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IL MATTUTINO - Pensieri quotidiani di Mons. Ravasi

Ultimo Aggiornamento: 31/12/2011 08:51
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22/11/2011 12:29


IL CIELO DI CECILIA


Cecilia parlava spesso col cielo / e il cielo non le rispondeva, non poteva / e nel cielo Cecilia / continuò a rispecchiarsi / fino al giorno in cui la sua immagine / coincise con il celeste specchio. Dolce e intenso è questo ritratto di una Cecilia che potrebbe trasfigurarsi anche nella santa che oggi la liturgia celebra. A disegnarlo è un poeta, Antonio Porta (1935-1989), un cantore fine dell'umanità semplice e quotidiana. I versi mi rimandano spontaneamente a una considerazione di una donna di straordinaria intelligenza e spiritualità, la scrittrice ebrea Simone Weil. Per quanto cerchiamo di saltare o di volare in alto — diceva — noi non riusciremo mai a raggiungere il cielo. Se, invece, ci mettiamo a contemplarlo e a fissarvi il nostro sguardo, il cielo scenderà, ci avvolgerà e ci abbraccerà. Perché, continuava, citando il grande tragico greco Eschilo, «il divino è senza sforzo»: l'incontro con Dio è, infatti, dono, è grazia. Purtroppo noi ci siamo curvati sulla terra, ci dedichiamo esclusivamente alle cose, non possiamo perdere tempo fermandoci — nel silenzio di una notte — a guardare quegli spazi infiniti che turbavano Pascal e Leopardi e che evocano il mistero di Dio e dell'uomo, come cantava il Salmista: «Quando il cielo contemplo e la luna e le stelle che accendi nell'alto, io mi chiedo davanti al creato: cos'è l'uomo perché lo ricordi?» (8, 4-5). Chini sulle realtà materiali, senza mai uno sprazzo di luce, di contemplazione, di infinito, diventiamo simili a oggetti, governati dalla sola legge di gravità che ci appiattisce alla terra. Eppure noi viventi siamo fatti della stessa materia delle stelle e alle stelle va implicitamente il nostro “desiderare” (de sideribus). Un altro poeta, l'inglese William Blake (1757-1827) ci invitava a «vedere il mondo in un granello di sabbia, / il firmamento in un fiore di campo, / l'infinito nel cavo della mano, / l'eternità in un'ora».


card. Gianfranco Ravasi

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23/11/2011 10:21


FRANCESI, INGLESI, ITALIANI


La differenza culturale tra i francesi e gli spagnoli è che noi spagnoli sappiamo tutto della Francia, e i francesi non sanno nulla della Spagna. Quando due inglesi si incontrano, il loro primo argomento di conversazione è il tempo. Gli italiani, questo popolo di santi, di poeti, di navigatori, di nipoti, di cognati… Certo, esiste un'Europa unita, ma il suo limite e la sua bellezza sono quelli di essere come un mosaico multicolore che ciascuna nazione imposta nel suo spazio a suo modo con genialità e originalità. Abbiamo, così, voluto convocare oggi alcuni di questi popoli con la loro ironia che attinge a verità più intime e radicate. Il regista spagnolo Luis Buñuel nella prima citazione sbertuccia bonariamente la grandeur francese un po' sussiegosa e spocchiosa. È poi la volta dello scrittore settecentesco Samuel Johnson che irride la vacuità e la piattezza della conversazione durante il tè o nei club. Infine il nostro Ennio Flaiano, sempre sferzante, bolla l'eterno vizio italiano della raccomandazione secondo la tradizionale bandiera del "tengo famiglia". In realtà, vizi e virtù - sarà frutto anche questo della globalizzazione - stanno sempre più uniformandosi, stingendo quei colori che rendevano così policromo e vario il mosaico europeo. Permangono, certo, le lingue, sulle quali però si sta stendendo una patina grigia di inglese approssimativo; sussistono le tradizioni locali che cercano di conservare le loro identità un po' ammaccate. Ora, però, altri popoli lontani bussano alle nostre frontiere e alle porte delle nostre case. È, allora, importante conservare due grandi valori: il proprio volto culturale e spirituale, ossia le nostre radici identitarie, ma anche lo spirito di apertura, fatto di accoglienza e dialogo, che è l'imprinting della grande tradizione cristiana europea.


card. Gianfranco Ravasi

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24/11/2011 09:01



Di passaggio



Era un famoso rabbino polacco dell'Ottocento di nome Hofez Chaim. Un uomo venne da lontano a consultarlo e rimase stupito perché la casa del rabbino conteneva solo libri, un tavolo e una seggiola. «Dove sono i tuoi mobili?», gli chiese. E il rabbino gli replicò: «E i tuoi dove sono?». «Ma io sono qui solo di passaggio». «Anch'io», concluse il rabbino. Dopo aver ascoltato questo racconto che ha per protagonista un rabbino dei Chassidim, i "pii" ebrei mitteleuropei, è facile far risuonare le parole dell'autore di quella solenne omelia che è la Lettera agli Ebrei: «Noi non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura» (13,14). E ad esse si può accostare un brano di un'altra "lettera" cristiana, quella che un ignoto autore del II secolo indirizzava a un certo Diogneto: «I cristiani abitano ciascuno la loro patria ma come forestieri; partecipano a tutte le attività di buoni cittadini e accettano tutti gli oneri, ma come ospiti di passaggio. Ogni terra straniera è patria per loro, mentre ogni patria è terra straniera». Ecco, dunque, un appello serio e pacato contro ogni nazionalismo esasperato, contro l'attaccamento al possesso di idee e di cose, contro ogni tentazione di autodifesa esclusivistica. Il respiro del cristianesimo è di sua natura universale, essendo legato all'amore per ogni creatura e non solo per la propria tribù o nazione. Il suo anelito va oltre la prigione del tempo e dello spazio perché è aperto all'eternità e all'infinito a cui è chiamato. Il presente è, quindi, reale perché in esso viviamo, ma è transitorio. Le realtà materiali non devono essere ceppi che ci legano quaggiù, impedendoci il volo verso l'alto. Sì, perché anche se ovvia, ci dimentichiamo spesso di una semplice verità: «Se vedi un uomo arricchirsi, non temere: quando muore, non porta nulla con sé!» (Salmo 49,18).


card. Gianfranco Ravasi

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25/11/2011 08:56


NEMICI E AMICI


Ci riconciliamo con un nemico che ci è inferiore per qualità o di cuore o di spirito. Ma non perdoniamo mai a chi ci supera nell'anima e nel genio. È sferzante ma inoppugnabile questa considerazione dello scrittore francese François René de Chateaubriand (1786-1848), chiamato l'enchanteur per la sua capacità di incanto attraverso una parola fremente e lirica che ne dilatava gli echi e ne ingigantiva il messaggio. In questa osservazione — ad essere sinceri — siamo un po' tutti coinvolti. La nostra superiorità nei confronti di un poveraccio si trasforma in generosità, che alla fine è un'ulteriore carezza al nostro Io. Ben diverso è il nostro atteggiamento quando ci scontriamo con chi è evidentemente più intelligente e umanamente più alto di noi. Scatta in quel momento il gusto della rivalsa che è alimentato dal vizio capitale dell'invidia e che si àncora a quell'altro fondamentale vizio che è la superbia. Se vogliamo andare oltre i confini della rilevazione di Chateaubriand, proviamo a immaginare due situazioni. La prima è quella di un amico che è caduto in basso e si trascina ormai nella miseria e nella sofferenza. Come è spontaneo mettergli il braccio sulle spalle per sorreggerlo e confortarlo! Ma pensiamo a un'altra scena. Un amico è salito alla ribalta, il successo lo sta baciando, i suoi meriti sono evidenti e riconosciuti. E noi siamo là, in platea, costretti ad applaudirlo a denti stretti e col volto verde di gelosia. Per questo la cartina di tornasole di una vera amicizia è forse unica: gioire sinceramente per la gloria dell'amico.


card. Gianfranco Ravasi

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26/11/2011 10:09



BUDDHA E IL BANDITO


Buddha s'era imbattuto in un criminale che voleva ucciderlo. Gli chiese solo di esaudire un suo ultimo desiderio: «Taglia un ramo da quest'albero!». Quello lo accontentò e disse: «E ora?». «Riattaccalo!», ordinò Buddha. Il bandito sghignazzò: «Sei pazzo a volere questo!». «No, lo sei tu: uccidere e far del male è una cosa da bambini e non un segno di potenza. Lo è, invece, creare e risanare!». La potenza degli eserciti si misura sulla loro capacità di fuoco e di annientamento. La forza di una persona si esprime nei bicipiti che sanno spaccare ciò che capita sotto tiro. È la logica di morte che sottilmente pervade la nostra società: assassini, stupri, violenze come soluzioni imboccate sotto il turgore della passione, atti istantanei ed "efficaci" che sono, però, irrimediabili e irreversibili. Un sapore di morte che si insinua anche quando si affrontano questioni delicate e complesse riguardanti la vita: pensiamo all'aborto o all'eutanasia adottate come soluzioni più facili. La lezione del Buddha, nell'apologo indiano da noi evocato, mostra la penosa immaturità di chi opta per la logica dell'eliminazione e non della soluzione, della prevaricazione e non del rispetto, della distruzione e non della creazione. Tutti hanno la forza bruta di premere un grilletto e di cancellare una vita; nessuno sa ricrearla perché è un'opera unica e superiore. Dobbiamo, allora, ricostruire nelle menti e nei cuori l'amore per ogni creatura vivente come unica e insostituibile. Il contrasto tra l'estrema fragilità e la suprema grandezza della vita lo esprimeva in modo lapidario lo scrittore e politico francese André Malraux nel suo romanzo I conquistatori (1928): «Ho imparato che una vita non vale nulla e che nulla vale una vita».


card. Gianfranco Ravasi

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27/11/2011 14:29



IL VISO DI DIO



Il Dio di Platone era inaccessibile nella sua grandezza. Quello di Epitteto si confondeva con l'anima delle cose. Il Cristianesimo, al contrario, ha condotto Dio alla portata dell'uomo. Gli ha dato un volto. Ne ha fatto nostro padre, nostro fratello, nostro salvatore. Si convertì dopo una visita a Lourdes: Alexis Carrel, Nobel per la medicina nel 1912, ci ha lasciato la testimonianza della sua fede nell'opera, divenuta molto popolare, L'uomo questo sconosciuto. Noi, invece, abbiamo attinto a un altro suo testo, La preghiera, ove è messa in azione una suggestiva comparazione. Grande è la spiritualità di Platone, ma il suo è un Dio perfetto e distaccato nella sua trascendenza. Il suo discepolo Aristotele suggellerà questa perfezione gelida nella sua definizione di Dio come «motore immobile». Venne, poi, lo stoicismo che ebbe nello schiavo filosofo Epitteto un alto maestro di spiritualità. Eppure quel Dio, che si era molto avvicinato alle creature, si era disperso nello stesso creato, con un'immanenza così totale da dissolversi nella realtà, nel mondo, nell'umanità. Ecco, allora, il Dio cristiano che rimane Dio, Verbo eterno e infinito, eppure ha un volto col quale dialogare, nel quale fissare lo sguardo, dal quale attendere un sorriso o una parola. È il viso di Gesù Cristo che conserva intatto lo splendore del mistero, ma che ha anche tutto il calore di una faccia umana, simile alla nostra. È questo il segreto ultimo del Natale ove il volto di Dio è quello dolce del bambino, ma è anche il senso profondo della Passione quando quel profilo si lacera, sanguina, spasima e urla. In questa luce si capisce perché i salmisti ripetano un anelito costante: «Quando verrò e vedrò il volto di Dio?» (Salmo 42,3).


card. Gianfranco Ravasi

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29/11/2011 12:25



LA DILAZIONE


Rimandando quello che si deve fare, si corre il pericolo di non farlo mai più. Non convertendosi subito, si rischia di essere dannati. L'indugiare non è solo frutto di pigrizia. In alcune persone è una vera e propria attitudine costante: si cerca di dilazionare, di rimandare a un altro momento e, così, i nodi s'attorcigliano ancor di più, le pratiche da evadere s'accumulano, le abitudini si sclerotizzano, i difetti s'incancreniscono. Aveva, perciò, ragione il grande poeta francese Charles Baudelaire quando proponeva l'osservazione che oggi abbiamo citato. Era un po' il suo autoritratto, perché egli si era lasciato trascinare nel vortice di una vita sregolata, contrassegnata da vizi, dall'uso di alcol e droghe, dalla dissipazione economica, sia pure sempre con l'anelito di riscatto e di conversione che, però, mai veniva reso effettivo nella vita. A livello morale è, quindi, deleterio il rinvio, nella consapevolezza che il male interiore si consolida e occupa progressivamente corpo e anima, mentre – come scriveva il grande Seneca all'amico Lucilio – dum differtur, vita transcurrit, «intanto che si rimanda, la vita continua a scorrere», e alla fine si hanno le mani vuote. Certo, è vero che talvolta procrastinare una scelta può essere frutto di saggezza e riflessione e può persino attenuare, sbiadire o spegnere questioni troppo bollenti. Ma nella maggior parte dei casi non bisogna dimenticare quell'altro motto latino divenuto proverbiale (lo si attribuisce ad Arnobio, scrittore cristiano del III–IV secolo): Quod differtur, non aufertur, ciò che viene differito, non è né eliminato né perso. L'impegno da prendere starà sempre lì ad attenderci nei crocevia dell'esistenza.


card. Gianfranco Ravasi

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30/11/2011 11:55


Le foglie della morte



Non ho niente contro di te, morte, non riesco neppure a odiarti. Come vivresti e cosa faresti se tu avessi una madre o un figlio ed essi morissero? Non ho paura di te, anzi, ti compiango profondamente perché non avesti mai una madre né un figlio. Già una volta abbiamo portato in questo nostro spazio quotidiano un poeta romeno della Repubblica Moldova, Grigore Vieru (1935-2009). Lo riascoltiamo a chiusura di un mese che la tradizione assegna alla memoria dei defunti e la sua è una sfida alla morte, simbolo supremo di infelicità. Essa, infatti, non conosce la bellezza e le meraviglie dell'amore: non ha madre né figli e, quindi, senza imbarazzo, elimina madri e figli, ma ignora cosa significhi poter amare una madre o un figlio. In un'altra poesia, però, Vieru mostra un aspetto positivo dell'esperienza umana del morire. Ecco le sue parole: «Non esiste la morte! Solamente cadono le foglie per vederci meglio quando siamo ancora lontani» da quella meta estrema che ci attende. È un po' quello che, con immagini desunte dal mondo greco, faceva balenare san Paolo: «Quando sarà distrutta la nostra dimora terrena, simile a una tenda, riceveremo da Dio un'abitazione, una dimora non costruita da mani d'uomo, eterna, nei cieli» (2 Corinzi 5,1). Morire è uno spogliarsi di veli, di pesi, di fogliami che celano l'altra faccia della vita che sta al di là di quella che noi vediamo con questi segni transitori e caduchi. C'è, dunque, un'epifania che ci attende quando saremo su quella soglia estrema. Cantava un'altra poetessa, Margherita Guidacci: «Quanto di te sopravvive / è in altro luogo, misterioso, / ed ormai reca un nome nuovo / che solo Dio conosce» e che solo in quell'istante ci sarà svelato.


card. Gianfranco Ravasi

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01/12/2011 09:54



Una fiamma nel cuore


Gloria a Dio che effonde calore nel cuore dei figli di Adamo. Penetra negli atrii del cuore e li infiamma. Ed ecco colui che non è tuo fratello né parente né è stato con te e non era della tua regione, appena vi siete incontrati e innamorati, prende discendenza in te, generando bimbi che sono graziosi e cinguettano sillabe. S'intitola Matrimonio ed è uno dei canti dei Tuareg, il popolo nomade del deserto algerino, che il beato Charles de Foucauld aveva tradotto tre giorni prima del suo martirio: infatti, il 1° dicembre del 1916 veniva assassinato nel suo romitorio di Tamanrasset («Vivi come se tu dovessi morire martire oggi», aveva annotato nel suo diario). Il testo sopra citato evoca il miracolo dell'innamoramento: due persone che un'ora prima neppure si conoscevano, che erano di origini diverse, di opinioni differenti s'incontrano e tra loro scocca la scintilla misteriosa dell'amore e da loro nascerà una nuova creatura, quel bambino che reca in sé l'unità dei suoi genitori. Anche la Bibbia confessa che tra «le cose troppo ardue» da decifrare c'è «la via dell'uomo verso una giovane donna» (Proverbi 30,19). Questa realtà diventa anche il simbolo limpido dell'amore mistico, testimoniato da fratel Charles quando nelle sue pagine cantava «il nostro Sposo», Dio. Egli lo attendeva sotto il cielo stellato, lo riconosceva nel respiro del vento del deserto, lo abbracciava nella preghiera del suo eremo sotto un sole incandescente, lo cercava di duna in duna, incontrando le carovane, lo ascoltava nell'eco dei canti tuareg. Se esiste il miracolo dell'amore umano, così mirabile e invincibile, è segno che esiste Dio perché da soli non sapremmo mai creare un prodigio simile. Un prodigio che, però, possiamo ferire o annientare con l'egoismo e il male che è «sempre accovacciato alla porta» del nostro cuore (Genesi 4,7).


card. Gianfranco Ravasi

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02/12/2011 11:49



LA GIRAFFA E IL CONTADINO



C'era una volta, tanti anni fa, un contadino ignorante che per la prima volta in vita sua andò a visitare un giardino zoologico. A un certo punto arrivò al recinto dove si trovava la giraffa. Visibilmente stizzito, rimirò a lungo l'animale. Infine gli volse le spalle e s'allontanò, borbottando arrabbiato: un animale così non esiste! È uno dei più noti e apprezzati scrittori israeliani, Amos Oz, a inserire nel suo libro In terra d'Israele questo buffo apologo tradizionale che ben esprime, sotto il velo della fiaba metaforica, un atteggiamento che non è certo appannaggio solo di qualche «contadino ignorante». Un po' tutti, infatti, talvolta nella vita ci siamo fasciati la testa, come si suol dire, abbiamo chiuso gli occhi e tappato le orecchie per non ammettere una verità che non coincideva con le nostre ipotesi o supposizioni. Anzi, non di rado siamo stati pronti a rasentare il ridicolo pur di non sconfessare una nostra idea. E non è detto che alla fine l'evidenza trionfa, perché in molti casi una convinzione personale è talmente forte da accecare. Ecco, allora, il tentativo patetico di contraffare o di respingere la realtà pur di salvaguardare la propria granitica certezza. Un maestro di retorica oratoria com'era il greco Demostene, che ben conosceva i meccanismi della persuasione, in una delle sue “orazioni” – la cosiddetta Terza Olintica per la precisione – osservava che «nulla è più facile dell'illudersi, perché quello che ogni uomo desidera, crede anche che sia vero». Rassegnarsi a riconoscere l'errore del proprio convincimento è un'impresa quasi eroica quando l'orgoglio e l'incrollabile sicurezza si sono radicati nella mente e nel cuore. «Una convinzione – ammoniva il critico russo dell'Ottocento Vissarion Belinskij – ci dev'essere cara perché è vera, non perché è nostra».


card. Gianfranco Ravasi

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03/12/2011 09:08




NON SUONARE LA TROMBA



Se un essere umano deve ringraziare un altro per qualcosa di molto prezioso, questa gratitudine deve rimanere un segreto tra i due. Si deve donare a piene mani senza creare obblighi: il modo di donare vale molto di più del dono. «Quando fai l'elemosina, non suonare la tromba davanti a te come fanno gli ipocriti… per essere lodati dalla gente. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa». Tutti conoscono queste parole di Gesù che proseguono con l'invito a far sì che il gesto di generosità «resti nel segreto», visto solo da Dio (Matteo 6, 2-4). È il commento ideale alle due citazioni sopra proposte. Entrambe sono da ricondurre a due celebri poeti. Il primo è l'austriaco Rainer Maria Rilke (1875-1926), che fa sbocciare il fiore del dono non come un girasole che si leva solenne e cerca di competere col sole, girandosi in tutte le direzioni, ma come una modesta violetta, nascosta nell'erba eppur capace di irradiare il suo profumo. La parola fondamentale rimane, sia per Gesù sia per Rilke, «il segreto». Una discrezione che spegne sul nascere l'enfasi, l'ostentazione, l'ammirazione altrui. Una riservatezza che non umilia chi è beneficato. Una finezza che rende il dono, anche se semplice, prezioso e non costringe a ringraziamenti reiterati e a gratitudini eternamente professate. E qui possiamo far risplendere il secondo testo che risale a un grande della letteratura francese del Seicento, Pierre Corneille, che non solo ribadisce la vera natura del regalo, quella di non «creare obblighi», ma ritorna anche con intensità sullo stile del donare. Il bambino che con spontaneità offre a sua mamma il fiore che ha colto o una porzione del suo dolce, le presenta per certi versi un dono tutto identico all'anello di brillanti che suo padre le ha dato il giorno del fidanzamento. Meno tromba, quindi, e più semplicità, dolcezza e «segreto» nel donare.


card. Gianfranco Ravasi

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03/12/2011 14:26

Tutto vero.
La vera carità non cerca una gratificazione personale che ci faccia apparire
più buoni agli occhi degli altri.
Come diceva S. Brigida, la carità non ha nome, ovvero si manifesta
nel segreto del proprio cuore, nei pensieri e nei fatti, non perchè grazie
ad essa possiamo conquistarci la gioia dell'oltre, ma perchè essa è
divenuta una nostra normale inclinazione che non si aspetta alcun
tornaconto.
Questa è la vera crescita.
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04/12/2011 18:55



UNA ROSA E UNA FRAGOLA


C'è un'ape che se posa / su un bottone de rosa: / lo succhia e se ne va…/ Tutto sommato, la felicità / è una piccola cosa. Trilussa, il ben noto poeta romanesco morto nel 1950, aveva intitolato una sua raccolta di versi Acqua e vino, evocando le realtà più semplici, quotidiane eppure fondamentali della vita. «Interroga la vecchia terra: ti risponderà sempre col pane e col vino», diceva invece un suo collega più paludato e solenne, il francese Paul Claudel, ribadendo però la stessa verità. Ecco, da quelle pagine ho tratto cinque versi soltanto, piccola cosa come lo è l'immagine usata del bocciolo di rosa sul quale l'ape si posa e come lo è una felicità genuina, che ti viene incontro nella realtà di ogni giorno e non nella magniloquenza dell'epifania del successo. Eppure, è proprio di queste piccole gioie, simili all'acqua, al vino o al pane, che noi siamo - spesso inconsciamente - in ricerca. A questo punto lascerei perdere altre mie considerazioni per dare voce a una bella e famosa parabola buddhista. «Un uomo s'imbatté in una tigre. Si mise a correre sempre tallonato dalla belva. Giunto davanti a un precipizio, si lasciò penzolare aggrappandosi a una vite selvatica posta sull'orlo. La tigre lo fiutava dall'alto. Tremando, l'uomo vide che due topi avevano cominciato a rosicchiare piano piano la vite. In quel momento, però, egli scorse davanti a sé una stupenda fragola. Afferrandosi alla vite con una mano sola, con l'altra spiccò la fragola: com'era dolce!». Anche nel pericolo più atroce e nel dolore più disperato, c'è sempre un frammento di gioia pura; anche nell'incubo più nero, si può accendere una scintilla di luce. È importante afferrarla: la paura e la sofferenza muteranno, senza per questo scomparire.


card. Gianfranco Ravasi

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06/12/2011 12:09



IN UNA NOTTE STELLATA



Mio Signore! In cielo brillano le stelle, gli occhi degli innamorati si chiudono. Ogni donna innamorata è sola col suo amato. E io sono sola qui con te! Ricordo ancora con emozione una notte stellata a Bassora, molti anni fa. In questa città dell'Iraq meridionale, sul delta del Tigri e dell'Eufrate, tristemente nota per le ultime due guerre che l'hanno devastata, attorno al 713-14, era nata Rabi'a, una musulmana venduta poi come schiava. Riscattata, visse in verginità nel deserto, divenendo un segno di luce a cui molti si rivolgevano chiedendo consigli, preghiere, conforto. I suoi “detti” furono raccolti dai discepoli dopo la morte avvenuta a Bassora nell'801. In una notte simile forse a quella che io vissi allora o a quelle gelide e ventose del nostro inverno, quando le stelle scintillano in cielo, questa donna si rivolgeva a Dio col linguaggio degli innamorati, tipico di ogni autentica esperienza mistica. È una preghiera pura, in cui — per usare una frase di sant'Agostino — si chiede a Dio solo Dio (Nolite quaerere a Deo nisi Deum). È un invito anche per noi cristiani a riscoprire la contemplazione, il silenzio, l'invocazione di lode, come Rabi'a che continuava a confessare in quell'oscurità notturna trapuntata di stelle: «O Amato del mio cuore, non ho che te! O mia speranza, mio riposo, mia gioia, il mio cuore non vuole amare altri che te!». È, questa, una via per conoscere un islam più genuino e spirituale rispetto a certe sue manifestazioni esasperate e ai nostri giudizi sommari. Un giorno a Rabi'a si presentò un uomo che le chiese: «Se mi pento, Dio perdonerà il mio delitto?». «No, rispose la donna, se Dio ti perdonerà, tu ti pentirai». È il primato della grazia divina. E concludeva: «Quando nel giorno della risurrezione saremo chiamati, la prima a guidare la fila delle creature sarà Maria, la madre di Gesù!».


card. Gianfranco Ravasi

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07/12/2011 10:57



I classici e i cristiani


Un grande classico è uno scrittore che si può lodare senza averlo letto. Un classico è qualcosa che tutti vorrebbero aver letto e nessun vuol leggere. Due lingue mordaci, la prima del cattolico inglese Chesterton, l'altra dell'americano protestante Mark Twain, s'incrociano nell'ironizzare sul grande rispetto di cui godono i classici, rispetto che molti testimoniano standone il più lontano possibile. La stessa affermazione potrebbe essere ripetuta pari pari anche per la Bibbia e, a maggior ragione, per quei classici cristiani che sono i Padri della Chiesa. Oggi ne celebriamo uno di prima grandezza, sant'Ambrogio di Milano, le cui pagine sono spesso raccomandate, ma altrettanto ignorate dagli stessi devoti e protetti della sua metropoli lombarda. Di lui vorrei solo ricordare un dato che, per altro, ricalca un atteggiamento costante in molti Padri della Chiesa: il dialogo fecondo - anche se non privo di punte polemiche - con la cultura classica pagana. Anzi, egli scriverà un De officiis, modellandolo sull'omonimo saggio di Cicerone, dedicato ai compiti morali della persona e, nel caso di Ambrogio, del fedele. È, questo, un esempio illuminante di un dialogo capace di varcare i recinti, di un confronto che conosce incontri, ma anche scontri, nella certezza però che i «semi del Verbo» divino, come dicevano i Padri, sono diffusi anche in terreni lontani. Nel II secolo, Giustino, che pure stava componendo un'Apologia del cristianesimo, non esitava a inserirvi queste righe: «Cristo è il Verbo di cui fu partecipe tutto il genere umano; e coloro che vissero secondo il Verbo sono cristiani, anche se furono giudicati atei come, fra i Greci, Socrate ed Eraclito ed altri come loro». Una lezione anche per i nostri giorni: un ascolto reciproco, serio e ben fondato, può essere benefico per credenti e non, tutti in ricerca umile e appassionata della verità.


card. Gianfranco Ravasi

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08/12/2011 11:03



Nanna, amor mio



Or vediamo il Bambino sgambettare nel fieno / con le braccia scoperte non cura del gelo; / la Madre lo ricopria con gran desiderio, / cullava il Bambino la Mamma sua: /Nanna, amor mio, con la grazia tua. / Chi vedesse quel Bambino quant'egli è dolce… Egli è il miglior re, che giammai sia nato, / il mielato Bambino di santa Maria! In questa giornata mariana abbiamo lasciato la voce - appena un po' ripulita dall'italiano arcaico - a uno dei frati giullari del Medio Evo che giravano per i villaggi come cantastorie religiosi. Uno di loro confessava che Dio gli aveva in visione suggerito: «Monaco, non approvo se te ne stai chiuso nel chiostro, preferisco il canto e il riso, perché il mondo ne ha più vantaggio». Chi ha raccolto queste voci, Franco Suitner, le ha assegnate, nel titolo del suo libro, ai Poeti col saio (Carocci 2010). Ed è uno di loro a dipingere con ingenua freschezza il quadretto della natività di Gesù che spicca davanti ai nostri occhi. È una vera e propria scenetta colorata con un Bambino sgambettante, ricoperto di tenerezze da sua madre. Secoli dopo, un ateo come Sartre ci lascerà un analogo delizioso ritratto nel suo dramma Bariona, modulandolo sulle sensazioni di Maria che guarda il visino del suo neonato e in esso scopre la straordinaria sorpresa: «È Dio, eppure mi assomiglia!». La semplicità di sentimenti che quell'antico poeta col saio ci propone è un invito a ritrovare un frammento di innocenza, una sorta di squarcio di cielo nella nuvolaglia di una vita adulta, smaliziata e maliziosa. Si potrà, allora, con un altro giullare intonare questa "litania" a Maria: «Fiore di bellezza raffinata, castello la cui porta non fu mai schiusa, salute nella debolezza, pace nella battaglia, fine smeraldo di provata virtù…».


card. Gianfranco Ravasi

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09/12/2011 11:31



Il genio e la gelosia



O privilegio del genio! Quando si è appena ascoltato un brano di Mozart, quel silenzio pieno di stupore, che per qualche attimo subentra, è stato scritto ancora da lui. A partire da Benedetto XVI, siamo in molti ad amare senza "se" e senza "ma" il genio di Mozart e, quindi, non possiamo non condividere questa nota curiosa ma vera di un personaggio dai mille risvolti come Sacha Guitry (1885-1957), commediografo, poeta, saggista, attore e regista. Quel silenzio colmo di stupore, che ti penetra nell'anima dopo aver ascoltato un brano di questo musicista che visse solo 35 anni, genera due sentimenti diversi. Da un lato, non può che lasciarci attoniti davanti alla grandezza del genio, un dono divino, un riflesso luminoso della trascendenza, un segno della bellezza suprema aperta a tutti perché la lingua della musica è universale. A livello più modesto, dovrebbe scattare anche la necessità di lodare, di esaltare, di riconoscere - senza la meschinità della gelosia - tutti i doni, i "carismi", che il Creatore effonde in tante persone, anche a noi vicine. D'altro lato, ascoltando Mozart, ma anche seguendo tutto ciò che l'arte o la grande scienza hanno creato, dovrebbe sbocciare in noi quel fiore timido ma spesso calpestato che è l'umiltà, la consapevolezza dei propri limiti, la modestia. A questo ci costringe ogni confronto col genio. Ma dicevamo che questo fiore è calpestato non solo da chi dovrebbe essere umile, ma anche dagli altri. È divertente ma pungente l'apologo di un altro grande, Cechov: «Si decise di festeggiare un uomo molto modesto. Soltanto alla fine del pranzo ci si accorse che ci si era dimenticati di invitare proprio lui, il festeggiato!».


card. Gianfranco Ravasi

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10/12/2011 10:09



COMMENTI VIVENTI



Un commento al Vangelo non si deve scrivere ma vivere. E ci sono molti più commenti viventi al Vangelo di quanto possa sembrare a prima vista. Propongo queste parole del filosofo austriaco Ferdinand Ebner (1882-1931), prima ateo e poi ardente credente, con qualche imbarazzo, avendo alle spalle una non piccola valanga di pagine di commenti biblici. Un imbarazzo che dovrebbe colpire anche i predicatori che, a partire da stasera e per tutta la giornata domenicale di domani, intesseranno esposizioni, spiegazioni, applicazioni sui testi biblici della liturgia. Già un ateo rimasto tale come il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche accusava in questi termini i cristiani: «Se la buona novella della vostra Bibbia fosse anche scritta sul vostro volto, non avreste bisogno di insistere così ostinatamente perché si creda all'autorità di questo libro: le vostre azioni dovrebbero rendere quasi superflua la Bibbia perché voi stessi dovreste essere la stessa Bibbia». Ebner, però, apre uno squarcio a cui affacciarsi: per le strade del mondo non ci sono solo visi pallidi di indifferenza o arrossati dall'egoismo; camminano tanti «commenti viventi al Vangelo», giovani e anziani, fedeli e persone che credono di non credere ma conducono un'esistenza specchiata e generosa. Ogni giorno li incontriamo e sono quelli — come scriveva ancora Ebner — che hanno abbattuto tra loro e gli altri e Dio «la muraglia cinese del proprio io». Mi piace, allora, finire con un augurio: che sia possibile anche per noi incidere sulla nostra tomba l'epigrafe che volle per sé questo filosofo: «Qui giace il resto mortale di una vita umana nella cui grande oscurità ha brillato la luce della vita e in questa luce ha compreso che Dio è amore».


card. Gianfranco Ravasi

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12/12/2011 19:08


LA FEDE DI SATANA



Satana è molto spirituale. La sua natura è la stessa di un puro spirito. In lui non vi è neppure un'oncia di materia. Non ha propensione per il materialismo banale. E quindi – ci si può scommettere – la spiritualità è il suo stratagemma. Ci si potrà sorprendere, ma è difficile contestare queste righe del libro La fede dei demoni (Marietti 1820, 2010) del filosofo francese Fabrice Hadjadj, nato nel 1971, di origine ebraica, convertito dall'ateismo al cattolicesimo. Satana, come insegna la dottrina tradizionale, è «puro spirito»; perciò, non è così ingenuo da affidarsi al materialismo greve per convertire a sé le persone più avvedute. No, sceglie spesso un'altra via, quella dello spiritualismo etereo, magico, esoterico che colma ormai intere biblioteche specializzate e si vende persino su eBay. Egli, allora, propone una sua fede, lasciando da parte gli attrezzi arrugginiti di un certo ateismo alla "Unione Atei Agnostici Razionalistici" che sa tanto di vecchia congrega miscredente e gaudente («Dio non c'è: goditi la vita!»). Satana predilige, invece, una spiritualità individualistica, egoistica, snob e detesta la "carnalità" cristiana che costringe a sporcarsi le mani nel curare malati, a varcare soglie di carcere rovinandosi la reputazione interessandosi ai colpevoli, a impantanarsi negli spazi fangosi riservati ai nomadi, a curare vecchi bavosi, servendo a mensa brutti ceffi affamati. Eppure, il Dio cristiano del Natale si nasconde proprio lì, nella carne degli ultimi della terra, lui che ha scelto di finire sull'equivalente di allora della sedia elettrica. Aveva ragione un altro filosofo più celebre, l'austriaco Ludwig Wittgenstein: «Il cristianesimo non è una dottrina, né una teoria sull'anima umana. È la descrizione di un evento reale nella vita dell'uomo».


card. Gianfranco Ravasi

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14/12/2011 08:54


ATTORI, AUTO E CALCIATORI



Ci sono difetti che sembrano oggi concepiti già nel ventre delle madri: parlo dell'infatuazione per la gente dello spettacolo, per le auto e i calciatori. Quanto tempo può concedere agli studi un animo assediato e preso da questi pensieri? E dove troviamo un giovane che parli di qualcos'altro a casa sua? E se entriamo in una scuola, che altri discorsi possiamo sentire tra i ragazzi? Persino i maestri non parlano d'altro! I lettori diranno: ecco un'altra pur giusta ma scontata lamentela sulla superficialità dei nostri giorni! E, invece, c'è una sorpresa: io ho sostituito tre parole – attori, auto e calciatori – a un testo desunto nientemeno che da Tacito, I secolo d.C., nel dialogo De oratoribus. Solo che lo storico romano, al posto della triade da me sostituita, aveva l'equivalente di allora: "istrioni, cavalli e gladiatori". Questo prova almeno due cose. Da un lato, l'importanza di leggere i classici e i testi fondanti della nostra civiltà, a partire dalla Bibbia: essi non hanno tempo e non cessano mai di insegnare e ammonire (l'abbiamo dimostrato anche ieri con Eraclito, come ricorderà chi ci segue con assiduità). D'altro lato, viene spontanea la riflessione sulla costante debolezza della creatura umana. La storia «non è magistra di niente per quel che ci riguarda», scriveva Montale. Essa si ripete e l'umanità continua a inciampare negli stessi errori, per cui «la storia è come una galleria di quadri con pochi originali e molte copie», come ironizzava il famoso storico francese dell'Ottocento, de Tocqueville. Eppure non ci si deve stancare di ribadire che l'uomo è libero e può andare controcorrente. Ha energie interiori e non soltanto la forza fisica per invertire la rotta, per abbattere certi idoli, per strappare le catene dei vizi, per non accodarsi alla massa, per ribellarsi alla tromba della moda e dell'opinione dominante. Le religioni dovrebbero essere una spina nel fianco che non fa tacere la coscienza e richiama ai veri valori.


card. Gianfranco Ravasi

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