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"TRACCE" - Riflessioni quotidiane di Anna Foa

Ultimo Aggiornamento: 14/09/2013 10:13
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03/07/2013 11:59




IL SENSO DELLA LETTURA


Ho un ricordo molto vivido del momento in cui cominciai a leggere da sola, mentre non ricordo affatto il processo di apprendimento che deve naturalmente averlo preceduto. Ma invece mi vedo chiaramente con un libro in mano, la sera nel letto, a leggerlo da sola per la prima volta e risento ancora la sensazione che ho provato: improvvisamente, mi è sembrato di avere le ali e di poter volare, di poter uscire dal mio corpo e dalla mia stanza e di poter andare ovunque volessi, senza limiti. Mi sembrò che si aprissero infinite possibilità di fronte a me, innumerevoli vite da percorrere e rivivere, misteriosi luoghi da esplorare. Era un senso mai provato fino ad allora di libertà infinita. Leggendo, mi sentivo senza peso, senza corpo, senza legami. Non dovevo più supplicare che gli altri mi leggessero qualcosa e dipendere dalle loro scelte. Ci ho ripensato molte volte quando leggevo a mio figlio o alle mie nipotine, e soprattutto quando leggevo qualcosa a mio padre, quando era molto vecchio e quasi cieco. La libertà, pensai, si può perdere, non dura illimitatamente. Anche quella che dipende solo da te. Perché sei fatto anche degli occhi, che possono tradirti, anche delle forze, che possono lasciarti. E il libro, con la libertà che consente, ti cade dalle mani.


Anna Foa


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04/07/2013 14:33



DENTRO L'ESILIO


Tra i tanti miti che accompagnano la storia del popolo ebraico, ce n'è uno che narra come dopo la cattività ad opera degli assiri dieci delle dodici tribù non siano tornate in patria, ma siano state nascoste da Dio in paesi lontani da dove ritorneranno solo con l'avvento del Messia. È il mito delle tribù perdute d'Israele. Già formulato nei testi biblici, dove unisce all'esilio il tema della punizione divina, è riformulato nei testi profetici dove all'esilio e alla punizione si
accosta il ritorno, il ristabilimento: le tribù torneranno. Dopo queste antiche formulazioni, il mito si sviluppa, si arricchisce. In Ezra IV, testo apocrifo della fine del I secolo d.C., le tribù decidono di recarsi in una terra lontana e incontaminata dove poter mantenere la purezza dell'osservanza. Fa la sua comparsa il fiume Sambation, che le divide dal mondo, e le cui acque il Signore tratterrà per consentir loro di tornare. In un brano talmudico è una nuvola che scende sugli esiliati per volontà di Dio e li occulta. Le tribù restano così fuori dal tempo e dallo spazio, moltiplicando l'esilio col crearsi un esilio entro l'esilio: nascoste, occultate, ma presenti. E il loro ritrovamento annuncia agli ebrei l'era messianica.


Anna Foa


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05/07/2013 09:54



VIAGGIATORE E CERCATORE


Il più famoso dei viaggiatori ebrei medievali fu uno spagnolo, Beniamino da Tudela, un dotto rabbino della città navarrese, all'epoca abitata per la metà da ebrei. Non sappiamo con sicurezza perché abbia intrapreso, nel 1165, il suo viaggio che attraverso Roma, la Grecia, la terra d'Israele, lo portò a Babilonia, in Persia e fin forse nella lontana Cina molto prima che vi arrivasse Marco Polo. Più che per commercio, è probabile che sia stato per amore della conoscenza o dell'avventura. Sappiamo che ci lasciò nel suo Itinerario una descrizione minuziosa e accurata dei paesi che attraversò, della grandezza delle città, delle comunità ebraiche che incontrava nel suo cammino. Di Roma ci disse che vi abitavano duecento famiglie di ebrei che vivevano in buoni rapporti con il papa. Ma nel lungo percorso che compiva Beniamino era anche attento a cogliere le tracce degli ebrei scomparsi, delle tribù perdute. E ne trovò ben quattro nelle montagne della Persia, discendenti della cattività degli assiri. Ce lo dice senza averle viste, sulla base dei racconti che se ne facevano: «Hanno città e grandi villaggi nelle montagne e il fiume Gozan ne segna da un lato i confini, e hanno un loro principe e non vivono sotto la legge dei gentili». Si consolidava così anche il mito di un regno indipendente degli ebrei.


Anna Foa


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06/07/2013 11:09



SENZA TEMPO (IO NO)



Faccio la storica, e la mia dimensione prediletta è il tempo. Annuso le tracce del tempo per mestiere. Amo il tempo e non riesco a non collocarvi ogni fatto, ogni immagine, ogni scrittura. Ed è forse per questo che resto sempre molto colpita da tutte le discipline e da tutte le culture che del tempo fanno a meno senza troppi problemi. E la tradizione ebraica sotto questo aspetto non ci va certo leggera. Il problema fu posto trent'anni fa da un libricino straordinario di uno storico americano, Yosef Haijm Yerushalmi, Zackor, che spiegava che gli ebrei, che hanno nella Bibbia un vero e proprio libro di storia, nell'esegesi talmudica e nel midrash aboliscono poi del tutto il tempo. Come dimostra ad esempio il midrash in cui si narra che Moshé andò un giorno a sedersi in un'accademia talmudica (siamo nel II secolo d.C.) e si sedette all'ultima fila. E non capiva nulla di quanto si diceva. Ma poi il Maestro disse: E questo ci viene da quanto il Signore comunicò a Moshé sul Sinai, ed egli ne fu riconsolato. È un gioco che schiaccia il tempo per individuare una realtà del tutto atemporale. Non posso fare a meno di provarne contemporaneamente fastidio e attrazione. Ma poi lascio ai rabbini il midrash, e torno al tempo e alla storia.


Anna Foa


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08/07/2013 14:24



IN SÉ, OLTRE SÉ



Qual è la traccia che l'atto di scrivere lascia su di noi? Se quella della lettura è la libertà, qual è quella della scrittura? Un tema su cui molto è stato scritto, ma che credo di avere afferrato davvero solo un giorno di non troppi anni fa, durante una conversazione con mio padre. Credo che fosse un quesito che si era posto spesso, lui che scriveva ancora nonostante la tarda età, anche se doveva ormai affidarsi alla mano degli altri. «Tu non sei sola — mi disse — perché scrivi. Quando si scrive, la solitudine non esiste». E non parlava solo della scrittura letteraria, non pensava a Tolstoj o a Dostoevskij o ai grandi narratori che pure tanto amava. Pensava al fatto di riempire il foglio di parole e idee e pensieri e fantasie. Noiose o affascinanti, belle o brutte che fossero. Quella sua riflessione mi convinse subito con l'evidenza delle verità che hai sempre provato ma che non sei mai riuscito a esprimere. Pensai che con quelle parole mi aveva fatto un grandissimo dono. Forse, scrivere è l'esatto contrario di leggere. Se leggendo esci fuori di te e tocchi altri mondi, scrivendo entri in te e riempi di altri il tuo mondo. Non sarai mai più solo, anche nel deserto. Altrimenti, perché scrivere?


Anna Foa


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09/07/2013 11:14



L'albero e le gambe


«L'essere umano non è un albero. .Un essere umano non è una quercia... Dio ha dato all'uomo gambe e piedi affinché vada sulla terra, che è sua». È una citazione di Joseph Roth, ripresa decenni dopo da George Steiner, a cui l'avevo sempre attribuita. Invece, lo aveva detto già Roth nel 1934, in polemica con il sionismo da una parte e dall'altra con il nazionalismo, che aveva appena dato il suo frutto più pericoloso con l'avvento di Hitler al potere. La ricerca delle radici di cui tanto si è favoleggiato a partire dagli anni Settanta sarebbe allora solo un aspetto regressivo dell'io? Chi aspira alle radici rinuncia alle gambe e paventa di errare? Non ci sono radici da riscoprire, allora, a meno che non servano per prendere una pausa, un respiro, per poi ricominciare a muoversi e a vagare? La metafora dell'albero e delle gambe fa parte di una visione cosmopolita e aperta che fu di Roth, nonostante la sua nostalgia del passato, come è oggi di Steiner. È così che l'ebreo errante, simbolo nella tradizione antigiudaica della colpa e dell'espiazione, diventa nella modernità la metafora della condizione dell'ebreo, sempre in movimento, sempre sul confine, a sua volta allegorica di una più generale condizione dell'essere nella modernità.


Anna Foa



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10/07/2013 07:56



L'USO E LA NORMA


Cos'ha più peso, l'uso o la norma? Quale dei due è più vincolante, la legge che sanziona o l'abitudine che grava di scomuniche sociali ancor più pesanti perché affidate alla mentalità e non alla parola scritta? Mi viene in mente pensando alle donne del Muro, a Gerusalemme, che si battono da anni per ottenere di pregare, loro donne, con il taled e i tefillin della preghiera che l'uso, il minhag, non la Legge, riserva agli uomini. E se i custodi più autorevoli del minhag sono i rabbini ultraortodossi, che emanano scomuniche e parlano di violazioni della legge, a gridare il loro oltraggio di fronte a questa "violazione" sono andate le donne ultraortodosse, con le loro parrucche e i loro vestiti modesti, a gridare contro le “femministe” che pretendono di leggere la Torah direttamente, senza la mediazione degli uomini, che non si coprono i capelli e mettono lo scialle da preghiera sui pantaloni. Che mettono insomma in crisi un equilibrio secolare. Alla pari delle madri delle famiglie musulmane che approvano la punizione che i maschi della casa riservano alle figlie ribelli e si fanno solidali con l'oppressione esercitata dalla tradizione. Cosa lascia più tracce, la norma scritta o l'uso, la mentalità o il Libro?


Anna Foa



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11/07/2013 11:55



COME UN ROMANZO



Ci sono vicende nella storia degli ebrei della diaspora che sembrano romanzi d'avventura. Quelle che toccano la scoperta di mondi nascosti o di popoli perduti ci ricordano l'Atlantide di Platone o forse i romanzi d'avventura di Rider Haggard. Nel 1644 un marrano portoghese, Antonio Montezinos, da ebreo Aaron Levi, sbarcò ad Amsterdam raccontando una di queste avventure e il rabbino Menasseh ben Israel, un sefardita di Amsterdam, ne mise il racconto per iscritto in un suo libro La Speranza d'Israele. O forse, chissà?, la reinventò per favorire il suo progetto di richiamare in Inghilterra gli ebrei che ne erano stati scacciati da secoli. Montezinos aveva raccontato di aver trovato in Ecuador, nella provincia di Quito, le tracce delle tribù perdute d'Israele, di averne incontrato i discendenti e di aver avuto da loro l'assicurazione che presto avrebbero dato vita a una grande rivolta contro gli spagnoli tale da portare alla liberazione di tutti gli ebrei e all'avvento del messia. Così, l'antica storia delle tribù si legava a un progetto di liberazione che preludeva sì all'era messianica, ma era opera degli uomini. E il povero marrano, discendente dei convertiti a forza, recuperava nel mito la sua libertà.


Anna Foa


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12/07/2013 11:42



BENE SENZA PIÙ NOME



Nella Germania dei primi decenni del Seicento, distrutta dalla peste, dalla guerra e dalla fame, un altro disastro si scatenò, la caccia alle streghe che ne devastò molta parte. A perseguire le donne come streghe erano in quei decenni i prìncipi cattolici, come decenni prima erano stati quelli protestanti. Ma ora ci furono delle voci che si alzarono alte contro questa follia distruttrice. Tre gesuiti parlarono e tentarono di fermare l'epidemia, di dimostrare che non era la salvezza della fede a muovere i persecutori, ma la loro crudeltà e follia: Tanner, Layman e Spee. Spee scrisse uno di quei libri, la Cautio criminalis, che restano per sempre vivi come pietre fondanti della civiltà. Si rivolse ai prìncipi, smontò i meccanismi perversi della tortura e della confessione, e diede alla fine della persecuzione un contributo non indifferente, sia pur incompreso ai suoi tempi. Tutti e tre i gesuiti morirono pochi anni dopo di peste. La Compagnia, che li protesse dalle persecuzioni, non li appoggiò però nella loro campagna. La loro voce rimase inascoltata. Che solitudine devono aver sentito intorno a loro, vedere ardere i roghi, scrivere, combattere, e nessuno che sembrasse accorgersene. Il cardinal Albizzi, che era anche lui ostile alla caccia alle streghe, li citò anni dopo in un suo libro, ma di Spee non rammentava il nome.


Anna Foa


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13/07/2013 14:55



Un pizzico di follia


Che rapporto si può avere con il proprio oggetto di studio? Ci sono biografi che si immedesimano totalmente nel loro personaggio, storie che ti trascinano come mulinelli nel mare in tempesta. E allora bisogna staccarsene. Un grande studioso della storia dell'arte, Aby Warburg, diceva che bisognava sempre di nuovo salvare Atene da Alessandria. Alessandria, la città dai mille riti, Atene la polis serena di Socrate ed Euclide. Puoi calarti nei miti, analizzarli, frequentare le magie e le follie dell'umanità, ma come un analista di fronte a uno psicotico devi attenerti severamente al distacco che ti dà la ragione. In questo, lo studioso è come Ulisse che vorrebbe precipitarsi fra le braccia della sirena che lo ammalia ma che prima si è fatto saldamente legare all'albero della nave, per non essere risucchiato nei flutti. Solo tenendoti stretto al sapere e alla razionalità riesci ad evitare di esser preso dal fascino irresistibile dell'irrazionale, riesci a raccontare di Cagliostro senza credere alle sue profezie. Entro certi limiti, naturalmente, perché un pizzico di follia resta attaccata all'analista che cura un paziente grave e un pizzico di paura a chi studia le angosce dell'uomo nella storia.


Anna Foa


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15/07/2013 11:09



PIÙ FORTI, PIÙ EMOZIONANTI



Ascolto una ballata composta in un campo di concentramento. È di un compositore austriaco morto ad Auschwitz, Viktor Ullmann. Perché nei campi si componeva e suonava. Non in quelli di sterminio, certo, dove si poteva solo morire, ma in quelli di concentramento e lavoro, in quelli di transito, nei ghetti della Polonia, nel campo di Terezin dove furono rinchiusi gli intellettuali ebrei di mezza Europa prima di essere avviati alla morte. È la musica concentrazionaria, composta in cattività, con il fiato della morte sul collo. Molti ricercatori sono andati indagando le tracce di quelle musiche, negli spartiti rimasti ormai cancellati dagli anni, nella memoria dei musicisti che l'hanno suonata. Tracce scritte, tracce orali, musicali. Testi poetici anche, ritrovati dove un marito li aveva sepolti per preservarli mentre la moglie poetessa che li aveva composti andava a morire. Dove era possibile, si suonava, si scriveva poesie, e se non si poteva almeno si recitava Dante, come fece Primo Levi per resistere alla disumanizzazione. Cosa sarebbe diventata la musica se quei compositori avessero potuto vivere e continuare a comporre? E la poesia? Sono le tracce di ciò che non è stato, ancora più forti e più emozionanti forse di quelle di ciò che è stato.


Anna Foa


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16/07/2013 11:54



MOSÈ E BRUTO



Michael Walzer analizzava anni fa la narrazione dell'Esodo dall'Egitto per comprendere come essa fosse diventata nella storia una metafora della liberazione e quali fossero i movimenti e le culture che l'hanno usata in questo senso, facendone un cardine interpretativo dell'azione politica. Nel mondo ebraico, in realtà, alla metafora narrativa dell'Esodo fu preferita quella del Purim. Nei due casi, siamo di fronte a uno scioglimento favorevole di una situazione di pericolo e di oppressione. Ma fu la vittoria su Haman di Mardocheo e di Ester, nel Purim, ad essere assunta dalle comunità ebraiche per indicare un momento di scampato pericolo, tanto che nei ghetti italiani si celebrarono purim locali per la fine di un'epidemia o per la liberazione da un'accusa dimostratasi falsa. Invece la metafora dell'Esodo divenne centrale nel mondo non ebraico, in particolare in quello protestante, e divenne il motore dei sommovimenti rivoluzionari, dalla rivoluzione inglese di Cromwell a quella americana al movimento per i diritti civili in America. Solo la Rivoluzione francese non se ne appropriò mai e preferì affidarsi ai simboli dell'antica Roma piuttosto che a quelli dell'Esodo biblico, a Bruto piuttosto che a Mosé.


Anna Foa


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17/07/2013 09:47



SENZA VERGOGNA (E NO)



Fra le tracce, come non pensare alle fotografie? Come si faceva prima che si imparasse a fotografare il mondo? Come si faceva quando solo la pittura immortalava l'immagine? Le foto più belle, quelle che sono rimaste nella storia, vanno oltre il realismo dell'immagine. Guardate le foto straordinarie prese a Roma alla fine dell'Ottocento dal conte Primoli e guardate gli acquerelli che Roesler Franz ha dipinto spesso non direttamente dalla realtà ma dalle foto che ne aveva prima scattate. Ma la foto è anche documentazione, prova: i nazisti prendevano le foto dei loro misfatti e le mandavano, in begli album rilegati, in dono ad Hitler per il suo compleanno. Jürgen Stroop, il comandante nazista che guidò la distruzione del ghetto di Varsavia, fece documentare dai fotografi dell'esercito ogni momento della battaglia: la famosa fotografia del bambino con le braccia alzate viene dal suo rapporto al Führer. Abbiamo foto delle fosse piene di cadaveri in Polonia e in Russia, e di donne e bambini nudi che aspettano di essere fucilati e buttati sugli altri corpi. Tutto ossessivamente documentato dai carnefici, come se non avessero vergogna a scattare quelle foto. Ma non abbiamo foto della razzia del 16 ottobre a Roma. Mille deportati, nemmeno una fotografia.


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18/07/2013 11:49



NOIA E ONORI



La regina Cristina di Svezia si annoiava molto nel suo paese sepolto nella neve, in mezzo a rigidi protestanti e alle pressioni dei cortigiani che la volevano a tutti i costi maritare per perpetuare la regale stirpe che aveva dato, nel padre di Cristina, Gustavo II Adolfo, un eroe alla Svezia e allo schieramento protestante nella guerra dei Trent'anni. Per un po', si dilettò a prender lezioni di matematica dal grande Cartesio, che fu però ben presto ucciso dai rigori dell'inverno svedese. Fu così che Cristina decise di convertirsi al cattolicesimo e di trasferirsi a Roma. Ma siccome aveva un alto senso della sua regalità, decise che di Roma sarebbe stata la regina. Si fece precedere da casse innumerevoli contenenti i preziosi dipinti e arredi razziati come bottino di guerra all'imperatore d'Asburgo, e fuggì a Roma dove fu accolta con tutti gli onori. Onori che non fece grandi sforzi per ricambiare, dal momento che condusse vita apertamente sregolata, predilesse eretici e alchimisti, insomma ne fece proprio di tutti i colori. Riunì intorno a sé letterati ed artisti e lasciò gran traccia di sé a Roma: il suo palazzo alla Lungara, i suoi quadri e la sua fama. Fu sepolta nei sotterranei del Vaticano, si disse per poter tener d'occhio almeno le sue ossa irrequiete.


Anna Foa


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19/07/2013 11:40



L'ATTESO STRAVAGANTE


Sabbatai Zevi, ebreo di Smirne, cominciò a metà del Seicento a proclamare l'avvento dell'era messianica. Ben presto il suo seguace Nathan di Gaza proclamò che Sabbatai era l'atteso Messia. Mentre Sabbatai e Nathan si imbarcavano per Costantinopoli per andare a chiedere al Sultano la restituzione della terra d'Israele, e il mondo cristiano seguiva con affannosa curiosità la vicenda, le comunità ebraiche, da Salonicco a Livorno ad Amsterdam, accoglievano con entusiasmo l'avvento del Messia e si preparavano al ritorno. Ma il sultano obbligò Sabbatai e i suoi seguaci a scegliere tra la morte o la conversione all'islam, ed essi si convertirono. Un Messia musulmano, dunque. Grande fu la delusione nel mondo ebraico, nonostante Sabbatai continuasse a professarsi, oltre che musulmano, ebreo e a sostenere che la sua conversione era solo il passo finale per la realizzazione dell'era messianica. Da allora, il messianismo fu guardato con sospetto e timore dal mondo ebraico, e anche il misticismo chassidico, culturalmente tanto vicino alle tendenze messianiche, lo abbandonò. Una storia che il grande studioso del pensiero mistico e cabbalista, Gershom Scholem, ha raccontato con maestria insuperata in un grande libro dedicato a Sabbatai e alla sua stravagante vicenda.


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20/07/2013 11:11



VOLTI E NOMI



Quali sono le tracce che uomini e donne lasciano di sé dopo la loro scomparsa? In primo luogo, naturalmente, i loro libri, le opere da loro realizzate. Ma di quanti non lasciano libri, né cattedrali né sinfonie, che tracce possiamo rinvenire per ricostruirne la storia? Il nome e il volto, naturalmente, ambedue elementi che li hanno caratterizzati come individui. Ben lo sapevano i totalitarismi che si sono affannati a cercare di cancellare anche queste tracce delle loro vittime. E per questo nelle sinagoghe, nel giorno dedicato al ricordo della Shoah, si leggono per ore e ore i nomi delle vittime. In Russia, dove tanti milioni di esseri umani sono scomparsi senza lasciar traccia, ha cominciato un'associazione di oppositori, Memorial, a mettere insieme nomi e volti e a renderli pubblici, perché potessero esser riconosciuti. Di alcuni di loro possiamo ritrovare i volti nelle immagini segnaletiche pubblicate in Italia da Lucetta Scaraffia e Marta Dell'Asta in un libro recente. Sono le foto di centocinquanta persone fucilate da Stalin fra il 1937 e il 1938 a Bulovo, alla periferia di Mosca, dove decine di migliaia di oppositori furono assassinati. Ogni nome che riemerge, ogni volto che trova riconoscimento, è una sconfitta degli assassini.


Anna Foa


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22/07/2013 10:08



IL MONELLO DI DIO


«Mi calai da una nube di primavera / Che il mondo ancor piccolo era / E Dio ancora un giovane padre. … Mille vite felici sulla terra darei / per rinascere in Dio qualsiasi cosa farei / e per rivedere gli angeli in tanto luccichio / eh sì, quando ero ancora il monello di Dio»…
Sono versi di Else Lasker-Schüler. Quanti ne conoscono il nome? Era una poetessa ebrea tedesca, la maggiore dell'espressionismo tedesco. Ebbe una vita anticonformista e irregolare: povera, senza casa né mezzi, scriveva le sue poesie nei caffè dell'avanguardia, adorata dalla critica e dal mondo della bohème letteraria. Fu fra i fondatori nel 1910 dello “Sturm”, la più famosa rivista espressionista. Poco prima dell'avvento al potere di Hitler ottenne il premio Kleist, che la consacrava come grande poetessa, ma subito dopo dovette andare in esilio e i suoi versi finirono arsi nei roghi nazisti dei libri. Si stabilì prima a Lugano, poi a Gerusalemme. È stato detto che la sua poesia è simile alla pittura di Chagall, simbolica e astorica, con forti radici tanto nel monoteismo ebraico quanto nell'esperienza dell'esilio e della persecuzione nazista. In Palestina lesse in pubblico le sue poesie fitte di immagini bibliche e di colori, apprezzata ed ammirata. Morì a Gerusalemme nel 1945.


Anna Foa


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23/07/2013 17:02



LE MUTEVOLI DOMANDE



Il percorso della memoria dei libri e degli scrittori ci ricorda quello delle onde sulla sabbia, che ora cancellano ora lasciano riaffiorare le tracce, come nella canzone di Prévert il mare cancella i passi degli amanti disuniti. Quanti nomi scomparsi sono riaffiorati, di quanti, che consideriamo grandi, scopriamo percorsi frastagliati e zone lunghe di oblio. Senza neppur bisogno di censure o inquisizioni, secondo la tendenza dei tempi. Alcuni, scomparsi dopo la morte, riappaiono d'un colpo decenni dopo, osannati, ripubblicati, sottoposti all'elogio della critica. Di altri, si perde memoria, i libri restano ingialliti negli scaffali dei negozi di seconda mano, il loro nome si confonde con altri nomi di perduti, di dimenticati. È il tempo il grande giudice della grandezza di una scrittura, della profondità di un pensiero? O sono le nostre domande, mutando, che determinano l'altalena delle risposte e che ci portano nelle mani, alternativamente, ora uno ora l'altro degli scritti del passato? Solo pochi grandi sfuggono a questo spontaneo oscillare della fama e all'incostanza dei lettori. A questi pochi, ai grandi classici, ci attacchiamo invecchiando, quasi ci facessero partecipi di un poco della loro eternità.


Anna Foa


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24/07/2013 10:56



PIETRE D'INCIAMPO



Quale traccia è più forte, più persistente a chi la scorge delle pietre d'inciampo, quei sampietrini d'ottone chiamati pietre d'inciampo che a Roma e in molte città tedesche segnalano al passante che da quella soglia è passato, settant'anni fa, un ebreo deportato? Nessuna memoria, nessuno scritto è più duro di quella traccia che sembra ammonirci e accusarci di indifferenza, di oblio, forse anche di complicità. Su quelle pietre, solo il nome, le date di nascita e di morte, quelle della deportazione. Ma quanta realtà dietro quelle pietre. Questo era un bambino, aveva appena sei anni, cerchiamo di immaginarcelo, già sappiamo che non può esser sopravvissuto all'arrivo ad Auschwitz. E questa era una donna carica di anni, forse camminava male e nell'oltrepassare la soglia è inciampata, chissà. La pietre sono come un pugno nello stomaco, ti impongono la memoria. Anche se non pensi a guardarle il luccicare dell'ottone attira la vista e apre all'immagine di quel che è stato. L'architetto tedesco che le ha create ha avuto un vero e proprio lampo di genio nell'ancorare il nome dei morti a luoghi dell'oggi, percorsi da persone con il loro bagaglio di quotidianità, la borsa della spesa, il cane al guinzaglio, il bambino in passeggino. La vita illumina la morte più di ogni parola.


Anna Foa


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25/07/2013 14:28




SOPRAVVISSUTI


Sono pochi i libri che meritano di essere tenuti sugli scaffali e accarezzati amorosamente fino alla morte. Ma anche se pochi, questi libri finiscono inevitabilmente per sopravvivere al loro lettore. In passato, quando i libri erano più preziosi di oggi, ne trovavi l'elenco nei testamenti e potevi reperire le tracce di chi li aveva posseduti, capire cosa sapeva, cosa aveva studiato, che cosa lo interessava. Oggi è più difficile. Se nessuno si prende cura dei libri divenuti orfani, se nessuno li accoglie nei suoi scaffali, finiscono su una bancarella, nei casi più fortunati con altri libri della stessa provenienza. Li riconosci, questi libri sopravvissuti ai loro lettori, sulle bancarelle, ammucchiati tutti insieme, legati da un filo ideale ormai spezzato. Sono letti e riletti. A volte, conservano tracce di appunti al margine, correzioni a matita o addirittura a penna. Il loro lettore non c'è più ma i libri hanno ancora un'anima. E ti consentono di immaginare quella di chi li ha posseduti, di decifrarne gli appunti, forse un nome sul frontespizio o una dedica anch'essa lontana, scritta con mano antica. E ancora oggi queste parole che vengono da lontano ti toccano come tracce di un passato scomparso senza possibilità di ritorno.


Anna Foa


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