore: si provi a sfogliare certe antologie sul tema o a divertirsi coi bigliettini degli innamorati o con quelli coi quali vengono avvolti dei dolci notissimi. Il rischio della retorica forse lo corre un po' anche il grande della letteratura francese che oggi abbiamo convocato, Victor Hugo, il quale ci offre una sua definizione del vero amore. La solennità dello stile con cui è formulato l'asserto può sminuire la verità che esso custodisce. Una verità, per altro, già proclamata dal poema biblico per eccellenza dell'amore, il Cantico dei cantici che in finale ci lascia un motto indimenticabile: «sì, forte come la Morte è Amore!» (8,6). Nel testo di Hugo si ricorda che la morte, anziché spezzare quel vincolo, lo suggella e la strada infinita dell'eternità vede i due innamorati incamminarsi nella luce e nella gioia che non verrà loro mai tolta. Più semplicemente a noi, invece, piace ora mettere l'accento sull'ultima tappa della strada terrena, la vecchiaia. Certo, anche là può emergere la debolezza morale della persona: impressionante è la descrizione delle voglie segrete dei due anziani nei confronti della bellissima Susanna del celebre racconto biblico (Daniele 13). Tuttavia, è altrettanto vero che ci sono moltissime coppie di vecchi che vivono il loro amore con un'intensità e una freschezza del tutto ignote ai giovani. Costoro "consumano" atti sessuali, ma non conoscono lo stupore e la felicità generati dalla tenerezza, dal sentimento, dall'implicito, dalla sintonia interiore. Una coppia di anziani che dolcemente si tengono per braccio in un parco cittadino: ecco un emblema di serenità e di vero amore.


card. Gianfranco Ravasi

"Il Mattutino" - da L'Avvenire


auroraageno
00sabato 15 ottobre 2011 10:06


IL FICCANASO



Signore, tu sai che invecchio di giorno in giorno e che un giorno sarò vecchia: difendimi dall'impulso di dover dire sempre la mia in ogni occasione. Liberami da quell'immenso desiderio di voler mettere ordine negli affari degli altri. Insegnami ad essere riflessiva e soccorrevole, ma non prevaricante. Insegnami la meravigliosa saggezza dell'ammettere che io posso anche sbagliarmi. Fa' che io sia il più possibile amabile. Era il 4 ottobre 1582 e ad Avila moriva Teresa de Cepeda y Ahumada, colei che sarebbe poi diventata la celebre santa Teresa di Gesù o d'Avila, proclamata dottore della Chiesa da Paolo VI nel 1970. Noi la ricordiamo oggi perché a causa della riforma del calendario da parte di papa Gregorio XIII - che entrava in vigore proprio in quei giorni - fu avanzato di una decina di giorni il computo delle date. Teresa aveva un carattere forte, una mente lucida, una penna non di rado tagliente. Lo testimoniano le righe da noi citate, molto realistiche e vivaci. Il lento scorrere degli anni invecchia corpo e intelligenza e in agguato c'è sempre il rischio della petulanza prevaricatrice nei confronti degli altri o delle novità. In italiano per definire questo vizio, che in verità non colpisce solo gli anziani, c'è un termine familiare molto vivace, il «ficcanaso». L'impiccione che è in tutti noi è sempre in agguato, pronto a giudicare, a criticare, ad assegnare pagelle agli affari altrui. L'invadente è una figura vanamente contrastata dal tanto conclamato appello alla privacy: lo stesso gossip (che è purtroppo ben diverso dal tradizionale e più bonario pettegolezzo) diventa ai nostri giorni sempre più aggressivo e mantiene prosperamente in vita riviste e programmi televisivi indegni. Ecco, allora, il monito di Teresa all'amabilità, al rispetto, all'autocritica, al «non giudicare per non essere giudicati» e - perché no? - anche al saper invecchiare con grazia e affabilità.


card. Gianfranco Ravasi

"Il Mattutino" - da L'Avvenire


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