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IL MATTUTINO - Pensieri quotidiani di Mons. Ravasi

Ultimo Aggiornamento: 31/12/2011 08:51
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05/10/2011 09:59



A CORTE



L'uomo che sa vivere a corte domina i suoi gesti, gli sguardi e il volto. Si mostra impenetrabile, sorride ai nemici, controlla il temperamento, maschera le passioni, smentisce il suo cuore, parla e agisce contro i suoi stessi sentimenti. Tutto questo intenso esercizio altro non è che un vizio che si chiama «falsità». Per capire queste righe parliamo un po' del loro autore, un personaggio del Seicento francese che appare in questo nostro spazio non certo per la prima volta. Si chiamava Jean de La Bruyère ed era un medio borghese assunto come precettore del duca di Borbone. Fu in quell'ambiente aristocratico, molto artefatto e ipocrita, che egli raccolse il materiale umano per comporre i suoi Caratteri (1688), una galleria di figure e figuri che incarnavano comportamenti e vizi, soprattutto delle alte classi. Abbiamo scelto questo schizzo delizioso del cortigiano, una vera e propria maschera, pronto a far calare la visiera su pensieri, sentimenti ed emozioni personali. Alla fine tutto converge verso un profilo morale, quello che senza titubanze lo scrittore chiama «falsità». Le corti ora sono sempre più rare, ma resistono ancora questi esemplari di doppiezza un po' in tutti gli ambienti, anche in quelli ecclesiastici. È pur vero che ora - anche nell'alta società - impera il cosiddetto cafonal che è apparentemente il contrario dello stile descritto da La Bruyère, con la sguaiataggine e la volgarità erette a vessillo. Tuttavia, il metodo è sempre lo stesso: ostentare una faccia artificiosa per avere successo. Successo? Forse non è proprio così, nonostante qualche comparsata televisiva e l'apparizione su squallidi rotocalchi di gossip. Concludeva, infatti, il nostro autore con una nota realistica: «Questa falsità è talora altrettanto inutile al cortigiano (per sua fortuna!) quanto la franchezza, la sincerità e la virtù».


card. Gianfranco Ravasi

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06/10/2011 09:00



Una strada a fondo cieco


Esiste una cosa sola che ci fa male ed è questa che noi desideriamo fare. Se, invece, ci sforziamo di compiere gesti buoni o virtuosi, la scelta è così grande e ampia che alla fine ci stanchiamo già prima di decidere. Questa considerazione, contenuta nei suoi Racconti di New York (Bur-Rizzoli 2010), divenne disgraziatamente proprio la guida infelice della sua vita. Bellissima, geniale, giunta in America dalla nativa Irlanda, Maeve Brennan fu una delle giornaliste più acclamate scrivendo sul prestigioso New Yorker. Ma verso i cinquant'anni imboccò la via che la poteva annientare: alcolizzata, visse un'esistenza da emarginata fino alla morte avvenuta nel 1993. Quante volte è accaduto anche a me di incontrare persone che avevano mille possibilità di realizzazione per intelligenza, bellezza, umanità e persino per mezzi concreti. E, invece, avevano scelto l'unica strada sassosa e a fondo cieco che li aveva fatti cadere nel fango e nel vuoto. L'arcobaleno del bene ha infinite tonalità che permettono creatività, fantasia, libertà, immaginazione. Il male è ripetitivo e anche quando si dice che le perversioni sono infinite, in realtà il loro colore è monocromo e cupo: si pensi solo alla bieca reiterazione della pornografia. Eppure, spesso ci si lascia comprimere in quella strettoia e si procede scivolando verso il basso in modo quasi autolesionistico. Al contrario, quando si è di fronte alla «grande e ampia scelta» del bene, si rimane in attesa, inerti, senza il coraggio di avviarsi con un balzo lungo una di quelle strade. Manzoni, nei Promessi Sposi, scriveva: «Si dovrebbe pensare più a far bene che a star bene: e così si finirebbe a star meglio».


card. Gianfranco Ravasi

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07/10/2011 10:02




IL GIOVANE VIANDANTE



L'esempio degli antenati è come una bisaccia per il giovane viandante. «Vista dai giovani la vita è un avvenire infinitamente lungo; vista dai vecchi è un passato molto breve». Due punti di vista antitetici, entrambi con una loro verità, anche se - proprio perché ormai sono anziano - penso abbiano più ragione i vecchi. A proporci questa considerazione è il filosofo tedesco dell'Ottocento, Arthur Schopenhauer, nei suoi Aforismi sulla saggezza del vivere: forse, nel suo pessimismo, era convinto che entrambi avessero torto perché la vita, lunga o breve che appaia, è sempre un peso da portare. Al filosofo noi, invece, abbiamo accostato oggi una ben diversa riflessione riguardante sempre vecchi e giovani. Essa riflette l'antica sapienza egiziana e parla di un'eredità che non è quella materiale per cui spesso ci si accapiglia tra figli. Per il lascito di insegnamenti, di esempi, di valori non ci si batte con la stessa foga. Eppure, come ben dice il proverbio sopra citato, è questa la bisaccia colma che il giovane dovrebbe portare con sé sulla strada della vita. Qualche spirito malizioso potrebbe obiettare: in questa epoca di padri assenti è mai possibile che la bisaccia riceva qualcosa? E i figli sono forse pronti ad aprire la loro moderna pochette per accogliere cose che considerano ammuffite e retrive? Nonostante questo, noi continuiamo a sperare che ci siano anziani che hanno qualcosa da dire e da dare di vero, giusto e bello e che ci siano ragazzi non rimbambiti da miti illusori ma sensibili a voci diverse dalle loro. Aveva ragione il vecchio Cicerone quando nel suo De senectute scriveva: «Come mi piace il giovane che ha in sé qualcosa di vecchio, così mi piace il vecchio che ha in sé qualcosa di giovane».


card. Gianfranco Ravasi

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08/10/2011 12:37


DOMANI, E DOMANI, E DOMANI


Domani, e domani, e domani, / striscia a passi lenti il tempo che ci è assegnato / di giorno in giorno fino alla sua sillaba estrema. Tomorrow, and tomorrow, and tomorrow…: lenta ma implacabile come una colata di lava avanza il fiume del tempo che ci è stato prescritto. La sua corrente trascina con sé ore e giorni, spesso simili a scatole vuote, che vagolano alla deriva verso l'estuario finale. Sembra tanto lunga la distesa di quei «domani, e domani, e domani» da permetterci di non badare al loro uso e consumo. E così, all'improvviso ci resta tra le mani solo the last syllable, la sillaba estrema del discorso della vita. C'è stato qualche teologo che ha pensato che Dio ci permette con quell'ultima parola di ribaltare il nostro destino, concedendoci una suprema istanza d'appello. Ma è anche necessario non sfidare quel Dio che pure ci ha donato tanti «domani», quando saremo giunti all'«oggi» definitivo senza più «domani» della nostra fine. Non abbiamo ancora detto chi sia l'autore della nostra citazione odierna. Forse molti l'hanno già individuato: è il grande Shakespeare dell'indimenticabile Macbeth (V,5,19-21), ove impera la terribile moglie del generale del re di Scozia, Lady Macbeth, colei che in un crescendo di odio e di sangue saprà, sì, colmare i suoi giorni, ma che alla fine si troverà davanti alla «sillaba estrema» del rendiconto con la sua coscienza e precipiterà nel suicidio. «Sempre il puzzo del sangue! E tutte le essenze d'Arabia non riusciranno più a profumare questa piccola mano!» (V, 1). Raccogliamo l'invito del poeta a non lasciar scorrere nel vuoto o, peggio, nel male il fiume della vita fino a the last syllable.


card. Gianfranco Ravasi

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09/10/2011 19:08


CINQUE CHICCHI DI RISO


1. Il frutto del silenzio è la preghiera. 2. Il frutto della preghiera è la fede. 3. Il frutto della fede è l'amore. 4. Il frutto dell'amore è il servizio. 5. Il frutto del servizio è la pace. Quand'era in vita, apriva le sue giornate proprio leggendo quel «Mattutino» che io proponevo ogni mattina: me l'aveva confessato lui stesso, Igor Man, grande giornalista scomparso un paio d'anni fa, persona di spontanea umanità e simpatia, oltre che di forte intelligenza. Un giorno mi inviò una lettera nella quale mi suggeriva questo testo, dicendomi che glielo aveva scritto in inglese su un foglietto Madre Teresa di Calcutta durante un incontro. Per ricordare entrambe queste figure, ma anche per la «verità» di questi «cinque chicchi di riso», come li aveva intitolati la stessa autrice, vorrei affidarli in questa domenica a tutti i miei lettori. La semplicità del dettato non sminuisce, anzi fa risplendere la profonda spiritualità di questo messaggio nei cui confronti l'unica reazione possibile è l'esame personale di coscienza. Sono come le stelle che dovrebbero accendersi nel cielo della vita di un cristiano: silenzio, preghiera, fede, amore, servizio, pace. Porrò l'accento solo su una coppia di termini che, a prima vista, possono sembrare sinonimi: amore e servizio. In realtà, il primo è un atteggiamento interiore radicale e permanente, è una luce costante dell'anima. Una luce che bagna e avvolge il servizio concreto che si offre. In tal modo quest'ultimo non è più mera filantropia o assistenza sociale, ma diventa un atto religioso, un gesto spirituale, un segno divino. Non è più un puro e semplice «servire» per contratto, ma un dono libero e gioioso.


card. Gianfranco Ravasi

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11/10/2011 10:21




LE PALPEBRE


Un discepolo si era macchiato di una grave colpa. Tutti gli altri reagirono duramente condannandolo. Il maestro, invece, non reagì e non lo punì. Uno dei discepoli non seppe trattenersi e sbottò: «Non si può ignorare ciò che è accaduto: dopo tutto, Dio ci ha dato gli occhi!». «È vero, ma anche le palpebre!», replicò il maestro. A proposito di occhi, come non ricordare che il miglior commento a questo bell'apologo della spiritualità indiana è proprio nel Vangelo? «Perché guardi la pagliuzza nell'occhio del tuo fratello e non t'accorgi della trave che hai nel tuo occhio?» (Matteo 7,3). Ci sono in tutti gli ambienti, anche in quelli ecclesiali, questi occhiuti censori del prossimo, implacabili nel denunciare gli errori altrui, sdegnati perché si è troppo corrivi e misericordiosi. Si ergono altezzosi nel loro compito di giudici, attestando che essi vogliono rendere un servizio alla verità e alla giustizia e che il loro sdegno è profondo e amaro ma sincero. In realtà, essi si crogiolano nel gusto di sparlare degli altri e si collocano su un piedestallo che spesso è falso e artificioso: la parabola del fariseo e del pubblicano è il miglior ritratto di questi personaggi. Il racconto indiano sopra citato è accompagnato da un paio di versi dello sterminato (almeno 106 mila distici!) poema epico indiano Mahabharata: «L'uomo giusto si addolora nel biasimare gli errori altrui, il malvagio invece ne gode». Purtroppo, si deve confessare che questo sottile e perverso piacere di aprire tutti e due gli occhi sulle colpe del prossimo è una tentazione insopprimibile che lambisce tanti. Infatti — ed è il Cortegiano dell'umanista Baldesar Castiglione a ripeterlo — «tutti di natura siamo pronti più a biasimare gli errori, che a laudar le cose ben fatte».


card. Gianfranco Ravasi

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12/10/2011 11:46





COLORE, OCCHIO, ANIMA



Il colore è un mezzo per esercitare sull'anima un'influenza diretta. Il colore è come il tasto, l'occhio è il martelletto che colpisce, l'anima è lo strumento dalle mille corde. Questa immagine fonde insieme visione e suono, pittura e musica, ma il suo scopo ultimo è quello di intrecciare arte e spiritualità, raggiungendo l'anima. Il simbolo è evidentemente quello del pianoforte, uno strumento meccanico che genera, però, armonia trascendente. Tutti gli elementi sono necessari e si uniscono per dare un risultato che li supera. Così è per la pittura: il colore è un impasto naturale o chimico, c'è una tecnica pittorica da seguire, la tela o il supporto materiale sono indispensabili, ma alla fine l'esito sboccia dall'anima dell'artista e colpisce l'anima del fruitore. Costui, a sua volta, segue un'operazione fisica attraverso il suo occhio, ma non solo per vedere, bensì anche per contemplare, raggiungendo un'esperienza superiore. A ricordarci tutto questo è un famoso pittore russo, Vasilij V. Kandinskij (1866-1944) nel suo saggio Della spiritualità dell'arte. Noi ci accontentiamo ora di suggerire solo una modestissima considerazione. L'Italia è un paese colmo di musei e di opere d'arte, ma purtroppo ospita un popolo distratto e spesso volgare che non riesce neppure nella scuola a insegnare l'amore genuino per l'arte e la musica (basti solo seguire una scolaresca in un museo, e io ne so qualcosa, avendo per anni diretto la Pinacoteca Ambrosiana di Milano). L'artista non rappresenta il visibile: sarebbe banale come un pittore della domenica. Egli ci invita a scoprire nel visibile l'Invisibile. Aveva ragione lo scrittore Karl Kraus: «Arte è ciò che il mondo diventerà, non ciò che il mondo è». Per questo, essa non si ferma mai ai nostri occhi, ma mira all'anima.


card. Gianfranco Ravasi

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13/10/2011 09:57



VIAGGIO ALLA FINE DELLA NOTTE



Per incontrare la speranza, bisogna andare di là della disperazione. Quando si va sino alla fine della notte, si incontra una nuova aurora. Viaggio al termine della notte è il titolo di un romanzo provocatorio che uno scrittore francese considerato “scandaloso” e irritante, Louis Ferdinand Céline, pubblicò nel 1932. Africa, America o Francia sono per il protagonista, un reduce della prima guerra mondiale, del tutto identiche e spietate: il suo sguardo ironico e disincantato indossa costantemente le lenti offuscate del pessimismo. Ebbene, proprio in quegli stessi anni un altro autore francese, Georges Bernanos, a cui non di rado abbiamo rimandato per le nostre riflessioni, scriveva le righe sopra citate che ripropongono un altro viaggio sino alla fine della notte. Ma il suo è un messaggio antitetico: per Céline c'è sempre e solo buio, per Bernanos non può non esserci un'altra alba, come accade per ogni nostra giornata. S'incontrano o, meglio, si scontrano due concezioni antitetiche che potremmo rubricare sotto le voci «pessimismo/ottimismo», ma che in verità sono più profonde. In esse ci imbattiamo spesso non solo nelle piazze della storia, ma persino nel campo aperto della nostra anima. C'è, da un lato, il tempo del non-senso, quando il nostro pensare è esangue e sbiadito, il nostro parlare è vuoto e scipito, il nostro agire scialbo e infruttuoso. Questo pallore cadaverico che la vita acquista nasce da una crisi interiore più grave di una malattia fisica. Bisogna porvi mano, lottando a denti stretti per ritrovare, d'altro lato, una diversa tensione, quella che ti mette in cammino verso la fine della notte, rendendoti ancora desideroso dell'aurora che sta per spuntare e delle ore di una nuova giornata.


card. Gianfranco Ravasi

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14/10/2011 09:08

Amore e vecchiaia


Amore e vecchiaia


Il vero amore: la vecchiaia lo rende ancor più forte, la morte lo consacra, l'eternità lo fa continuare. Sono tanti i nemici che stanno in agguato quando l'amore passa nella nostra vita, pronti ad assalirlo, ferirlo e umiliarlo. Tra questi ci sono anche le infinite melensaggini dette e canticchiate sull'amore: si provi a sfogliare certe antologie sul tema o a divertirsi coi bigliettini degli innamorati o con quelli coi quali vengono avvolti dei dolci notissimi. Il rischio della retorica forse lo corre un po' anche il grande della letteratura francese che oggi abbiamo convocato, Victor Hugo, il quale ci offre una sua definizione del vero amore. La solennità dello stile con cui è formulato l'asserto può sminuire la verità che esso custodisce. Una verità, per altro, già proclamata dal poema biblico per eccellenza dell'amore, il Cantico dei cantici che in finale ci lascia un motto indimenticabile: «sì, forte come la Morte è Amore!» (8,6). Nel testo di Hugo si ricorda che la morte, anziché spezzare quel vincolo, lo suggella e la strada infinita dell'eternità vede i due innamorati incamminarsi nella luce e nella gioia che non verrà loro mai tolta. Più semplicemente a noi, invece, piace ora mettere l'accento sull'ultima tappa della strada terrena, la vecchiaia. Certo, anche là può emergere la debolezza morale della persona: impressionante è la descrizione delle voglie segrete dei due anziani nei confronti della bellissima Susanna del celebre racconto biblico (Daniele 13). Tuttavia, è altrettanto vero che ci sono moltissime coppie di vecchi che vivono il loro amore con un'intensità e una freschezza del tutto ignote ai giovani. Costoro "consumano" atti sessuali, ma non conoscono lo stupore e la felicità generati dalla tenerezza, dal sentimento, dall'implicito, dalla sintonia interiore. Una coppia di anziani che dolcemente si tengono per braccio in un parco cittadino: ecco un emblema di serenità e di vero amore.


card. Gianfranco Ravasi

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15/10/2011 10:06



IL FICCANASO



Signore, tu sai che invecchio di giorno in giorno e che un giorno sarò vecchia: difendimi dall'impulso di dover dire sempre la mia in ogni occasione. Liberami da quell'immenso desiderio di voler mettere ordine negli affari degli altri. Insegnami ad essere riflessiva e soccorrevole, ma non prevaricante. Insegnami la meravigliosa saggezza dell'ammettere che io posso anche sbagliarmi. Fa' che io sia il più possibile amabile. Era il 4 ottobre 1582 e ad Avila moriva Teresa de Cepeda y Ahumada, colei che sarebbe poi diventata la celebre santa Teresa di Gesù o d'Avila, proclamata dottore della Chiesa da Paolo VI nel 1970. Noi la ricordiamo oggi perché a causa della riforma del calendario da parte di papa Gregorio XIII - che entrava in vigore proprio in quei giorni - fu avanzato di una decina di giorni il computo delle date. Teresa aveva un carattere forte, una mente lucida, una penna non di rado tagliente. Lo testimoniano le righe da noi citate, molto realistiche e vivaci. Il lento scorrere degli anni invecchia corpo e intelligenza e in agguato c'è sempre il rischio della petulanza prevaricatrice nei confronti degli altri o delle novità. In italiano per definire questo vizio, che in verità non colpisce solo gli anziani, c'è un termine familiare molto vivace, il «ficcanaso». L'impiccione che è in tutti noi è sempre in agguato, pronto a giudicare, a criticare, ad assegnare pagelle agli affari altrui. L'invadente è una figura vanamente contrastata dal tanto conclamato appello alla privacy: lo stesso gossip (che è purtroppo ben diverso dal tradizionale e più bonario pettegolezzo) diventa ai nostri giorni sempre più aggressivo e mantiene prosperamente in vita riviste e programmi televisivi indegni. Ecco, allora, il monito di Teresa all'amabilità, al rispetto, all'autocritica, al «non giudicare per non essere giudicati» e - perché no? - anche al saper invecchiare con grazia e affabilità.


card. Gianfranco Ravasi

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16/10/2011 15:16




AMARE LE CATENE



Tutto il mondo aspira alla libertà, e tuttavia ciascuna creatura è innamorata delle proprie catene. Tale è il primo paradosso e il velo inestricabile della nostra natura. «Tu chiamavi libertà questo potere che hai di demolire il tuo tempio, di scompigliare le parole del poema della vita. Libertà di fare il deserto. E ora dove ti trovi? Chiami libertà il diritto di vagare nel vuoto?». Sono, queste, domande simili a un pugno nello stomaco che Antoine de Saint-Exupéry lascia irrompere nella sua opera postuma Cittadella, apparsa nel 1948, quattro anni dopo la morte in volo dell'autore del celebre Piccolo principe. Attorno alla parola «libertà», che è sulle labbra di tutti, in particolare di quelli che cercano di ferirla e piegarla, si consumano molti equivoci e contraddizioni. Ce lo ricorda anche una delle Considerazioni e pensieri del filosofo mistico indiano Sri Aurobindo (1872-1950), che abbiamo voluto proporre oggi. Egli comparava Dio a «un fanciullo eterno che gioca a un gioco eterno in un giardino eterno». La creatività libera del gioco è un simbolo per indicare un agire senza calcoli di interesse, ma col trionfo solo del gratuito, cioè dell'amore. Eppure, la libertà autentica è anche impegnativa perché è sinonimo di rigore, di carità, di creazione. L'uomo preferisce seguire l'onda, non trovarsi solo con sé stesso e con le scelte da compiere, desidera essere quietamente condotto per mano dal suo istinto o dalla guida di un altro così da accomodarsi senza pensieri e domande. È questo «il velo inestricabile della nostra natura» nel quale ci avvolgiamo e ci sentiamo protetti dal rischio che la libertà comporta. «Vincere l'intima servitù è più importante che vincere il mondo intero», si diceva nel Medio Evo.


card. Gianfranco Ravasi

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18/10/2011 10:52




DIRE DI NO, FARE DI NO


Non bisogna dire di no, bisogna fare di no: per dire che non si deve fare una cosa bisogna farne un'altra positiva. A un'amica scriveva queste parole apparentemente paradossali: «La malattia prima della morte mi sembra totalmente raccomandabile. Penso che coloro che la ignorano sono privati di una delle grazie di Dio». Sarà proprio un lupus, che le devastava il sistema immunitario, a preparare per anni alla morte, avvenuta nel 1964 non ancora quarantenne, l'originalissima scrittrice cattolica america Flannery O'Connor, dopo una breve ma intensa esistenza vissuta nella fattoria di famiglia ad allevare polli e gli amati pavoni. Il suo primo e forse più famoso libro, La saggezza nel sangue, divenne un film di John Huston; noi, però, oggi abbiamo desunto una sua esortazione da un'altra sua opera, Il cielo è dei violenti. Se la frase della lettera invitava a vivere la sofferenza come un momento di grazia, di purificazione della mente e del cuore, ora Flannery ci spinge a mettere all'insegna della nostra esistenza un motto: «Non tanto dire di no, ma piuttosto fare di no». Alla retorica della denuncia, pur legittima, dobbiamo opporre il realismo della volontà e delle scelte personali. È una variante dell'accusa evangelica a scribi e farisei ipocriti che «dicono e non fanno» (Matteo 23,3). Asseverare, deprecare, deplorare è, tutto sommato, facile ed è pure necessario. Ma è palesemente insufficiente per frenare l'onda spesso furiosa del male. Boccaccio, nel suo Decamerone, ci aveva già lasciato un altro ammonimento parallelo: «È meglio fare e pentere che starsi e pentersi». Molti, forse anche si pentono e detestano il male compiuto, ma poi "stanno", rimanendo inerti e lasciando che il flusso del peccato prosegua il suo corso. È necessario, invece, rimboccarsi le maniche ed erigere una diga: ad atto perverso un atto di riparazione e di giustizia.


card. Gianfranco Ravasi

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19/10/2011 09:16



L'ABITUDINE



Ogni giorno un uccello trovava requie sui rami secchi di un albero solitario in mezzo a una pianura desertica. Un giorno passò proprio là una tromba d'aria che coi suoi fulmini incenerì quell'albero. L'uccello fu costretto a volare a lungo. Alla fine, spossato, giunse in una foresta di alberi carichi di frutti. È una mamma che sta leggendo questa favola a un suo bambino, mentre viaggiano di fronte a me su un treno da Roma a Firenze. La morale non è più di tanto esaltante: è quella dell'adagio secondo il quale «non tutti i mali vengono per nuocere». Ma io provo a pensare a qualcos'altro, lasciandomi condurre anch'io dal fascino dell'ascolto di una voce di madre: quell'uccello non avrebbe mai rinunciato alle sue abitudini, alla sicurezza e alla modestia di un'esistenza monotona, se non ci fosse stata quella bufera e quella perdita a prima vista devastante. La tempesta può generare lo scotimento dell'inerzia, fa imboccare il rischio, lasciando alle spalle la routine, la dipendenza e l'assuefazione. È l'aprirsi di un orizzonte inatteso e inaspettato. Nei suoi Colloqui, il grande umanista Erasmo da Rotterdam portava alle estreme conseguenze questa idea: «Non vi è nulla di così assurdo che l'abitudine non renda accettabile». Certo, c'è anche l'aspetto positivo della forza di sopportazione dei mali che l'assuefazione produce. Ma l'elemento più pericoloso che trascina in sé è quello dell'accettazione, della caduta del desiderio di cercare qualcosa di più alto, è il non sospettare che ci sono mete più grandiose da conquistare. Infrangere i fili che legano piedi e mani e avviarsi in un lungo cammino è più faticoso di quanto s'immagini, tant'è vero che lo scrittore francese Courteline scherzava dicendo che «si cambia più facilmente la religione che il caffè»!


card. Gianfranco Ravasi

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20/10/2011 09:36


L'ultimo atto


La vita di una persona consiste in un insieme di avvenimenti di cui l'ultimo potrebbe anche cambiare il senso di tutto l'insieme. Uomo taciturno, Palomar porta lo stesso nome del potente telescopio americano. In realtà, egli sembra usare un microscopio per scrutare gli eventi e le cose quotidiane con un ossessivo scrupolo di precisione. Nell'ultima sua rilevazione, intitolata allegramente «Come imparare a essere morto», egli fa l'osservazione che abbiamo sopra trascritto. In verità, non è questa la conclusione del suo meditare sulla fine e sul fine della vita, ma è una sorta di punto fermo sul quale anche noi possiamo sostare. Italo Calvino che pubblicò questo libro - intitolato appunto Palomar - nel 1983, alle soglie della sua morte (1985), ci invita a una messa a fuoco sulla nostra esistenza, nella consapevolezza che ogni evento della nostra storia personale è un po' come un atomo o una cellula: estremamente minuscola, eppure capace di rivelarsi un microcosmo. Per questo, è necessario infiggervi il telescopio della meditazione (tale è il titolo della sezione del libro dove si trova la frase citata). Può sembrare paradossale questo invito in un tempo in cui si sorvola su tutto, si banalizza tutto, si archivia subito tutto nel retrobottega della dimenticanza. E invece ci sono fatti che possono cambiare non solo la direzione di una vita, ma anche il significato di tutto ciò che si è finora compiuto. A maggior ragione l'ultimo atto, quello che suggella l'intero arco dell'esistenza. È per questo che l'antica tradizione ascetica suggeriva l'«apparecchio alla morte», ossia la preparazione accurata e ponderata a quell'ultimo atto. «Chi ha imparato a morire - diceva Montaigne - ha disimparato a servire».


card. Gianfranco Ravasi

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21/10/2011 20:36




IL PERCORSO E IL DISCORSO


Si deve conoscere la meta prima del percorso. Chi non ha uno scopo non prova quasi mai diletto in nessuna operazione. Incrociamo tra loro due voci, identiche per tema e per epoca storica, anche se di lingua differente. La prima frase che proponiamo appartiene a uno scrittore tedesco che aveva assunto uno pseudonimo francese, Jean Paul (1763-1825). Egli traccia simbolicamente un disegno che comprende due componenti: lo Ziel, cioè la meta da raggiungere, e una Bahn o via tra le tante possibili. Il primato va alla prima componente, cioè la meta, che dovrebbe comandare il percorso da scegliere. Troppo spesso questa logica viene ribaltata. Non interessa la verità da raggiungere, il significato ultimo di un'azione; ci si mette per strada e poi si vedrà. Anche in religione alcuni studiosi hanno sottolineato che per molti è più importante un percorso che il discorso. Si procede sulla base di impulsi e non di motivazioni, a imperare è il fare prima del pensare. Nonostante l'apparente facilità di tale impostazione di vita, la seconda voce, quella del nostro Leopardi nel suo prezioso Zibaldone, ci avverte che alla fine un agire disordinato senza uno scopo netto e fondato risulta alienante e deludente. Eppure, far capire che è necessaria la ponderatezza nelle scelte, che avendo a disposizione anche il computer, se non hai chiara la finalità della ricerca, rimani a secco, che ogni progetto è tale solo se si prefigge un obiettivo preciso, non è poi una verità così ovvia come può sembrare a prima vista. Individuare con acutezza la finalità ultima dell'agire (per non parlare poi della vita) esige riflessione e pacatezza, virtù ignorate ai nostri giorni. Già l'antico sapiente latino Publilio Siro nel I secolo a. C. ammoniva: «In ogni iniziativa, pensa bene a dove vuoi arrivare!».


card. Gianfranco Ravasi

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22/10/2011 12:03



L'ALBERO D'INVERNO


Come gli alberi, se non patiscono l'inverno e le piogge, non possono portare frutti, così pure per noi questa vita terrena è simile a un inverno e non potremo ereditare il regno dei cieli senza affanni e asperità. Le distese desertiche, lontano da Alessandria d'Egitto, la città colta, ricca ed elegante, pullulavano di presenze solitarie: erano i cosiddetti «padri del deserto», divenuti celebri non solo per il rigore della loro ascesi, ma anche per il fulgore dei loro detti, ai quali si sarebbero abbeverati per secoli coloro che cercavano una sorgente di spiritualità. Tra questi eremiti c'erano anche alcune presenze femminili. È il caso di una nobildonna sposata che aveva lasciato la famiglia, conclusa la sua missione materna, e si era ritirata in un monastero a una trentina di chilometri da Alessandria. Si chiamava Teodora, ma si era vestita da uomo e nessuno l'aveva mai incontrata a viso aperto, tant'è che solo alla sua morte si scoprì la sua vera identità. Ecco uno dei suoi detti, legato a un elementare simbolo naturale, l'albero spoglio nell'inclemenza dell'inverno. Cristo aveva scelto l'immagine della porta stretta e della via angusta come segno dell'ingresso nel regno della vita divina (Matteo 7,13-14), ma aveva anche evocato gli alberi fruttiferi, che certo devono passare attraverso la spogliazione invernale, a differenza dei rovi che sono sempre uguali, ma alla fine improduttivi (7,15-20). Il principe degli eremiti del deserto egizio, sant'Antonio, non aveva dubbi: «Nessuno che non abbia fatto esperienza delle tentazioni potrà entrare nel regno dei cieli. Togli le tentazioni e non ci sarà nessuno che si salva». La prova è un esercizio della libertà e della coscienza, e nel regno dei cieli non ci si può andare solo perché si è trascinati dalla calca, come in uno stadio…


card. Gianfranco Ravasi

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24/10/2011 10:07


Più cibo che appetito


Non potrai mai consumare al di là del tuo appetito. Metà del tuo pane appartiene a un'altra persona e dovresti conservarne un pezzo per l'ospite inatteso. La tovaglia pulita, un servizio di stoviglie migliore, cibi più curati e un velo di serenità su tutti: è un po' questa la sigla del pranzo domenicale nelle nostre case. Ci siamo seduti a tavola, forse si è anche recitata una breve preghiera e si è pronti a un rito che purtroppo sta un po' impallidendo in una società del consumo immediato e del televisore acceso. Quello, infatti, sarebbe il momento per ricordare, soprattutto ai cristiani, questo suggerimento di un poeta libanese, vissuto a lungo in America, e divenuto popolare anche da noi per un suo libro, Il profeta. È Kahlil Gibran (1883-1931) che ci ripete l'antica lezione della carità fraterna, a partire dalla voce dei profeti i quali ricordavano che il vero culto rivolto a Dio deve consistere innanzitutto nel «dividere il pane con l'affamato, introdurre in casa i miseri, i senzatetto, e vestire uno che vedi nudo» (Isaia 58,7). È quella che gli Atti degli Apostoli chiamano la koinonía, cioè la comunione che non è solo quella del corpo e sangue di Cristo nella liturgia, ma è anche la comunanza dei beni coi bisognosi, tant'è vero che agápe, in greco «amore», indicava anche quel banchetto fraterno durante il quale eucaristia e solidarietà s'intrecciavano tra loro (si legga il severo monito paolino in 1 Corinzi 11,17-34). Più "laicamente" ripensiamo alle parole delle Massime e pensieri del settecentesco Nicolas de Chamfort: «La società si divide in due classi: quelli che hanno più cibo che appetito e quelli che hanno più appetito che cibo». Non per nulla per i primi il problema è la dieta, mentre per gli altri è la fame.


card. Gianfranco Ravasi

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25/10/2011 10:05




L'ARCHIVIO DI DIO



Credo che in qualche punto dell'universo debba esserci un archivio in cui sono conservate tutte le sofferenze e gli atti di sacrificio dell'uomo. Non esisterebbe giustizia divina se la storia di un misero non ornasse in eterno l'infinita biblioteca di Dio. «Il mio vagabondare tu, o Dio, lo registri; le mie lacrime nell'otre tuo raccogli: non sono forse scritte nel tuo libro?». È l'antico Salmista ebreo a cantare (56,9): Dio raccoglie tutte le lacrime delle vittime della storia umana, così che esse non cadano nel vuoto. Esse sono agli occhi di Dio realtà preziose come l'acqua che il beduino conserva nel suo otre quando viaggia nel deserto. In questo scrigno e nell'«anagrafe» ideale della vita dell'umanità Dio registra e custodisce come tesori tutte le sofferenze. La stessa idea è nel bel frammento che abbiamo desunto dal romanzo L'immagine di Isaac B. Singer (1904-1991), scrittore ebreo polacco vissuto in America, fedele sempre alla lingua materna yiddish. Alle righe che abbiamo citato è sottesa l'eterna domanda: c'è un senso al nostro dolore? E per il credente: c'è un Dio che raccoglie tutte le lacrime nascoste? Per l'ebreo in particolare: l'«Olocausto» ha almeno nel supremo progetto divino sulla storia una collocazione possibile? Interrogativi brucianti che vengono per ora accantonati dallo scrittore, Nobel 1978 della letteratura, ma che approdano alla certezza che – qualunque sia la risposta filosofica o teologica – Dio non può ignorare questo respiro di dolore che sale dalla terra. Nei suoi colossali archivi non sono registrati tanto i trionfi militari o i successi umani (a questo pensano già i libri umani di storia e i relativi documenti) quanto piuttosto lo sterminato patrimonio di lacrime, lutti, lamenti e affanni. Solo Dio saprà con essi costruire una trama nel libro della vita che orna la sua «infinita biblioteca».


card. Gianfranco Ravasi

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26/10/2011 09:28



LA METAMORFOSI


Gregorio Samsa, svegliandosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo. Molti avranno riconosciuto in queste righe l'avvio di uno dei racconti più famosi (e sconcertanti) del Novecento, Die Verwandlung, «la metamorfosi» (1916) di Franz Kafka. La storia è nota. Un commesso viaggiatore si sveglia dopo una notte di incubi e si ritrova trasformato in un ungeheuren Ungeziefer, un insetto enorme e mostruoso. Ripugnante per i suoi stessi familiari, si rassegna a sparire sotto il letto, nutrito di rifiuti e compatito solo dalla vecchia domestica. Un giorno, però, attratto dal suono del violino di sua sorella Grete, osa farsi strada tra i suoi familiari: il padre, però, lo sorprende e gli scaglia contro una mela. Gravemente ferito, ripara sotto il suo letto ove muore poco dopo. La serva, pur commiserandolo, lo getta nella spazzatura. Si chiude, così, una parabola surreale e allucinante, che è anche un'amara rappresentazione di un'esistenza degradata che non incontra pietà né redenzione. L'abbiamo riproposta per un'ulteriore finalità rispetto a quella un po' enigmatica e dura intesa dall'autore. Ci sono momenti della nostra vita in cui ci sentiamo vermi, come si è soliti dire. Ed è forse giusto che si provi questa sensazione soprattutto quando la sequenza delle colpe si è ingrossata, il cuore si è indurito e abbiamo compiuto gesti vergognosi. C'è, però, anche il dramma di chi precipita nell'abisso della depressione e si sente prostrato e avvilito, disperato e abbandonato. C'è, infine, chi è considerato un insetto dalla brutalità altrui, oggetto di un disprezzo aggressivo, incapace di autodifesa. Sono, quindi, molte le iridescenze della «metamorfosi» negativa. Non dimentichiamo, però, che questo termine è in greco quello che descrive anche la «trasfigurazione» di Cristo! C'è, dunque, anche per noi un'altra «metamorfosi» luminosa.


card. Gianfranco Ravasi

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27/10/2011 09:52


La nostalgia



Per noi spesso è dove non siamo che stiamo bene. Così, il passato – ove non siamo più – ci appare bellissimo. «I veri paradisi sono i paradisi perduti»: è facile capire che a fare questa affermazione sia stato lo scrittore francese Marcel Proust che passò la sua esistenza «alla ricerca del tempo perduto», quasi fosse un'isola dei beati smarrita. La nostalgia lo attanagliava e lo faceva attendere non più l'alba del nuovo giorno, perché il suo volto era girato sempre verso il tramonto della giornata precedente, ormai irrimediabilmente trascorsa e ai suoi occhi alonata di luce dorata. In modo più realistico, un altro grande scrittore come Anton Cechov nel testo sopra citato ci fa capire, invece, che questo rimpianto del passato è illusorio, frutto di una vera e propria deformazione della nostra ottica spirituale. Di solito si evoca la moglie di Lot come simbolo negativo: «essa guardò indietro [verso Sodoma e Gomorra coperte da una coltre di zolfo e fuoco] e divenne una statua di sale» (Genesi 19,26). Come emblema positivo di un ritorno alle radici perdute è, invece, esaltato l'Ulisse omerico. Sta di fatto che camminare col viso rivolto indietro in una permanente deprecazione del presente, incapaci di progresso e chiusi in un cupo circuito di malinconia, è alla fine una malattia della psiche (la «nostomania», dicono gli psicologi), ma anche dello spirito che si raggela e cristallizza, perdendo ogni dinamismo e bloccandosi in un pedante conservatorismo. È, però, necessario anche spezzare una lancia in difesa della nostalgia. Senza passato si è ben miseri, senza memoria non si riesce a progredire, senza radici si è smarriti e sperduti. Ed è proprio questo il rischio che stiamo correndo oggi, smemorati come siamo di un passato che ci potrebbe invece illuminare, eccitare e potenziare.


card. Gianfranco Ravasi

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