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IL MATTUTINO - Pensieri quotidiani di Mons. Ravasi

Ultimo Aggiornamento: 31/12/2011 08:51
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28/10/2011 10:01


LA CRESCITA


Coi suoi diagrammi l'economista mostrava e dimostrava che la categoria "crescita" è capitale per lo sviluppo. «Questa è la legge sia dell'economia sia della natura: ogni crescita è buona in sé stessa». Tra gli uditori della conferenza si levò una mano e una voce esitante dichiarò: «Purtroppo, però, la pensa così anche la cellula cancerosa…». Su un vecchio numero di una rivista inglese di costume e società - e quindi anche di economia - trovo questo apologo ironico. Anche ai semplici cittadini viene ripetuto che la crescita dei consumi è il volano dell'economia, così come lo è la crescita della produzione, del livello di vita, del prodotto interno lordo e via dicendo. La parola magica è effettivamente «crescita». E su tanti aspetti possiamo andare d'accordo. Ma quella timida mano alzata pone un'obiezione che non può essere accantonata dalla tipica superiorità dello studioso che ignora i dati marginali. Elias Canetti, il noto autore della Provincia dell'uomo (1973), osservava che «il progresso ha, però, qualche svantaggio: ogni tanto esplode». La crescita, quando riguarda la società, non è così meccanica come in un esperimento di laboratorio. C'è il fattore umano che non può essere ignorato e si chiama «etica». Perciò, diamo certamente «a Cesare ciò che è di Cesare», riconoscendo l'autonomia di certe leggi socio-economiche, ma siamo sempre pronti a ricordare a quegli operatori che bisogna anche «rendere a Dio ciò che è di Dio». Se non sono credenti, basterà ribadire loro che la dignità dell'uomo, la sua libertà, la sua vita non sono negoziabili secondo i parametri della pura «crescita» materiale. Bisogna, però, riconoscere che non pochi economisti oggi sono molti più cauti. «Anche il progresso - scriveva Ennio Flaiano - diventato vecchio e saggio, votò contro».


card. Gianfranco Ravasi

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29/10/2011 12:03



IL PAPPAGALLO COME STEMMA


Anni fa nel nostro paese c'erano molti esemplari curiosi di umanità. Ora, invece, i giovani sembrano essere pappagalli spaventati a morte di non essere tutti uguali. Una volta, invece, la gente pregava di avere il vantaggio di essere un po' diversa. È sorprendente sapere che questa osservazione usciva dalla penna di una scrittrice dell'Ottocento. Per la precisione siamo nel 1896, col romanzo Il paese degli abeti aguzzi di Sarah Orne Jewett. Lo ritrovo tra i miei libri, lo sfoglio per curiosità e trovo segnato proprio questo passo che, comunque sia, non è da applicare solo ai giovani di oggi ma un po' a tutti noi, intatto nel suo valore. Si cerca freneticamente di essere diversi e difformi rispetto agli standard, scegliendo la via dell'eccentricità, del linguaggio sboccato, dell'anticonformismo a tutti i costi, rasentando la bizzarria. In realtà, si sa bene che questo comportamento è comandato dall'alto, a partire dalla pubblicità che codifica simili stravaganze e produce torme di replicanti, votati alle stesse mode, agli identici tic, a uguali abbigliamenti. È l'imitazione di uno stile di vita che è imposto, secondo generi ed età, da una comunicazione sociale imperante e imperiosa. Ne fa le spese il povero pappagallo, il quale in realtà agisce secondo natura, ma che sembra lo stemma dell'attuale massa. «A tanta gente – scriveva nei Grandi cimiteri sotto la luna Georges Bernanos – occorre un certo numero di luoghi comuni da ripetersi scambievolmente come pappagalli, coi movimenti affettati, gli impettimenti e le strizzatine d'occhio di quell'uccello». Raccogliamo, allora, l'invito della scrittrice del Maine a evitare di essere risucchiati dall'onda conformistica dell'anticonformismo e a custodire la nostra originalità, identità e individualità.


card. Gianfranco Ravasi

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30/10/2011 19:09





IL MESTIERE DI VIVERE



La vita non è né brutta né bella, ma è originale… A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure. Zeno Cosini ha deciso: non fumerò più. Per raggiungere lo scopo, si affida all'emergente nuova scienza, la psicoanalisi. La ricetta è presto data: appuntare sulla carta gli episodi salienti della propria esistenza, a partire dalla penosa morte del padre, per proseguire con la gelosia nei confronti dell'amico, col matrimonio malriuscito, il suicidio dell'amico, una stanca relazione extraconiugale e così via. È facile capire che a questo punto più che guarire dal vizio del fumo, Zeno detesta il vizio di vivere. Sì, la vita è una malattia inguaribile. Originale, certo, ma insopportabile: sarà forse un'esplosione nucleare – vagheggiata nel finale della storia – a generare una diversa umanità? Abbiamo proposto la trama di uno dei più significativi romanzi del Novecento, La coscienza di Zeno (1923), di Italo Svevo, per un invito un po' particolare. Proviamo, in un piccolo spazio di silenzio ritagliato nella giornata domenicale, a interrogarci sulla nostra concezione della vita. Certo, quello offerto da Svevo è un folgorante ritratto della visione dominante anche (e soprattutto) ai nostri giorni. Molti trascinano la loro esistenza, facendone sgocciolare ore e giorni nella convinzione che essi non portino con sé un significato. Ci si aggrappa, allora, a qualche piacere, a un sorso di ebbrezza, a stravaganze che eccitino la monotonia. Eppure, se è vero che la vita terrena è mortale, con buona pace delle fanfaluche di chi la immagina sempiterna col progresso della medicina, è però altrettanto vero che essa è «originale». Ognuno ha la «sua» vita e può edificarla in modo creativo e fruttuoso, raccogliendo il motto di un grande della cultura occidentale, Montaigne: «Il mio mestiere e la mia arte è vivere».


card. Gianfranco Ravasi

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01/11/2011 19:10


IL VISO BENDATO


È inutile presentarsi a Dio / col viso coperto: / egli toglierà tutte le bende della nostra finzione. / Ci guarderà in faccia. / Ecco, le mie sorelle non hanno pensato / che io volevo guardare in faccia il Signore, / e mi hanno bendato il viso. / Questa è la tristezza della mia mummia: / non hanno pensato che io volevo la carezza divina. Due anni fa, 1° novembre 2009, moriva la poetessa Alda Merini, una presenza alta, appassionata e dolente nella cultura e nella società italiana. Il profondo affetto, i dialoghi telefonici, la sua originale spiritualità l'avevano legata a me sia quando vivevo nella sua stessa città, Milano, sia da Roma ove mi ero trasferito. Nel giorno della sua morte, ma soprattutto nella solennità di Tutti i Santi do voce a lei e al suo Cantico dei Vangeli (2006). È uno squarcio di luce sull'incontro con Dio: non più come Mosè col viso velato, ma «a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, così da essere trasformati nella sua stessa immagine» (2 Corinzi 3,18). Anche se il corpo mortale è ridotto a una mummia, il giusto avanza gioioso verso il Signore per «vederlo così come egli è» (1 Giovanni 3,2). E tutto questo avverrà perché si sarà aperto il grembo del sepolcro nella gloria della risurrezione. E qui lasciamo la parola ad Alda e alla sua attesa dell'incontro quando sentirà la voce che risuscitò Lazzaro e riceverà «la carezza divina». «Ecco che vien Gesù, Figlio suo, / e con un filo di fiato o con un urlo / toglie la mia pietra tombale. / Cristo mi vedrà nudo e povero, / non un letamaio di sporcizia, / ma lo splendido uomo che lo ha amato». Sicuramente questa attesa per la poetessa dei Navigli, innamorata a suo modo di Dio, si è compiuta.


card. Gianfranco Ravasi

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03/11/2011 11:19



Geni si nasce?


La genialità come la santità non si eredita. Il genio non è altro che una grande attitudine alla pazienza. Modesto e provocatorio come sempre, quando lo scrittore Oscar Wilde giunse alla dogana di New York nel 1882 alla tradizionale domanda: «Nulla da dichiarare?» rispose: Nothing to declare except my genius! Il genio come unica ricchezza riflette una convinzione comune secondo la quale geni si nasce. Un lettore mi invia una serie di motti e aforismi perché eventualmente li proponga in questa rubrica: i primi due, paralleli tra loro, affermano proprio il contrario di questa convinzione. La genialità non si eredita, dichiara il filosofo russo Nikolaj Berdjaev (1874-1948) in un saggio dedicato proprio alla creatività, mentre il famoso naturalista francese del Settecento, Georges-Louis Buffon, connette il talento a una virtù che parrebbe la meno adatta a un intuitivo, cioè la pazienza. Si può capire nel caso dello scienziato che, pur partendo da un'ispirazione simile a un lampo, deve poi avviarsi sulla strada meticolosa della sperimentazione, e proprio Buffon ci ha lasciato la sua imponente Storia naturale in ben 36 volumi! Eppure il filosofo e lo scienziato citati hanno ragione. La genialità è, certo, un dono divino, ma può subito sterilirsi se non viene pazientemente coltivata. L'esercizio è indispensabile e la musica suprema di Bach rivela una tecnica raffinata, frutto di allenamento mentale e fin manuale. Del grande Vivaldi si diceva che componesse una partitura più velocemente del segretario che la ricopiava; si sapeva, però, che lavorava instancabilmente a cesellare, a rifinire, a rielaborare. Ecco, allora, un insegnamento per tutti: la fatica, l'addestramento, l'impegno sono necessari a ciascuno e in ogni attività. Solo scherzando sulla scia di Totò si può dire: «Geni si nasce. E io, modestamente, lo nacqui!».


card. Gianfranco Ravasi

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04/11/2011 15:12



LA LOGICA DELLA GUERRA


La guerra è un male perché crea più malvagi di quanti ne toglie di mezzo. Pochi immaginano che a bollare in modo così realistico la guerra sia un filosofo apparentemente così astratto e "teorico" come Kant. Eppure egli colpisce al cuore una logica perversa che alberga in molte menti e non solo in quella degli strateghi militari: usare il male per eliminare il male. Una logica che è tanto cara ovviamente a chi ha il coltello per il manico ed è convinto di essere il giustiziere legittimo. Per questo credo che l'osservazione del filosofo tedesco sia rilevante per tutti. È facile, infatti, identificare l'avversario come il male in assoluto e partire al suo attacco con ogni mezzo, sicuri di essere i paladini di un bene assoluto, quando in verità - e quante volte è accaduto questo a livello di Stati e di guerre - c'è di mezzo solo la difesa dei propri interessi. Un simile atteggiamento ha, poi, un ulteriore corollario. In molti casi è evidente che, combattendo l'altro, si eliminano anche gli elementi positivi che egli rappresenta. A livello di guerra sono gli innocenti che muoiono, ad esempio, sotto i bombardamenti condotti per colpire un dittatore. Tutto questo genera una sorta di rassegnazione ipocrita, ben formulata dal sommo sacerdote Caifa quando, senza battere ciglio, riconosce che «uno deve morire per salvare la nazione». E così l'innocente Gesù è condannato a morte. La logica della ragion di Stato (o del segreto di Stato) che viene accampata per coprire infamie segrete è praticata anche nel piccolo delle nostre relazioni, quando ricorriamo a giustificazioni di ogni genere per lasciare via libera nel colpire un altro che ci infastidisce o ci è antipatico, pur sapendo che non è la causa vera di quella nostra irritazione.


card. Gianfranco Ravasi

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05/11/2011 16:09



CERCARE E TROVARE



Colui che cerca non deve fermarsi fino a quando non avrà trovato; quando avrà trovato, resterà stupito; quando si sarà stupito, regnerà; quando avrà iniziato a regnare, troverà riposo. Ecco cinque tappe di un itinerario dello spirito tracciato da un testo apocrifo cristiano, il Vangelo degli Ebrei, databile attorno al II-III secolo (questo frammento è giunto a noi attraverso la citazione di un autore cristiano del II secolo, Clemente Alessandrino). Seguiamo, dunque, quella strada che ha come punto di partenza il “cercare”. È la donna del Cantico dei cantici che corre nella notte alla ricerca del suo amato ad essere il simbolo di questa ansia di luce. E alla fine, dopo i fallimenti, ecco la seconda tappa: «Trovai l'amore dell'anima mia» (3,1-4). L'incontro, però, non è l'approdo terminale perché esso apre una nuova avventura, quella dello “stupore”, ossia del dialogo contemplativo tra i due che si amano, tra l'anima e il suo Signore. Si spalanca, così, un orizzonte glorioso e luminoso, l'esperienza del “regnare” con Dio, come aveva promesso Cristo ai suoi discepoli («siederete su dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele»: Matteo 19,28). È a questo punto che l'itinerario raggiunge la sua meta: è quel “riposo” che non significa una pallida e inerte quiete, ma nel linguaggio biblico è la pienezza di vita e di pace, è la requies aeterna cristiana, celebrata nei capitoli 3 e 4 della Lettera agli Ebrei. Come diceva il Siracide, «segui le sue orme, ricerca [la sapienza di Dio] e ti si manifesterà… Alla fine in essa troverai un riposo che diverrà la tua gioia» (6,27-28). Nel lager nazista Dietrich Bonhoeffer invocava: «Riposo di Dio, tu vieni incontro ai tuoi fedeli come una sera di festa immensa!».


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06/11/2011 14:58




L'INCONTRO CON KATJUSHA


Pregava, chiedeva a Dio di aiutarlo, di dimorare in lui e di purificarlo, ma in realtà ciò che chiedeva si era già compiuto. Dio, che viveva in lui, si era destato nella sua coscienza. Lo sentì in sé, e per questo sentì non solo libertà, coraggio e gioia di vivere, ma sentì anche tutta la potenza del bene. Poco più di un secolo fa, come domani, il 7 novembre 1910, Lev N. Tolstoj si spegneva in solitudine nel gelo della stazioncina di Astàpovo, durante una fuga dalla sua famiglia e un po' anche da sé stesso. Nell'oceano delle sue pagine abbiamo pensato di scegliere poche righe, emblematiche però della sua concezione religiosa che esaltava la presenza di Dio nella coscienza di ogni persona. A percepire questa potenza vitale e salvifica è ora un principe, Dmitrij I. Nechljudov, il protagonista del romanzo Resurrezione (1899). Questo avviene quando egli riconosce in tribunale nell'imputata di omicidio Katjusha Maslova una cameriera delle sue zie da lui sedotta quand'era ancora ragazza. Da quell'istante il rimorso, ma anche un amore puro e assoluto spinge il principe a seguire questa donna ormai indurita dalle violenze e dal male, fino ai lavori forzati in Siberia ai quali essa è condannata. È la storia di un'espiazione, ma anche di una “risurrezione” interiore, in mezzo ai diseredati e alle vittime che diventano gli annunciatori inconsapevoli del Vangelo di Cristo. Questa storia ha, però, la sua radice in quella presenza divina che pulsa nella coscienza, a cui dovremmo tutti lasciare più spazio. Non gettiamo su di essa la sabbia arida della distrazione perché la voce di Dio sia ridotta al silenzio. Ci sarà sempre una Katjusha che risveglierà la nostra anima e libererà quella voce.


card. Gianfranco Ravasi

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08/11/2011 13:46


DARE OMBRA ALLE PAROLE



Parla anche tu, / parla per ultimo, / di' la tua sentenza. / Parla, ma non dividere il sì dal no. / Alla tua sentenza dà anche il senso: / dalle ombra. / Dalle ombra sufficiente, / dagliene tanta. Anche chi – purtroppo! – non ama la poesia, legga lo stesso queste righe di un grande e tragico poeta ebreo tedesco, Paul Celan, nato in Romania nel 1920, testimone della fine della sua famiglia nei lager nazisti, morto suicida gettandosi nella Senna a Parigi nel 1970. Di solito i suoi versi, altissimi, sono ardui, ma questa volta il suo è un appello semplice e incisivo. Il poeta non va contro il detto di Cristo sulla sincerità: «Sia il vostro parlare: Sì, sì; No, no!, il di più viene dal Maligno» (Matteo 5,37). Egli vuole, invece, colpire chi pronuncia sentenze definitive quasi fosse l'unico interprete autorizzato della verità. Sono quelle persone che non si lasciano mai frenare da un'esitazione, asseverano “senza ombra di dubbio”. Ecco appunto l'immagine di Celan, l'ombra che invece dovrebbe alonare le parole. Solo così esse escono dalle labbra quasi in punta di piedi, con discrezione e pudore. Anziché essere un flusso veemente e inarrestabile, sono centellinate e avvolte nella pellicola del silenzio perché sono pesate e pensate. Sono frasi che lasciano spazi ancora bianchi che ammettono approfondimenti e un'ulteriore vita in coloro che le ascoltano, un po' come accade alla poesia che ha bisogno degli “a capo” così da lasciare un vuoto che l'eco nell'anima del lettore riempie. È proprio l'esatto contrario della chiacchiera che non ammette spazio e interstizi, oppure dell'urlato che impedisce il dialogo. Un personaggio di Pirandello diceva: «Quanto male ci facciamo per questo maledetto bisogno di parlare!».


card. Gianfranco Ravasi

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09/11/2011 10:30


VERSO LA MECCA


Un bigotto si rivolse a Giuha che camminava sulla riva di un fiume: «Quando si fa un bagno in queste acque, quale direzione devo tenere? Verso la Mecca o voltarle le spalle?». Giuha rispose: «Devi guardare in direzione dei tuoi abiti, se non vuoi che te li rubino!». Giuha, divenuto Giufà in certi racconti popolari siciliani, è il protagonista scaltro e ingenuo, saggio e ironico di molti apologhi arabi. Sappiamo che la casistica etica, che si illude di elencare tutte le situazioni umane possibili per attribuire a ciascuna di esse una qualifica morale, è un esercizio indefesso delle morali tradizionali di tante religioni. Spesso a questa preoccupazione si associa l'eccesso di scrupolo e persino la mania legalistica. Al fanatico che gli espone appunto il suo "caso" di osservanza religiosa ossessiva, Giuha reagisce col buonsenso realistico. Anche san Paolo consigliava di essere, sì, semplici «come bambini per quanto riguarda la malizia, ma uomini maturi quanto ai giudizi» (1 Corinzi 14,20). E la maturità comprende un sano pragmatismo, quella concretezza che non si perde nella nebbia di un vago spiritualismo. Neanche Gesù esitava a suggerirci l'armonia tra la semplicità delle colombe e la prudenza dei serpenti (Matteo 10,16), evitando da un lato l'ingenuità sprovveduta e dall'altro la diffidenza sospettosa. C'è, poi, un altro aspetto che vorremmo mettere in luce ed è il rischio di una religiosità formalistica, piaga che affligge un po' tutte le fedi. La voce dei profeti e dello stesso Gesù è, al riguardo, dirimente: il culto con le sue rigide osservanze separato dalla vita, dalla carità e dalla giustizia è un artificio sacrale e non un atto di vera spiritualità. L'esito di un simile comportamento fatto di ritualismo senz'anima potrebbe essere quello che ironicamente bollava l'autore dei Viaggi di Gulliver, Jonathan Swift: «Abbiamo abbastanza religione per odiare il nostro prossimo, ma non per amarlo».


card. Gianfranco Ravasi

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10/11/2011 09:21


LA MIA GRANDE UMILTÀ


Chi si mette in mostra da sé non verrà mai in luce, chi si approva da sé non verrà considerato, chi si vanta da sé non avrà valore, chi si gloria da sé non sarà glorificato. Ieri siamo idealmente migrati all'interno di un mondo estraneo che sta divenendo consueto anche per noi, quello arabo, con la figura simbolica di Giuha. Oggi incontriamo un'altra civiltà che si è prepotentemente affacciata in Occidente, quella cinese, e anche qui mettiamo in scena un personaggio un po' reale (visse attorno al VI-V secolo a. C.) e un po' mitico, il pensatore Lao-tsu con la sua Regola celeste. La sua è una pacata ma severa scudisciata sulla vanagloria, variante un po' ridicola del vizio capitale della superbia. L'aspetto più patetico della vanità è proprio il rischio di cadere, senz'accorgersene, nel comico e nella macchietta. I vanitosi allargano la ruota del loro orgoglio come pavoni, per usare un'immagine già adottata dal poeta latino Ovidio il quale sferzava la persona presuntuosa come laudato pavone superbior, più superba di un pavone lodato. Abbiamo tutti incontrato nella vita uomini e donne, anche intelligenti, che non sanno resistere a questo vizio: se non lo fai tu, ci pensano loro a celebrarsi con esiti imbarazzanti che essi però non avvertono e vanno avanti dando mano alla manovella dell'auto–elogio senza rossore. I verbi usati da Lao–tsu sono significativi: mettersi in mostra, approvarsi, vantarsi, gloriarsi. C'è in essi tutta la storia di politici, di cattedratici, di generali, di manager, di potenti e persino di ecclesiastici e così via. Ma a questo punto, attenzione: come ammoniva La Rochefoucauld, «ciò che rende la vanità degli altri insopportabile è che offende la nostra». Il vecchio rabbino stava morendo – racconta un apologo giudaico – e tutti ne tessevano i meriti. Alla fine la moglie vide che si agitava. Accostò l'orecchio alle sue labbra e sentì: «Nessuno ha lodato la mia grande umiltà!».


card. Gianfranco Ravasi

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11/11/2011 09:51


Gli innamorati sul treno


Facevo il pendolare per motivi di lavoro e tu sai cos'è un vagone ferroviario: chiasso, risate, fumo, trambusto, pigia-pigia. Io mi sedevo in un angolo e non sentivo nulla. Leggevo il Vangelo. Chiudevo gli occhi. Ascoltavo Dio. Ero veramente uno con me stesso e nulla mi poteva distrarre. Sotto la presa dell'amore divino ero in pace. Difatti gli innamorati che si trovavano sul treno bisbigliavano tra di loro, senza preoccuparsi di ciò che capitava attorno. Io bisbigliavo col mio Dio. Secoli fa si ritiravano nel deserto egiziano, eppure gli eremiti s'accorgevano che la città li aveva inseguiti fin là col suo frastuono e le sue seduzioni. È possibile, però, un movimento inverso: diventare monaci urbani, figure di silenzio nel fragore assordante della modernità. Un po' come riescono a fare gli innamorati su un treno affollato, sospesi in una bolla di intimità, in cui si bisbigliano le loro tenerezze. Il libro da cui abbiamo tratto il paragrafo citato s'intitola significativamente Il deserto nella città. L'ha scritto un mistico vissuto coi piedi piantati nella storia italiana, Carlo Carretto (1910-1988): il treno affollato e rumoroso si trasforma in un'oasi silenziosa, ove si può “bisbigliare” con Dio, con la stessa intimità dei due fidanzati. Un'altra figura simile a fratel Carlo, la francese Madeleine Delbrêl, morta nel 1964 dopo una vita trascorsa nella banlieue parigina tra operai e diseredati, confessava: «Coloro che amano Dio hanno sempre sognato il deserto; per questo a coloro che l'amano Dio non può rifiutarlo». Ma questa solitudine è incastonata nella quotidianità più fitta di rumori e di voci ed è simile a un seme di luce e di amore deposto nel terreno sassoso e spinoso delle fatiche, degli odi e delle bestemmie. Con Carretto, che scelse la via dei Piccoli Fratelli del Vangelo di Charles de Foucauld, possiamo tentare tutti questa esperienza di deserto, non migrando nel Sahara o in un eremo, ma rimanendo sul treno di ogni mattina o nella piazza della nostra città.


card. Gianfranco Ravasi

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12/11/2011 09:44


GLI SPECIALISTI


Lo specialismo eccessivo e separato dal corpo generale del sapere è lo specialismo di chi sa tutto quanto su un frammento dell'universo ma ignora l'universo. Ormai, quando abbiamo una malattia seria, ci rivolgiamo tutti allo "specialista". Nei dibattiti televisivi non manca mai l'"esperto" di turno. Persino al Concilio Vaticano II c'erano i "periti". Uno dei vocaboli più comuni è "tecnico", e ce ne sono distribuiti in tutti i settori, per cui non basta più l'elettricista se devi riparare un elettrodomestico, ma ci vuole "il tecnico" apposito. Per ricorrere a un altro termine di moda, la "parcellizzazione" è la regola del conoscere, per cui ognuno ha la sua particella di sapere che amministra spesso in modo esclusivo e supponente. Il risultato di questo "specialismo" è ben detto dalla frase del filosofo Uberto Scarpelli sopra citata: si sa tutto di un frammento e si ignora l'insieme, per cui la malattia è guarita, ma il malato può morire per altri effetti collaterali ed esterni a quella sindrome. Quest'ultimo è il solito e un po' paradossale esempio che viene addotto. È, però, necessario riconoscere che l'antico medico generico aveva una sensibilità più onnicomprensiva e non ignorava che a guarire aiuta anche il calore umano e non solo la competenza scientifica. Ora si privilegia la via secondo la quale si conosce sempre di più su un argomento sempre più piccolo e si perdono di vista gli orizzonti. Questo atteggiamento si riflette anche nell'educazione e nella vita: non si è più capaci di dare un senso unitario e globale alla realtà e alla stessa esistenza. Certo, dobbiamo rimuovere la superficialità del personaggio di Arthur Conan Doyle del quale si diceva che his specialism is omniscience. Onniscienti non siamo, ma neppure monodirezionali, monocromi e riduttivi.


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13/11/2011 15:29


Il male di vivere


Spesso il male di vivere ho incontrato: / era il rivo strozzato che gorgoglia, / era l'incartocciarsi della foglia riarsa, / era il cavallo stramazzato. L'autunno avanzato stende il suo manto sulla natura. Se oggi passeggerete in un parco cittadino, camminerete su un tappeto di foglie «riarse e incartocciate». La vita ha un levare e un posare, un prima e un poi, un gioire e un piangere, un inizio e una fine. Il nostro sguardo si fissa e s'impressiona maggiormente per l'irrompere del buio, il nostro cuore batte più forte verso la morte, gli scenari tragici, accuratamente scansati, si parano innanzi all'improvviso tagliandoci la strada in un incidente. Si può elencare a lungo la litania che compone il «male di vivere», come lo chiamava Montale nei versi tratti dai suoi indimenticabili Ossi di seppia (1925). Altrove, nella raccolta Occasioni (1939), ci ammoniva: «La vita che sembrava vasta è più breve del tuo fazzoletto». Cosa dire? È possibile ancora parlare di queste cose senza essere tacciati di pessimismo o di triste romanticismo? Si è infastiditi dalle domande impertinenti che spettinano i pensieri ordinati nei luoghi comuni di un'artificiosa serenità. Una volta il mese di novembre conduceva la domenica alla visita dei cimiteri e qualche scia rimaneva nell'anima. Ora non è più così. Eppure non cessa l'insoddisfazione, non diminuiscono le depressioni, non si allontana neanche da chi è nel pieno della giovinezza «il male di vivere». L'imperatore Marco Aurelio, nei suoi Ricordi, osservava che «l'arte di vivere somiglia più al pugilato che alla danza», e quindi si deve sempre stare in guardia oppure combattere. Ogni tanto, su un palcoscenico sociale popolato di nani, guitti e ballerine, è giusto che salga la serietà a zittire tutti. Almeno per qualche minuto.


card. Gianfranco Ravasi

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15/11/2011 11:30


IL TESORO SVELATO



Dio disse: Io ero un tesoro che nessuno conosceva. Allora volli essere conosciuto. Per questo creai l'uomo. «Voglio avvicinarmi per osservare questo spettacolo straordinario: perché questo roveto brucia» senza consumarsi? (Esodo 3,3). Ed ecco, una voce si leva da quel fiammeggiare: “Io sono colui che sono!”» (3,14). Per secoli gli esegeti si sono accaniti su questa strana carta d'identità di Dio. Ogni decifrazione aveva forse un'anima di verità, ma alla fine rimaneva un cono d'ombra, un nucleo oscuro e segreto. È appunto il mistero divino, la sua “solitudine” che, certo, sboccia al suo interno nel dialogo trinitario, ma rimane nell'infinito della trascendenza, invalicabile a un piede estraneo, incomprensibile a orecchio esterno. Ma subito dopo quell'autodefinizione inaccessibile, ecco un'altra frase sorprendente: Mosè, di' agli Israeliti: «Io-Sono mi ha mandato a voi». Il Dio misterioso esce da sé stesso, parla, invia e libera. Questa storia di un'identità assoluta e perfetta che si apre e si comunica ha la sua genesi nella creazione, quando Dio, desiderando essere conosciuto, crea l'uomo, un interlocutore «di poco inferiore a lui» in grandezza e libertà (Salmo 8,6) e a lui si svela e rivela. Sono le parole di un famoso poeta austriaco, Hugo von Hofmannsthal (1874–1929), a evocare quell'istante iniziale supremo. Sono righe che appartengono al Libro degli amici di questo autore, amico del musicista Richard Strauss: è proprio in quell'atto divino primordiale che egli vede la genesi delle nostre amicizie genuine e del nostro amore. Anche noi apriamo il nostro segreto interiore per offrire i nostri tesori a chi amiamo. Per questo, l'amore autentico è la più alta prova dell'esistenza del vero Dio.


card. Gianfranco Ravasi

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16/11/2011 11:23


L'ASSURDO E IL MISTERO



«In cinque minuti mi dica la sostanza della Sua esperienza di filosofo». – «È la scelta tra due soluzioni: l'assurdo e il mistero. Il mio collega Sartre ha scelto l'assurdo, io il mistero». – «Ma qual è la differenza? Anche il mistero sembra assurdo!». – «No, l'assurdo è un muro impenetrabile contro cui ci si spiaccica in un suicidio. Il mistero è una scala: si sale di gradino in gradino verso la luce, sperando». Sono queste le battute di un dialogo avvenuto nel 1983 tra il presidente francese François Mitterrand e il filosofo cattolico Jean Guitton. Certo, in cinque minuti si può dire poco, ma si è anche stimolati a sfrondare e a cogliere l'essenziale. Una scelta è nel cuore stesso del pensare e dell'esistere: tra il non senso e il senso, tra l'assurdo e il mistero. L'opzione del filosofo Jean-Paul Sartre è nota ed è già nei titoli di alcune sue opere come L'essere e il nulla, oppure Il muro o A porte chiuse e, infine, La nausea e La morte dell'anima. Molte persone che passano e siedono accanto a noi, senza aver mai letto una riga di Sartre, condividono nella pratica questa decisione. Siamo immersi in un mondo assurdo e ripugnante, in cui le porte delle risposte sono tutte chiuse e indisponibili e l'orrore è la sigla della nostra esistenza. La libertà ci spinge a infrangere quel muro, ma siamo destinati a romperci le mani e a sfracellarci contro di esso se lo scaliamo. Ben diversa è la concezione di Guitton che vede l'essere come una scala aperta ai nostri passi. È un po' come quella di Giacobbe che «poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo» (Genesi 28,12). L'ascesa è faticosa, si può inciampare perché i primi gradini sono nel buio, ma lassù c'è una luce infinita. Con la fiaccola della speranza e con l'anelito della ricerca si può proseguire di tappa in tappa, di luce in luce…


card. Gianfranco Ravasi

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17/11/2011 09:49



La discrezione


Due volte sciocco chi, svelando un segreto a un altro, gli chiede calorosamente di non farne parola con nessuno. So che è un segreto, perché lo si sussurra dappertutto. Il secondo è un proverbio inglese e conferma una sorta di legge ben attestata in tutti gli ambienti: il modo più efficace per propalare una notizia è bisbigliarla all'orecchio di un amico, supplicandolo di tenerla come una confidenza personale riservata. La legge in questione è formulata nella prima citazione che ho trovato in un articolo sulla "discrezione in politica" (sic!) e che è assegnata a una novella del grande Cervantes, scritta quattro giorni prima di morire, il 19 aprile 1616. Vorrei mettere l'accento proprio sulla parola che titolava quell'articolo, per altro ironico: «discrezione». Essa parte da una radice lessicale già impegnativa perché rimanda al discernimento, al giudizio, all'oculatezza, dote ormai rara ai nostri giorni così sbrigativi, capaci solo di procedere a slogan e battute. Ma quel vocabolo trascina con sé un corteo di virtù e di valori vari, come la prudenza, il tatto, la misura, il rispetto, la sensibilità. Soprattutto la discrezione va a braccetto con la riservatezza, che a sua volta si coniuga col pudore nel senso più lato del termine. C'è, infatti, un'intimità personale che ora è rubricata sotto il vocabolo privacy, ma che è qualcosa di più profondo perché racconta la storia segreta, interiore, esclusiva vissuta da ognuno di noi. Essa è sovente custodita nella tomba della propria anima per sempre; tuttavia, può essere donata come segno di confidenza assoluta a un'altra persona a cui si è legati da un vincolo d'amore o di amicizia. Proprio per questo, violare una simile confessione è un atto spudorato, è un tradimento, è un sacrilegio nei confronti di quella realtà sacra che è appunto l'amore autentico.


card. Gianfranco Ravasi

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18/11/2011 09:36


L'INFERNO FREDDO


Possono esserci persone che hanno distrutto totalmente in sé stesse il desiderio della verità e la disponibilità all'amore… In simili individui non ci sarebbe più nulla di rimediabile: è questo che si indica con la parola “inferno”. «Questa è la mia idea dell'inferno: uno se ne sta seduto là, completamente abbandonato da Dio, e sente che non può più amare, mai più e che mai più incontrerà un'altra persona, per tutta l'eternità». Così scriveva al teologo Karl Rahner la romanziera tedesca Luise Rinser, echeggiando le parole di un altro scrittore, Georges Bernanos: «L'inferno è non amare più», che a sua volta raccoglieva l'idea del suo connazionale Victor Hugo secondo il quale «l'inferno è tutto in una parola, solitudine». Forse per questo si potrebbe dire — sempre con Bernanos — che non si deve parlare del «fuoco dell'inferno» perché «l'inferno è freddo», come ogni luogo senza la luce e il calore dell'amore. Si dice che i predicatori di oggi, rispetto ai loro colleghi del passato, non sono inclini a mettere a tema i cosiddetti “Novissimi”. Non così Benedetto XVI che li ha affrontati nella sua enciclica Spe salvi (2007) alla quale abbiamo attinto per un'efficace rappresentazione dell'inferno come stato interiore che può già crearsi dentro la vita e l'anima di una persona in vita. Due sono i sintomi inequivocabili. Innanzitutto spegnere ogni ricerca della verità e, quindi, ogni cammino verso il mistero, il trascendente, il divino. Segue a ruota proprio la chiusura all'amore che raggela ogni spiritualità profonda. Solo una piccola nota di commento. Il Papa fa balenare la possibilità che l'inferno inizi già ora, qui nella storia. Il filosofo americano William James (1842-1910) l'aveva già intuito: «L'inferno di cui parla la teologia non è peggiore di quello che creiamo a noi stessi in questo mondo».


card. Gianfranco Ravasi

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19/11/2011 13:37


DAGLI OCCHI AL CUORE



C'è una strada che va dagli occhi al cuore senza passare per l'intelletto. Quale sarà mai questa strada che salta il cervello e congiunge direttamente sensi e cuore? Una via "cieca" per definizione se ignora ogni vaglio o controllo della mente. È la passione che procede con impeto come un vento tempestoso dagli occhi alla vita, dall'emozione all'azione. È interessante cercare di identificare i sinonimi che la nostra lingua possiede per definire tutte le iridescenze della passione: ardore, slancio, trasporto, sentimento, impeto, ma anche frenesia, furore, eccitazione, emozione, esaltazione, voluttà, concupiscenza, fino ai tipici simboli "passionali", ossia il fuoco e la febbre. A proporci questa riflessione su una simile bufera che travolge chi è irretito da un'esperienza così potente, è un noto e brillante scrittore cattolico inglese, Gilbert K. Chesterton (1874-1936), in una sua opera minore, The Defendant. Il vero nodo del suo aforisma è nella parola «cuore» inteso, però, non come la coscienza e l'anima di una persona, secondo quanto già balenava nella Bibbia o come diranno il filosofo Pascal e lo scrittore Saint-Exupéry riguardo alle «ragioni del cuore» invalicabili alla pura e semplice razionalità. Qui il concetto è più immediato e rimanda appunto al fuoco della passione, la cui strada può persino passare anche solo dalla fantasia senza il coinvolgimento degli occhi. Tra i detti dei Padri del deserto c'è questa osservazione: «All'eremita sono risparmiate tre battaglie: quella degli occhi, quella della lingua e quella delle orecchie. Gliene resta una: quella del cuore». Il vento dell'immaginazione può, infatti, condurre al cuore uno sfarfallio di scene e di figure che vi si insediano e lo conquistano, escludendo ogni impulso della ragione.


card. Gianfranco Ravasi

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21/11/2011 05:59



Il paradiso dei bambini


Dice Dio: «Il mio paradiso è quanto c'è di più semplice, nulla è più spoglio del mio paradiso. Ai piedi dell'altare ci sono i semplici bambini che giocano con la loro palma e le loro corone di martiri. Penso che giochino al cerchio e la palma sempre verde serve a loro da bacchetta». Ricordo ancor oggi l'emozione che provai quando, molti anni fa, entrai per la prima volta nella cattedrale di Monreale e mi apparve subito il possente Cristo Pantokrator dell'abside, il cui sguardo quasi ti artigliava impedendoti ogni altra visione. È il Cristo re dell'universo, al quale sono «dati potere, gloria e regno, e tutti i popoli, nazioni e lingue lo servono, e il suo è un potere eterno che mai finirà e il suo regno mai sarà distrutto» (Daniele 7,14). È, questa l'esaltazione della trascendenza, del mistero, dell'eterno che si accompagnano col Signore. Eppure, c'è un altro aspetto che non può essere disgiunto: quel glorioso Pantokrator di Monreale (o di altre grandi basiliche) reca i segni della passione, della sofferenza, dell'umanità. E allora il suo paradiso non è solo quello della maestosa e solenne liturgia dell'Agnello descritta dall'Apocalisse. È anche la tenera e spoglia scenografia immaginata dal poeta francese Charles Péguy nel suo poemetto Il mistero dei Santi Innocenti (1912). Ai piedi dell'altare celeste si affollano proprio loro, le piccole vittime di tutti i secoli e di tutte le terre che, come certi nostri chierichetti, non riescono a stare immobili e fissi durante le imponenti celebrazioni paradisiache e si lasciano tentare dal gioco, rompendo quella suprema armonia, ma facendo sorridere Dio. In quel paradiso è l'innocenza, la semplicità, la lievità pura e sincera a dominare e a lodare Dio.


card. Gianfranco Ravasi

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