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"TRACCE" - Riflessioni quotidiane di Anna Foa

Ultimo Aggiornamento: 14/09/2013 10:13
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26/07/2013 10:00



LO SPAZIO NEUTRO



C'era un tempo, negli anni Venti e Trenta del Novecento, che gli intellettuali più famosi della Germania e dell'Austria preferivano alle case gli alberghi e come studio usavano i caffè. Vi si sedevano in tarda mattinata, bevevano e scrivevano e vi facevano conversazione fino a tarda notte. La maggiore poetessa dell'espressionismo tedesco, Else Lasker-Schüler, vi viveva proprio, dal momento che sovente non aveva nemmeno i soldi per l'albergo. Joseph Roth, invece, passava da un albergo all'altro e considerava come assurda l'idea di metter su casa, anche potendo. I caffè di Vienna erano assai più che dei luoghi di ritrovo, erano il cuore della cultura austriaca. Nel suo «Hotel Savoy», una delle prime opere di Joseph Roth e quella che lo consacrò come grande scrittore, il valore eccezionale dell'albergo emerge con forza. L'albergo è fuori dal tempo, è spazio neutro, consente di essere marginale e al tempo stesso ti offre tutto l'agio possibile. Succede anche che uscire dal proprio spazio abituale ti consente quella concentrazione della mente che sola sfocia nella scrittura. Così, il caffè e l'albergo incontrano l'aspetto bohème della scrittura, la sua immagine marginale e trasgressiva. E liberano, sovente, la scrittura rimasta bloccata nelle pastoie della vita borghese.


Anna Foa


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27/07/2013 10:56



L'ATTENZIONE DEI PIÙ



La parola «cabala» è uno di quei termini che sono stati sottoposti nel tempo a slittamenti progressivi di significato, senza tuttavia che quello originale andasse perduto e senza che, anche nella versione popolare, di quello originale si perdessero completamente le tracce. Cabala, o meglio Qabbalah, è la tradizione mistica ebraica come si afferma nella Spagna del XIII secolo, anche se per meglio affermarne il carattere esoterico se ne attribuiva l'origine a tempi più remoti. Ma cabala è anche la popolare interpretazione dei sogni attraverso i numeri e le lettere, la divinazione dei numeri del lotto, la magia dei ciarlatani: tutte trovate che vanno sempre molto di moda e che in quella dotta tradizione filosofica hanno parte delle loro radici. I numeri, le lettere, gli spazi delle lettere sono momenti importanti delle tecniche di apprendimento e interpretazione cabbalistiche dotte. Bisogna anche dire che la Qabbalah, nata dentro la tradizione ebraica e ad essa intimamente legata, trovò presto nel mondo cristiano seguaci desiderosi di impararla. Così nella Venezia del Cinquecento i dotti cristiani facevano la coda presso i sapienti ebrei per poterla apprendere da loro. Si sa, tutto ciò che è nascosto e per pochi attrae sempre l'attenzione dei più.


Anna Foa



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29/07/2013 06:35



PAROLE E LIBERTÀ



«Le parole sono pietre», ha scritto Carlo Levi. E mai come nel libro di Victor Klemperer, La lingua del Terzo Reich, possiamo renderci conto del valore profondo di questa semplice affermazione. Perché, ci spiega l'autore, ebreo tedesco sfuggito alla deportazione e poi vissuto nella Germania comunista, i totalitarismi inventano una propria lingua e tendono a distruggere quella che era espressione della società che li aveva preceduti. E non solo creano nuove parole adatte a sollecitare il consenso e l'identificazione cieca del popolo o modificano le vecchie, come fanatismo, vittoria totale, stirpe, ma attraverso la loro ripetizione e l'uso costante dell'aggettivo superlativo le trasformano in strumenti di guerra. E la denigrazione violenta dell'avversario fa parte di questa trasformazione che dalla lingua passa alla mente, da linguistica diviene antropologica. Anche il terrore giacobino e poi il totalitarismo comunista hanno creato un loro linguaggio, declinando i termini della cultura del sospetto e del tradimento. E anche qui lo sbocco fu mortale. Se ne deduce che le parole vanno sorvegliate, usate secondo il loro significato, mai gridate a ferire o a distruggere l'avversario. Toni sommessi, pacati: uno strumento vitale per la libertà.


Anna Foa



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30/07/2013 10:16



OSSERVARE E CREDERE



Quando l'Inquisizione spagnola cercava i falsi convertiti, i cosiddetti «marrani», cioè quegli ebrei battezzati che mantenevano fede alle antiche pratiche religiose, non interrogava i sospetti su quella che era la loro vera credenza, sulla loro adesione alla fede nel Dio cristiano, ma su quanto facevano: su quello che mangiavano, su come seppellivano i morti e su altri aspetti della loro vita quotidiana. Questo perché gli inquisitori ben sapevano che l'ebraismo è una religione della prassi e non della fede, e che l'osservanza si esplica nella pratica dei rituali e nell'obbedienza ai divieti e non nella fede del cuore. Ed ecco i giudici chiedere alla servitù se le loro padrone marrane mescolavano la carne e il latte, come è proibito agli ebrei, e in che giorno della settimana si cambiassero la biancheria. Tutte tracce di una credenza nella «fede di Mosé» che erano poi discusse e valutate nei processi e che potevano rappresentare il discrimine fra il rogo e la libertà. Così, una vecchia donna è accusata di non mangiare carne di maiale. Accusa grave perché traccia inequivocabile di marranesimo. Ma lei nega e dice di farlo perché debole di stomaco. Alla fine confesserà il suo intento, quello di osservare la fede di Mosé. Ma sotto tortura. Qual è il vero dietro la traccia?


Anna Foa



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31/07/2013 09:53



MARGINALI E SIGNIFICATIVE



Il mio mestiere, quello di storico, ha molto in comune con altre attività, quali quella del medico, quella del cacciatore, quella dell'investigatore. Si tratta infatti di cercare le tracce di qualcosa: per i medici, le tracce sono i sintomi della malattia; per i cacciatori, le tracce sono le orme delle loro prede; per gli investigatori, come per i giudici, le tracce sono gli indizi lasciati dall'assassino. Noi storici invece cerchiamo le tracce del passato. Il metodo non è molto diverso. Le tracce sono spesso impercettibili, non appaiono come tali a prima vista, richiedono di essere analizzate, decodificate, filtrate. Sempre, in ogni genere di investigazione. Freud usa a interpretare i sogni e la mente dei suoi pazienti tracce infinitesimali, aspetti marginali che diventano all'interpretazione fondamentali, orme insomma. Più le tracce sono marginali più sono significative. Sul fatto che le tracce siano sempre confuse aveva già scritto Baudelaire, quando aveva detto che «La natura è un tempio dove pilastri viventi lasciano talvolta filtrare confuse parole». Quando le sparse orme assumono un senso d'insieme, come in un puzzle in cui ciascuna tessera va improvvisamente al suo posto, allora abbiamo trovato ciò che la traccia disvela.


Anna Foa


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01/08/2013 11:40



Memoria e storia


In Italia è poco nota, anche se è invece molto famoso Tzvetan Todorov, l'antropologo che ha scritto un libro su di lei e che la considera una figura esemplare nella storia del XX secolo. È Germaine Tillion, etnologa francese, resistente, deportata nel 1942 come prigioniera politica a Ravensbruck, il campo di sole donne, dove sua madre fu inviata alla camera a gas e da dove lei riuscì a tornare. Nella sua lunghissima vita - era nata nel 1907 e morì nel 2008 - la Tillion si è occupata della guerra d'Algeria, del gulag, dei diritti umani. Ha denunciato la tortura dei paras e ha confrontato gli orrori del gulag a quelli dei lager dove era stata prigioniera. Nel bellissimo libro che ha dedicato al campo di Ravensbruck, riscritto in tre diverse versioni negli anni, l'autrice «trasforma la propria memoria in storia», come scrive Todorov nell'introduzione, cioè coniuga armoniosamente soggettività e rigore. Come Hannah Arendt, Tillion affronta il problema della "banalità del male", ricalcando le orme non di Eichmann ma di Himmler. «Bestia notturna che nasconde le sue tracce» oppure un impiegatucolo qualunque? Nel qual caso, conclude, ci sarebbe davvero da aver paura, «perché quel ventre lì», quello degli uomini qualunque, «è ancor più fecondo di quello della Bestia».


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02/08/2013 08:28



Solo indifferenza



Dalle lettere che si scrissero tra il 1964 e il 1973 lo storico tedesco Joachim Fest e la filosofa Hannah Arendt molta luce può derivare sulla famosa formulazione della Arendt, «la banalità del male» che tante reazioni polemiche ha suscitato, in particolare in Israele. Ci sono possibilità di restare innocenti dentro un sistema totalitario? Ci si domanda. E per compiere il male bisogna essere un assassino o basta essere inserito in un meccanismo omicida senza trovare la forza o la voglia di opporsi? Queste le domande, scaturite dalla Shoah e poi dal processo Eichmann, ma ancora oggi urgenti e brucianti di fronte alla coscienza dell'umanità in tante circostanze e in tante gradazioni del male. Definendo il male come banale, afferma Arendt, non si vuole asserire che tutti siano capaci di diventare degli Eichmann, ma definire degli assassini che non sono mossi da moventi personali, «assassini da scrivania o di massa». Ma con questo non si vuole certo sottovalutarne la gravità o darne una qualunque assoluzione. Questi assassini, ribadisce anzi Hannah Arendt, sono ancora più terribili degli altri perché non hanno nessun rapporto con le loro vittime. Né odio né responsabilità né rimorso, potremmo aggiungere. Solo indifferenza.


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03/08/2013 09:48



Letture e destino



Il ghetto di Varsavia fu creato dai nazisti nel 1940 e fu svuotato per tre quarti, con destinazione il campo di sterminio di Treblinka, nell'estate del 1942. In quei due anni, fra la morte, l'attesa della morte, la fame e le malattie, il ghetto fu vivo. I bambini morivano nelle strade, ma i teatri e i cabaret funzionavano. C'erano biblioteche, si leggeva, mentre il grande pedagogista Janus Korczak insegnava ai suoi piccoli orfani a recitare la morte perché ne avessero meno paura quando sarebbe inevitabilmente arrivata. Ma che cosa leggevano gli ebrei chiusi nel ghetto di Varsavia e negli altri ghetti? Che traccia abbiamo delle loro letture? Uno dei libri più letti, ci dicono le testimonianze, era il romanzo di Franz Werfel I quaranta giorni del Mussa Dagh, pubblicato nel 1933, che descriveva lo sterminio armeno del 1915. Chi lo leggeva nei ghetti nazisti era ben consapevole di leggerlo con tanta passione perché vi ritrovava la sua storia e il suo destino, di leggere cioè del genocidio degli armeni pensando al genocidio che si stava compiendo sugli ebrei. Forse, c'era anche una piccola speranza, perché la storia dei villaggi armeni in rivolta contro i turchi aveva un lieto fine: i protagonisti erano messi in salvo da una nave francese. Niente salvò gli ebrei chiusi nei ghetti.


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04/08/2013 11:35



Mai nulla è uguale


Con il passar del tempo, è noto, i nostri ricordi subiscono una serie di selezioni successive. Il progredire del tempo li riorganizza, li risistema in accordo alle nostre esigenze attuali, fino ad arrivare, nell'estrema vecchiaia, a cancellare le memorie più recenti, facendo invece riemergere quelle del passato più antico. Parlando del passare del tempo, evidentemente, non ci riferiamo solo allo scorrere del calendario, all'età anagrafica insomma, ma a tutto quello che questo processo comporta, traumi, lutti, eventi felici, viaggi, conoscenze. Ci sono anni che scorrono lievi senza quasi lasciar tracce ed anni pesanti come macigni, anni che non si cancellano mai e anni banali e superficiali. Le tracce che la memoria lascia su di noi sono sempre diverse e pochi sono i ricordi fissati indelebilmente nella nostra coscienza senza essere modificati, mutati, smorzati dal nostro cambiamento. È il panta rei degli antichi filosofi, applicato al nostro sguardo invece che alla realtà? E potremmo allora dire non soltanto che l'acqua di un fiume ci scorre davanti sempre diversa ma che non solleciteremo mai un ricordo nello stesso modo, non rileggeremo mai un libro con gli stessi occhi. Per questo da vecchi amiamo rileggere i classici, per ritrovarvi le tracce della nostra giovinezza.


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06/08/2013 11:24



Non solo parole



Il primo marito di Hannah Arendt, Gunther Anders, era un filosofo come lei, allievo di Husserl mentre Hannah lo era di Heidegger, che com'è noto fu anche il suo grande amore. Il loro matrimonio durò poco, ma Anders, che sopravvisse di molti anni alla Arendt, mostra di aver conservato negli anni l'amore che le aveva portato quando erano ambedue giovani filosofi sconosciuti. Anders ne ha anche scritto, rievocando le battaglie filosofiche che i due sostenevano, discorrendo di Leibnitz e di Dio, del copernicanesimo e della superiorità degli esseri umani, di fronte ad un grande cesto di ciliege che snocciolavano per farne marmellata e di cui Hannah si cibava golosamente. Gli schizzi che il marito traccia della filosofa, allora giovane e bella, sono al tempo stesso vivaci e delicatissimi. Colpisce l'immagine di lei che, sorda alla musica e cieca all'arte figurativa, chiede al marito di tradurgliela in parole. Solo attraverso la razionalità passava, in realtà, per Arendt la comprensione. Confidava così assolutamente nella lingua, che non pensava che esistessero altri linguaggi privi di parole. E quando Anders le spiega i dipinti, le pareti diventano per lei “vetrate” e confessa umiliata di non aver mai saputo che dei dipinti bisognasse imparare le lingue.


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07/08/2013 10:41



Il fantomatico regno


In un giorno d'inverno del 1523, uno strano personaggio sbarcò a Venezia da una nave che veniva dall'Oriente. Diceva di essere l'ambasciatore del regno ebraico di Habor, popolato di trecentomila sudditi. Accolto con diffidenza dagli ebrei del ghetto veneziano, si portò a Roma dove fu ricevuto dal papa Clemente VII e dal cardinal Egidio da Viterbo, dotto ebraista. Era latore di una proposta di alleanza del suo re ai principi cristiani in funzione antimusulmana. Andò per mare in Portogallo, allora privo di ebrei ma popolato fittamente di conversos, e fu da loro accolto come un liberatore. Scacciato dal re, timoroso che i suoi sudditi recentemente battezzati a forza tornassero a professarsi ebrei, finì i suoi giorni in Spagna nel 1538, su un rogo dell'Inquisizione spagnola, non prima di aver tentato, sembra, di convertire al giudaismo nientedimeno che l'imperatore Carlo V. Lasciò un diario in ebraico e molte memorie della sua avventura. Per i suoi seguaci, era il Messia, anche se a considerarlo tale furono solo i conversos, mentre gli ebrei italiani, da Venezia a Roma, mantennero su di lui e sul suo fantomatico regno un diffuso scetticismo. Ma incuriosì e affascinò i dotti, quelli cristiani più ancora di quelli ebrei.



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08/08/2013 10:14



La poetessa il cagnolino


Nel 1933, nel suo Flush, Virginia Woolf raccontò la storia di un grande ed esclusivo amore, quello fra la poetessa inglese Elizabeth Barrett, poi divenuta la moglie del poeta Robert Browning, e il suo cane, uno spaniel fulvo dal nome Flush. Per amore della Barrett, a cui viene regalato cucciolo mentre lei giace malata e reclusa nella sua camera, Flush rinuncia alle corse nei prati, agli amori canini, e si sdraia ai piedi della padrona, fedele compagno. I due finiscono per assomigliarsi, come ci mostra un ritratto di Elizabeth che la mostra con i boccoli laterali simili alle orecchie cascanti di Flush. A turbare questo amore esclusivo, l'apparizione di Robert Browning, foriera di distrazioni e gelosie. Ma poi, la grande pacificazione all'interno del nostro triangolo: Elizabeth fugge di casa con Flush per seguire Robert, verso l'Italia. Saranno da allora in poi in tre, fino alla morte di Flush e poi di Elizabeth. Della storia di Flush Virginia Woolf ha trovato le tracce nei versi e nei diari della poetessa, ridando vita con delicatezza alle emozioni amorose di un cane e di una poetessa, che riposano da tanto tempo distanti, l'uno nella cantina di una casa di Firenze, l'altra nel cimitero degli Inglesi, come ad ogni umano che si convenga.


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09/08/2013 10:48



Oltre la catastrofe



Mentre in Giudea infuriava la guerra tra i romani e gli zeloti, un semplice studioso, Johannan ben Zakkai, uno dei leader della comunità dei farisei, riuscì a far rinascere dalla catastrofe l'ebraismo e a salvarne la continuità, sia pure trasformandolo radicalmente da culto fondato sul sacrificio nel Tempio a culto centrato sulla lettura e la trasmissione della parola di Dio. Secondo la leggenda, ché ben poche e più tarde sono le fonti storiche che ne abbiamo, il rabbino durante l'assedio di Gerusalemme fu trasportato dai suoi discepoli nascosto in una bara fuori dalla città, parlò con il generale Vespasiano e predicendogli il trono riuscì ad ottenere il suo assenso alla fondazione di una scuola rabbinica nella città di Yavne. Da quella scuola sarebbe risorto l'ebraismo. Di questo rabbino, avverso agli zeloti e favorevole al compromesso, abbiamo un bel ritratto letterario che ci consola almeno un poco della mancanza di altre fonti. Lo ritrae Lion Feuchtwanger, un romanziere tedesco degli anni Trenta autore di una bella e purtroppo dimenticata biografia in tre volumi di Giuseppe Flavio: «un giudeo vecchissimo, molto piccolo, molto ragguardevole, i cui occhi azzurri spiccavano con strana freschezza nel suo volto tutto rughe incorniciato da una barbetta stinta».


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10/08/2013 10:19



Un dubbio che resta


Fra gli ebrei dell'epoca della distruzione del Tempio doveva essere noto che Vespasiano, oltre ad avere tutte le carte in regola per diventare presto imperatore, era particolarmente sensibile a quanti gli predicessero la sua prossima assunzione al trono. Fu così che anche Josef ben Matitiahu, uno dei capi della guarnigione di Iotapata dove erano asserragliati gli zeloti ribelli, catturato dai romani e condotto di fronte a Vespasiano, salvò la pelle, passò dalla parte dei romani e divenne storico della Corte dei Flavi. Prese il nome di Giuseppe Flavio e usò il greco nelle sue opere fondamentali, La guerra giudaica e Le antichità giudaiche. Quale il confine tra il compromesso e il tradimento, potremmo domandarci? Giuseppe Flavio era un grande scrittore e molto di ciò che sappiamo sul mondo ebraico di questi anni ci viene soltanto da lui. È anche vero che la sua storia della guerra giudaica è apertamente orientata in senso favorevole ai romani. Tradimento o compromesso, insomma? Come allo storico Vidal Naquet, che ne ha autorevolmente scritto, anche a me Giuseppe Flavio piace molto di più di quanto non mi potrebbero mai piacere gli zeloti, chiusi e fanatici. Eppure, il dubbio resta.


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12/08/2013 10:17



Il labile confine



Nel mio mestiere di storica, la possibilità di tracciare un confine tra tradimento e compromesso mi ha sempre intrigata. È un altro dei mille intrecci tra morale e storia che si ripresentano a chi studia il passato, a volte come una sfida all'interpretazione, altre più sottilmente, come insinuandosi nelle fessure tra i fatti e nelle discordanze tra le interpretazioni. A partire dal processo Eichmann, per citare uno di quei casi in cui questo confine rappresenta un problema irrinunciabile, molto ci si è interrogati sui consigli ebraici nei ghetti nazisti e sul giudizio da dare sulla loro opera. Per salvare almeno una parte degli abitanti dei ghetti essi dovettero ad un certo punto sacrificare vecchi e bambini. In questa circostanza, ci fu chi, come il presidente del ghetto di Varsavia si suicidò, e chi sopravvisse per tentare di continuare a salvare il salvabile o anche, in alcuni casi, corrotto dal potere. Dopo la guerra, questi uomini furono visti come collaborazionisti da quegli stessi che avevano salvato e di cui avevano mandato alla morte figli e genitori. Come biasimare questi sopravvissuti, privati dei loro cari? Ma resta aperto il problema di quale sia stato il momento in cui il compromesso è divenuto vera e propria collaborazione con il nemico.


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13/08/2013 10:33



La forza dei libri



Siamo noi che abbiamo bisogno dei libri o i libri che hanno bisogno di noi? Questa la domanda che ci rivolge il grande critico inglese George Steiner. Che i libri abbiano bisogno di lettori, e che la funzione del libro sia quella di portare la parola scritta al lettore, questo è evidente. Ma nelle formulazioni di Steiner c'è qualcosa di più: il lettore mette in opera una collaborazione con l'autore, in un processo circolare di osmosi, in cui il lettore rivolge domande alla parola scritta, la interpreta, la recita e la modula nel caso di teatro o di poesie. Nella vivace formula di Steiner, se da una parte siamo noi che leggiamo il libro, dall'altra è il libro che ci legge. Questo potere del lettore sul libro, che tende a diventare per il libro la garanzia stessa della sopravvivenza, è bilanciato dalla forza incredibile del libro sulla mente e sulla fantasia del suo lettore. Se nella nostra funzione di lettori selezioniamo a seconda delle nostre domande e delle nostre affinità i libri, e facciamo quindi una scelta precisa anche sulle tracce che vogliamo preservare del passato, siamo poi posseduti e dominati dai libri, e la nostra realtà ne viene fortemente condizionata, modificata, ricreata. Fino a perdere, in qualche caso, il principio stesso di realtà.


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14/08/2013 11:09



Le biblioteche e il sempre



Nonostante il dominio del digitale, il libro esiste ancora. E con i libri, le biblioteche, piccole o grandi, pubbliche o private. Ci sono biblioteche antiche, gioia degli occhi e del cuore, in cui i volumi disegnano arabeschi sullo sfondo, come la Biblioteca Angelica a Roma con la sua alta volta foderata di antichi volumi. Ci sono biblioteche modernissime di vetro e acciaio, pensate come indistruttibili. Eppure, nella storia le biblioteche sono state distrutte. La loro distruzione è rimasta a segnare un trauma e i contemporanei hanno vissuto la loro scomparsa come una perdita incancellabile. Pensiamo alla biblioteca di Alessandria, sulla cui distruzione gli studiosi ancora discutono, o alla biblioteca di Sarajevo, completamente distrutta durante l'assedio serbo con la stragrande maggioranza dei suoi libri, dei suoi incunabuli, dei suoi preziosi manoscritti di cui non resta più traccia. E ancora ricordiamo la Biblioteca Nazionale di Firenze allagata con l'alluvione del 1966, i libri e i manoscritti nel fango, i giovani che giungevano da ogni parte del mondo a cercare di recuperarli, di farli asciugare, di evitarne la distruzione. Sì, le biblioteche esistono ancora e creano forti emozioni negli animi. Sarà ancora e sempre così?


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15/08/2013 09:42



Il senso più inquietante



Mi sono sempre domandata quale sia il movente delle spie. Non intendo gli agenti segreti alla James Bond o alla Le Carré, ma coloro che denunciano e tradiscono i loro compagni di lotta o i loro parenti ed amici, come Celeste Di Porto, la ragazza ebrea che denunciò tanti suoi correligionari durante l'occupazione nazista a Roma. Leggendo i verbali processuali e le denunce, emergono molte spiegazioni interessanti. Primo movente è quello dei soldi, ma non solo. Spesso, i soldi sono collegati ad una vita di lusso, priva di limiti, la cocaina o il gioco per Pitigrilli, la spia dell'Ovra, i gioielli e le cene al ristorante per Celeste Di Porto. Ma c'è qualcosa di più torbido, un misto di senso di onnipotenza e di voluttà di denuncia. Anche in alcuni interrogatori della polizia fascista, in cui colui che viene interrogato decide di denunciare gli altri, si percepisce una volontà netta di nuocere. Di tutti questi moventi, il senso di onnipotenza è il più inquietante e lo troviamo in molte spie che denunciavano gli ebrei nella Roma occupata: ad alcuni elargivano salvezza, ad altri deportazione e morte, ad libitum. Quando l'uomo si crede Dio, in una situazione in cui può molto, molto grande è anche il male che può fare.


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17/08/2013 10:31



Un regno perduto



Mentre i viaggiatori ebrei del Medioevo giravano il mondo a cercare le mitiche tribù perdute, esisteva tra il Mar Nero e il Mar Caspio un regno ebraico, quello dei Kazari. Erano una popolazione seminomade di origine turca, convertitasi all'ebraismo intorno all'VIII secolo. «In Cazaria, scriveva nel X secolo un viaggiatore musulmano, pecore, miele ed ebrei si trovano in grande abbondanza». Il regno dei kazari, durato fino al XIII secolo e poi spazzato via dai mongoli, fece da cuscinetto fra Oriente ed Occidente bloccando nell'VIII secolo l'espansione musulmana sul Caucaso negli stessi anni in cui l'avanzata dell'islam veniva fermata da Carlo Martello a Poitiers. Poco è conosciuto sulla conversione dei kazari all'ebraismo, che riguardò probabilmente solo le fasce alte della popolazione. Una corrispondenza del X secolo tra il re dei Kazari Giuseppe e l'ebreo spagnolo Hasdai Ibn Shaprut ce ne fornisce una versione mitica, come leggendaria è la versione datane intorno al 1140 dal filosofo e poeta ebreo spagnolo Yehuda Halevi, nel suo trattato Al Kuzari, di un confronto tra il re dei kazari e gli esponenti delle tre religioni monoteistiche, da cui sarebbe emersa la superiorità dell'ebraismo. Per quanto poco documentata, però, quella del regno dei kazari è una storia vera.


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18/08/2013 06:12



I paradossi della storia



Dei kazari si occupò anche Arthur Koestler in un suo libro famoso, La tredicesima tribù. Che fine avevano fatto i kazari dopo la loro sconfitta? Si chiede. Koestler riprende una controversa teoria che fa derivare almeno in parte gli ebrei ashkenaziti proprio dalla dissoluzione del regno dei kazari. Di quanta parte si trattasse, è tema ancor più controverso. Che una parte dei kazari si siano volti ad Occidente, approdando in Polonia, dove a partire dal Cinquecento ci fu un forte aumento della popolazione ebraica, è possibile. Meno probabile che essi siano approdati nella Germania renana, dove il fiorire delle comunità ashkenazite è già della fine del primo millennio. Ciò che affascina uno scrittore anticonformista come Koestler è il paradosso che ne deriverebbe: che gli ebrei ashkenaziti potessero essere di origine non semitica, ma “indoeuropea”, per usare un termine controverso, che non fossero ebrei in origine ma convertiti all'ebraismo. Se fosse vero, quegli ebrei orientali che Hitler, in nome della razza, sterminò in Polonia durante la Shoah avrebbero avuto prevalentemente un'origine ariana, non semitica. L'ipotesi è paradossale e certo eccessiva, ma apre possibilità inesplorate di cogliere le stranezze e le bizzarrie della storia.


Anna Foa


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