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IL MATTUTINO - Pensieri quotidiani di Mons. Ravasi

Ultimo Aggiornamento: 31/12/2011 08:51
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15/12/2011 14:28



ASSEGNI IN BIANCO



I giorni della nostra vita sono come un blocchetto di assegni in bianco. Li puoi spendere come vuoi, ma l'ultimo devi riservarlo a Lui. «Tutti i giorni vanno verso la morte, l'ultimo vi arriva», ammoniva nei suoi Saggi il pensatore francese Montaigne. È un'altra francese, di origine ebrea, Simone Weil, a rileggere quel monito in chiave spirituale nella frase sopra citata tratta dal suo libro L'ombra e la grazia. I giorni di questo 2011 stanno lentamente colando verso la loro fine: abbiamo avuto tra le mani un assegno in bianco e ciascuno di noi, nell'intimità della sua coscienza, può dire se l'ha investito, se l'ha lasciato in un cassetto a impolverarsi, se l'ha strappato o macchiato rendendolo invalido. Ma soprattutto - continua la Weil, donna di straordinaria intelligenza e intensa spiritualità, morta a soli 34 anni nel 1943 - c'è un ultimo assegno che si deve intestare a Dio. È quello del bilancio della propria esistenza che, se si vuole, può diventare una metafora della conversione. Durante la vita abbiamo avuto una disponibilità di intelligenza, tesori di amore, fondi di beni materiali, depositi di sentimenti, ricchezze di amicizie e forse abbiamo sprecato e dissipato tale patrimonio, sacrificandolo all'egoismo, dissolvendolo nelle banalità, riservandolo a persone sbagliate. È, questo, il rischio intrinseco alla nostra libertà. Ma questa stessa libertà può farci decidere di impiegare bene l'ultimo assegno. Noi, però, non sappiamo quale sia: potrebbe essere quello datato 2012 o molto più il là nel tempo. Per questo, allora, è prudente intestare subito a Dio e al bene l'assegno che abbiamo ora tra le mani perché - come diceva un altro francese, il poeta Lamartine - «l'uomo non ha porto, il tempo non ha riva: esso scorre e noi passiamo!».


card. Gianfranco Ravasi

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16/12/2011 10:07



IL CAVALLO NERO



Chi è affamato non ha scelta: il suo spirito non proviene da dove lui vorrebbe, bensì viene dalla sua fame. Nella marcia terrificante dei quattro cavalieri dell'Apocalisse, il terzo cavalca un destriero nero e regge in mano una bilancia con la quale pesa con parsimonia e a prezzi elevati le derrate alimentari: è il simbolo della fame, che anche noi talora definiamo come "nera", e delle carestie che imperversano sul nostro pianeta (6,5-6). Una tragedia che umilia non solo il corpo riducendolo a una larva, ma anche l'anima che riesce appena a emettere il desiderio istintuale di sopravvivenza. È ciò che ricorda, in un diario curiosamente intitolato «d'antepace» (così come ne aveva scritto uno «di dopoguerra»), lo scrittore svizzero tedesco Max Frisch (1911-1991), particolarmente sensibile ai temi sociali e all'egoismo della società capitalistica. In questi giorni, passeggiando per le vie di Roma o di qualsiasi altra città o paese, ci si imbatte in un tripudio consumistico, divenuto ormai la sigla di un Natale ricco di prodotti e povero di spiritualità. Scherzando, un giorno lo scrittore inglese Chesterton confessò: «Ieri in metropolitana ho avuto il piacere di offrire il mio posto a tre signore!». Sì, per noi l'incubo è l'obesità, il comandamento del dopo-feste sarà la dieta e l'impulso dominante ora è l'acquisto, anticamera dello spreco. Per questo, è importante seguire quel cavallo nero per non farci dimenticare coloro il cui incubo è la fame, il cui comandamento è sopravvivere e l'impulso è il rovistare nell'opulenta spazzatura del nostro sperpero. Scriveva san Paolo: «Cristo, da ricco che era, si fece povero, perché voi diventaste ricchi della sua povertà» (2 Corinzi 8,9).


card. Gianfranco Ravasi

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17/12/2011 11:15



IL NUOVO PROVINCIALISMO



Nella nostra epoca gli uomini sembrano più portati a confondere la saggezza con la dottrina e la dottrina con l'informazione. Si sta sviluppando una nuova specie di provincialismo, fatto non di spazio ma di tempo: il mondo è proprietà esclusiva dei vivi, una proprietà di cui i morti non possiedono azioni. È morto da quasi mezzo secolo, nel 1965, eppure le parole di uno dei massimi poeti del Novecento, Thomas S. Eliot, colpiscono nel segno la società e la cultura in cui oggi viviamo. Non è forse vero che anche la scuola si sta adeguando a venerare la nuova trinità "Internet-Inglese-Impresa", fissandosi tutta sul presente, sull'utilitarismo, sull'informazione? È un provincialismo temporale (e non solo spaziale: c'è anche quello): la grande eredità civile, culturale e spirituale del passato è ormai ostracizzata o ignorata; ben altre sono le questioni che premono, quelle appunto dell'efficienza, della logica di mercato e di consumo, della produttività. E, così, si scambia la sapienza, che è visione d'insieme, con le teorie di una tecnica sofisticata ma disumana e amorale, e si confonde la dottrina teorico-pratica con una superficiale informazione. È, dunque, necessario non aver timore di riproporre, anche nella religione, la conoscenza seria del grande lascito che sta alle nostre spalle, evitando la riduzione all'immediato, all'utilitaristico, alla superficialità. Bisogna ritornare al rigore della ricerca non solo scientifica, ma anche umanistica. Aveva ragione il filosofo francese Jean-Jacques Rousseau quando, nella Nuova Eloisa, scriveva: «L'arte di interrogare non è facile come si pensa. È arte più da maestri che da discepoli: bisogna aver già imparato molto per saper domandare ciò che non si sa».


card. Gianfranco Ravasi

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18/12/2011 18:49



LA SIESTA NEL POMERIGGIO



Un re corrotto domandò a un uomo pio: «Tra gli atti di culto che compio, qual è il più gradito a Dio?». L'uomo pio rispose: «La siesta che fai nel pomeriggio, perché è l'unico tempo in cui non tormenti nessuno!». «Questo libro resterà per lunghi anni, dopo che ogni granello della mia polvere sarà disperso, perché so quanto veloce fugge la vita!». Così scriveva del suo Golestân («Il roseto») Sa'dî, un sapiente mistico persiano vissuto per più di cent'anni tra il XII e il XIII secolo. I fiori che sbocciano in questo giardino poetico sono lezioni di vita, talora punteggiate da una stilla di ironia amabile. È il caso di questo apologo sul potere oppressivo. Non di rado dei dittatori si dice che vegliano sempre sulla loro nazione, mentre sarebbe meglio che dormissero di più… Al riguardo, scriveva ancora Sa'dî: «Un re vide un asceta e gli chiese: Non ti ricordi di me? Sì, rispose l'asceta, quando dimentico Dio!». Vorrei, però, porre l'accento nella parabola sopra citata sul tema del riposo che, tra l'altro, scandisce l'odierna giornata domenicale. Ovviamente la siesta è necessaria al corpo ed è tutto quello che nel giorno di festa sa offrire la società contemporanea, classificandolo sotto il vocabolo inglese relax. Un termine significativo che rimanda al «rilassamento» e spesso questo atteggiamento non è solo la distensione fisica, ma anche l'allentamento morale. Noi, invece, pensiamo a un altro riposo che si trasfigura proprio in una sorta di "roseto" simbolico. È la variante spirituale di quello che descriveva Machiavelli in una sua lettera del 1513: «Venuta la sera, mi ritorno in casa ed entro nel mio scrittoio; mi spoglio della veste cotidiana piena di fango e loto, e mi metto panni reali e curiali…» per dialogare coi grandi del passato e «pascersi di quel cibo che solum è mio». Incontrare sé stessi e le cose alte nella quiete della propria camera.


card. Gianfranco Ravasi

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20/12/2011 17:59



DIO E IL PENSIERO



L'uomo non si deve accontentare di un Dio pensato perché così, quando il pensiero ci abbandona, ci abbandona anche Dio. La pensée fait la grandeur de l'homme: non c'è bisogno di tradurre questo che è uno dei Pensieri del grande filosofo francese Pascal. Il suo contemporaneo e altrettanto celebre Cartesio aveva coniato quel Cogito, ergo sum che abbiamo imparato a scuola e che univa intimamente essere e pensiero umano. Ma molti secoli prima, nella lontana India, tra le sentenze buddhiste del Dhammapada si leggeva: «Tutto quello che siamo è il risultato di ciò che abbiamo pensato: è fondato sui nostri pensieri, è formato dai nostri pensieri». Lode, quindi, al pensiero umano, che si inoltra nei meandri dell'essere, dell'esistere e del mistero. C'è, tuttavia, un «ma» che proprio Pascal ha scritto subito dopo nei suoi Pensieri esaltando, come è noto, le «ragioni del cuore» e concludendo che «l'ultimo passo della ragione è riconoscere che ci sono infinite cose che la sorpassano». A questo punto entra in scena la fede, una conoscenza che segue un altro percorso parallelo a quello dell'amore. E qui vale la considerazione sopra citata sul Dio solo «pensato» che faceva Meister Eckhart, un geniale mistico e teologo domenicano tedesco contemporaneo di Dante. Nei suoi scritti egli spesso procedeva quasi sulla lama di un coltello, inoltrandosi nel mistero divino o in quello dell'essere e del nulla, lungo territori labili di frontiera. Un Dio che alberga solo nel ragionamento è insufficiente perché, se dovesse scricchiolare l'argomentazione razionale, anch'egli si dissolverebbe. Esemplare l'itinerario di Giobbe che a lungo s'interroga su Dio, ma alla fine è l'incontro a svelarlo: «Io ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti vedono» (42,5).


card. Gianfranco Ravasi

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21/12/2011 16:27




UN RAGAZZINO NEGRO


Sono un ragazzino negro, una goccia d'acqua pura / a cui la gioia di vivere ha fatto crescere in cuore / un giovane mais lucente di freschezza… O miseria, corsara armata fino alle radici, / o crudele brigante che rapì la mia infanzia! Anch'io da bambino ricordo l'emozione con cui, nella piazza principale del paese nativo di mia madre, assistevo alla gara dell'ascensione quasi impossibile sul lustro e scivoloso palo della cuccagna da parte di contadini che aspiravano ai doni lassù sospesi. Molti anni dopo, nel 1993, rividi la stessa scena con tutta la sua forza simbolica attraverso le pagine del romanzo L'albero della cuccagna (ed. Jaca Book). A descrivere quella sfida, sospesa tra lo slancio ascensionale verso la prosperità e l'appagamento e, invece, le cadute precipiti nella delusione della polvere, era René Depestre, il maggiore scrittore dell'isola di Haiti. Un'isola che, purtroppo, è nella memoria di tutti solo per storie di terremoti, di fame, di oppressioni, di violenze, di "cuccagne" soltanto sognate. A due suoi frammenti poetici ho oggi riservato spazio perché, mentre ci affrettiamo in acquisti, tra regali e oggetti superflui, sotto un cielo più popolato di insegne pubblicitarie che di stelle, gettiamo uno sguardo anche sul visino negro che conosce quella "corsara" che è la miseria. Essa strappa a tante giovani donne immigrate la loro giovinezza e la dignità sui marciapiedi delle nostre città opulente. Sporca quelle gocce d'acqua pura che sono i ragazzi costringendoli a un'esistenza indegna, priva di quella gioia di vivere che fiorisce nei loro cuori come il mais lucente delle loro terre d'origine. In questi giorni non dimentichiamo il «ragazzino negro» di Haiti.


card. Gianfranco Ravasi

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22/12/2011 09:02



LA PASSERELLA D'EMERGENZA



Tra gli esseri umani, anche se intimamente uniti, è sempre aperto un abisso che solo l'amore può superare. E solo con una passerella d'emergenza. Alcuni suoi romanzi, come Siddharta o Narciso e Boccadoro, sono sempre disponibili in libreria e trovano lettori anche tra i giovani. Sono, invece, ricorso oggi a una sua opera minore, Knulp, per parlare di matrimonio e famiglia, tema a cui ci riporta l'atmosfera natalizia. Sto parlando dello scrittore tedesco Hermann Hesse (1877-1962) che offre una nota suggestiva valida anche per la coppia o per il rapporto genitori-figli. Ogni persona è pur sempre un'isola, un mistero a sé stante; al suo interno si apre un abisso che s'allarga anche all'esterno e non può essere facilmente valicato. Ciascuno di noi in questo momento deve riconoscere di avere questa voragine ove si agitano serpenti e riposano tesori. È un precipizio sul quale passano rari lampi di luce, che sono i nostri esami di coscienza, le confessioni, le confidenze. Per avere un qualche svelamento più vasto è necessaria una passerella su quel baratro: su di essa s'inoltra l'amore che è rivelazione, intimità, sincerità. Solo se l'altro - marito, moglie, figlio - ti offre questo ponte, tu potrai varcare quell'abisso e conoscerlo, condividendone le paure, ma anche i segreti dolci e teneri. Questo avviene solo per donazione reciproca, in una comunione di pensieri e affetti, senza calcoli o riserve. Aveva, infatti, ragione Erich Fromm quando, nell'Arte di amare (1956), scriveva: «La maggior parte della gente ritiene che amore significhi essere amati anziché amare». Ma con realismo Hesse parla non di ponte stabile e solido, ma di una «passerella d'emergenza»: è la nostra fragilità che sempre dobbiamo controllare. Amare è, allora, anche saper perdonare e ricominciare.


card. Gianfranco Ravasi

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23/12/2011 11:47




IL MONDO È UN PONTE


Gesù – che la pace sia con lui – disse: «Il mondo è un ponte. Attraversalo, ma non fermarti lì!». A una quarantina di chilometri da Agra, la capitale indiana dei Moghul, celebre per il suo indimenticabile Taj Mahal, si leva la città fantasma di Fatehpur Sikri, edificata nel '500 dall'imperatore Akbar, fautore del dialogo interreligioso. Ebbene, sulla moschea di quella città era stata incisa la frase assegnata a Gesù che oggi proponiamo, mentre avanziamo verso la fine dell'anno. Naturalmente il detto - che ha una sua forza poetica e spirituale - germoglia dai Vangeli, là dove Cristo invita a cercare un altro tesoro rispetto a quelli che offrono la storia e la terra, e a non affannarsi nell'accumulo dei beni caduchi (si leggano Matteo 6,19-34 e Luca 12,16-31). Un Vangelo apocrifo, quello attribuito all'apostolo Tommaso, contiene quest'altro appello di Gesù: «Siate gente di passaggio». E la Lettera agli Ebrei non esita a suggerire al cristiano di «uscire dall'accampamento» provvisorio in cui ci troviamo perché «non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura» (13, 13-14). La nostra civiltà è certamente di matrice sedentaria, tant'è vero che detestiamo i nomadi che s'accampano ai bordi delle nostre città. Eppure, mai come in questi tempi l'umanità si è fatta frenetica nel voler viaggiare, migrare, cercare. E spesso questa pulsione interiore è solo segno di scontentezza, di insoddisfazione, di un'attesa frustrata. Ecco perché è importante muoversi non solo fisicamente, ma anche spiritualmente, tenendo fissa una meta che dia senso all'esistenza. Oltre il ponte e il fiume turbolento della storia cerchiamo un approdo che sia però più in là, nell'infinito e nei vasti orizzonti dell'anima.


card. Gianfranco Ravasi

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24/12/2011 10:41



SENZA MADRE, SENZA DIO



Un mondo fondamentalmente maschile nel quale la donna non ha alcuna funzione è sempre più un mondo senza Dio, poiché, senza madre, Dio non può nascervi. Alle porte del Natale è lei a presentarsi davanti a noi, Maria di Nazaret, una donna incinta come tante altre madri, ma destinata a custodire in sé il mistero cristiano per eccellenza. Tutte le madri portano in sé un figlio adottivo di Dio, lei invece il Figlio di Dio senza altre specificazioni. Mentre lei avanza tra le strade di Betlemme col suo sposo Giuseppe alla ricerca di un alloggio, mentre per quelle stesse vie s'affollano coloro che devono registrarsi all'anagrafe imperiale romana, noi che a distanza di secoli contempliamo quella scena, ascoltiamo le parole di un teologo laico ortodosso, Pavel Evdokimov, vissuto e morto a Parigi nel 1970. Dal suo saggio La donna e la salvezza del mondo (1958) abbiamo estratto questo bel canto della femminilità. Certo, se sfogliamo la letteratura, è più facile che imperi l'ironia e persino il disprezzo che fluisce da penne di uomini convinti del loro primato arrogante. Purtroppo ci sono anche donne che si sono allineate a questo stile di spavalderia e di prevaricazione, imitando il maschio. Per fortuna, però, il mondo non è tutto maschile e, proprio per questo, il mondo non è senza Dio. Infatti, «senza madre, Dio non può nascervi». Ecco, allora, lei, la madre di Cristo, che salutiamo alle soglie del suo parto che è anche la nostra festa di Natale, giorno in cui la nostra solitudine nelle lande spesso desolate della nostra storia viene infranta da una presenza che ci supera e ci salva. Pur senza l'enfasi di quel poeta, con Gozzano possiamo dire: «Donna: mistero senza fine bello!».


card. Gianfranco Ravasi

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27/12/2011 09:54




ALL'USCIO DELLE NOSTRE CASE



Dio poteva obbligare gli uomini a obbedire come fanno le stelle. Egli, invece, si è fatto uomo e ha deposto la sua onnipotenza all'uscio delle case degli uomini. L'onnipotente che regge il cosmo se ne va come un mendicante tra la folla delle anime umane chiedendo come elemosina di spartire le ricchezze misteriose del suo essere. Quel Giovanni evangelista che oggi si festeggia è colui che ha scritto una delle frasi più celebri della storia umana: «Il Verbo divenne carne e pose la sua tenda in mezzo a noi», in quel mondo in cui sono accampati i figli e le figlie dell'uomo. Da allora egli si è messo a pellegrinare di tenda in tenda, di casa in casa, bussando alle nostre porte per essere invitato a mensa, reggendo tra le mani il dono della sua eternità (Apocalisse 3,20). Ma, proprio perché non ci ha creati come stelle che sanno solo dire «Eccomi!», simili a sentinelle senza libertà (Baruc 3,34-35), egli è pronto a sentirsi dire di no, anzi, ad essere persino cacciato in malo modo. Tutto questo è evocato nelle intense righe citate dal Roveto ardente, un'opera che la scrittrice norvegese Sigrid Undset pubblicò nel 1930 a cinque anni dalla sua conversione al cattolicesimo e a due dal Nobel per la letteratura. Scegliamo solo il simbolo dell'uscio al quale anche oggi vengono a bussare mendicanti, stranieri, ma anche conoscenti forse bisognosi solo di un po' di comprensione e calore. Purtroppo, anche con qualche ragione, siamo diventati sospettosi, abbiamo blindato le porte, reagiamo con diffidenza. E, così, spesso ignoriamo che era passato proprio Lui celato sotto i lembi cadenti di quei miserabili. Per questo, la tradizione giudaica invitava a lasciar socchiuso l'uscio di casa durante la cena pasquale: se fosse venuto, il Messia avrebbe trovato la porta aperta e accogliente; altrimenti, un povero sarebbe entrato recando la stessa luce del Messia.


card. Gianfranco Ravasi

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28/12/2011 11:11



IL TUTTO NEL NULLA


I fanciulli trovano il tutto nel nulla, gli uomini il nulla nel tutto. Dopo aver amato Leopardi nella mia adolescenza per la sua straordinaria poesia, molti anni più tardi ho imparato a conoscerne un altro profilo leggendo il suo Zibaldone, uno specchio della sua anima, dei suoi tormenti, delle sue insofferenze e ostilità. Sono pagine spesso roventi nella loro essenzialità e, in quest'anno trascorso insieme, ne abbiamo offerto più volte squarci ai lettori. È ciò che faccio per l'ultima volta oggi, nella festa dei Santi Innocenti, vittime della crudeltà e brutalità degli adulti; e ben sappiamo quanto fitta sia la folla degli Erodi che s'insinua nelle case, nei parchi, tra i giochi dei bambini e persino nelle chiese. Ora, però, il poeta di Recanati ci invita a una più lieve ma sempre seria riflessione. Tutti abbiamo provato talvolta a osservare un piccolo che gioca o che si fissa su un particolare minimo della natura: la realtà più semplice si trasfigura ai suoi occhi in un microcosmo in cui egli è ospite e signore, immerso nel suo desiderio di scoprire e sviscerare. Egli trova veramente il tutto in un nulla. Proprio al contrario della nostra superficialità di adulti che passa in mezzo a un mondo di meraviglie, a presenze luminose, con l'indifferenza di un mercante che calcola solo costi e ricavi, rischi e vantaggi. Il tutto, col suo mistero immenso, sembra a molti solo un campo di esercitazioni per filosofi o predicatori. Anche in questo senso ha valore la lezione di Gesù a «diventare piccoli» per saperci stupire e per scoprire la grandezza di ciò che vediamo, incontriamo, sperimentiamo. Nel terreno della storia potremmo trovare anche noi – come diceva il poeta Mario Luzi – «il bulbo della speranza… in attesa di fiorire alla prima primavera».


card. Gianfranco Ravasi

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29/12/2011 11:40



AMMAZZARE IL TEMPO



Il tempo è ciò che l'uomo è sempre intento a cercare d'ammazzare, ma che alla fine ammazza lui. Una manciata di ore, ed ecco il botto di fine anno con la tradizionale e un po' tribale e selvaggia chiassata della notte di S. Silvestro (un santo certamente infelice per l'associazione a questa gazzarra notturna). A una certa distanza da quel momento, proviamo, invece, a interrogarci ancora una volta su questa realtà che aderisce alla nostra stessa pelle, il tempo, al quale ho assegnato una delle Definizioni elaborate dal filosofo positivista inglese Herbert Spencer (1820-1903). Egli ricorre a un'espressione che è in molte lingue, «ammazzare il tempo». Nella frase si riflette l'angosciosa attesa di chi è immerso in un'esistenza infausta o di chi, annoiato, non trova più nessun sapore nel vivere. Alla fine, però, il tempo si trasforma in una mannaia che si chiama morte e, forse, in quel momento si recrimina perché il tempo è finito così presto. Vorrei, però, riprendere questa locuzione ma da un'altra angolatura che è suggerita dallo scrittore americano Henry David Thoreau che, nel suo Walden o la vita nei boschi (1854), obietta: «… come se si potesse ammazzare il tempo senza ferire l'eternità!». L'idea è profondamente cristiana: nel tempo, che è l'ambito in cui è chiamato a operare, l'uomo prepara il futuro che sta oltre la frontiera della morte. Quindi, sporcare, sciupare e dissolvere le nostre ore è predeterminare il nostro destino ultimo. È ciò che Cristo esprime col simbolo del «tesoro»: «Non accumulate tesori sulla terra…, accumulate invece per voi tesori in cielo» (Matteo 6, 19-20). E allora condividiamo la sapienza del Virgilio dantesco: «Perder tempo a chi più sa più spiace» (Purgatorio III, 78).


card. Gianfranco Ravasi

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30/12/2011 11:46




NELLA MIA FINE È IL MIO PRINCIPIO




Gli uomini avanti in età devono essere esploratori. / Il luogo e l'ora non sono importanti. / Noi dobbiamo muoverci senza sosta verso un'altra intensità, / per un'unione più completa e una comunione più profonda… / Nella mia fine è il mio principio. In my end is my beginning: è l'ultimo verso del secondo (1940) dei Quattro Quartetti di quel grande, arduo e affascinante poeta che è stato Thomas Stearns Eliot. Era il motto dell'infelice regina Maria Stuarda di Scozia, giustiziata da Elisabetta I nel 1587, ed è anche una sorta di sigla che possiamo assumere per meditare sul gocciolare delle ultime ore di quest'anno. Ma risaliamo ai versi precedenti rivolti a coloro che hanno già vissuto molte fine d'anno. Non si deve cedere alla tentazione che nulla più ci attende, che abbiamo ormai visto tutto e sperimentato a sufficienza e, soprattutto, che ci attende solo una fredda lapide funeraria sulla quale idealmente sta scritto The end. Il poeta, invece, ci ricorda che dobbiamo sempre pellegrinare nella vita, alla ricerca di un «oltre», anzi di «un'unione più completa e di una comunione più profonda». È quello che anche l'islam credente chiama l'Incontro per eccellenza col Creatore, che ci aspetta una volta varcata la soglia della morte. È per eccellenza anche l'annuncio cristiano che apre uno squarcio di luce oltre l'oscura galleria dell'agonia: «saremo sempre col Signore», come dice san Paolo, cioè nell'eterno e nell'infinito di quel Dio dalle cui mani siamo usciti e le cui mani alla fine ci raccolgono. Sì, in my end is my beginning, nella mia fine c'è un nuovo inizio.


card. Gianfranco Ravasi

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30/12/2011 11:51


Questa mattina stavo proprio riflettendo sulla fine che il mio corpo, con la sua finitezza, mi annuncia. Sì, stavo riflettendo che si avvicina il momento in cui Gesù mi prenderà con sè... e ne ero consolata...

Ho letto Il Mattutino di oggi e vi ho trovato la perfetta risonanza delle mie riflessioni..!

Nel suo immenso amore e infinita tenerezza il Signore si prende cura di me, di noi, mi e ci parla... ci prepara, ci invita a prendere atto della realtà e a prepararmi/ci.

Oh Signore..!! Grazie, mio Tutto!


Aurora



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31/12/2011 08:51




ESSERE PRONTI



Saper essere pronti è una grande cosa! È una facoltà preziosa che implica fermezza, analisi, colpo d'occhio, decisione. Saper essere pronti è anche saper partire. Saper essere pronti è anche saper finire. Saper essere pronti è, in fondo, anche saper morire. «Saper essere pronti è anche saper finire». Mi aiutano i Frammenti di un diario intimo dello scrittore svizzero Henri-Frédéric Amiel (1821-1881) a trovare le parole per salutarvi, cari lettori, che siete stati con me giorno dopo giorno per questo 2011 che sta ora spegnendosi. È sempre un po' difficile scambiarsi un abbraccio frettoloso prima di salire sulla scaletta di un aereo che ci separa da coloro coi quali si sono condivisi pensieri e affetti. Eppure, l'«essere pronti» era anche l'appello che Cristo aveva lasciato ai suoi. Tuttavia, egli partiva, ma con una promessa: «Verrò di nuovo», anzi, «tenetevi pronti perché, nell'ora che non immaginate, verrà il Figlio dell'uomo» (Giovanni 14,3; Matteo 24,44). La stessa morte, partenza estrema, non è mai un addio senza futuro, come molti pensano, soprattutto i più sconfortati, come scriveva in modo amaro Leonardo Sciascia: «Non è la speranza l'ultima a morire, ma il morire è l'ultima speranza». Per il cristiano partire, finire, morire non sono sospirati o deprecati approdi nel gorgo del nulla, ma un distacco per un nuovo e diverso inizio. Per questo, è necessario prepararsi, «essere pronti» come per una nuova giornata impegnativa e importante. È con tale spirito che salutiamo l'anno vissuto ed entriamo nel nuovo; sarà così che dovremo vivere anche l'ultimo istante della nostra esistenza. È così che ora ci scambiamo non un «addio», ma un «arrivederci», anche se non sappiamo né il giorno né l'ora né dove.


card. Gianfranco Ravasi

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